tag:blogger.com,1999:blog-21754014935321997092024-03-08T04:41:43.504+01:00ROBERTO PECCOLO - scritti/intervistetesti e interviste di ROBERTO PECCOLO
pubblicati su riviste/giornali/cataloghiraffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comBlogger23125tag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-74730945822208295622022-02-02T19:15:00.002+01:002022-02-02T19:31:58.723+01:00Bruna Soletti (Il mio ricordo)<p><span style="font-size: medium;"><span style="font-family: Merriweather, serif; text-align: justify;">È
SCOMPARSA LA GALLERISTA E COMPAGNA DI VINCENZO AGNETTI. NE
RIPERCORRIAMO LA VITA E LA CARRIERA, IN ATTESA DI UN INCONTRO A CURA
DELL’ARCHIVIO AGNETTI CHE IL 25 NOVEMBRE NE CELEBRERÀ IL
COMPLEANNO E IL LAVORO.</span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="color: black;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEhGN2HeyUvjqjpH4RJAzvoXdRgwkoRiEvB5qAzn-l1TX15pEmwgXEzD_eDsJ6M97-OFp7wh-45XPY9_UxOsWZ21c4P6XRJVW1rNXAhsS1bdpXi0LHvcZHRERIyuiy720hQRr_ITsQsIcP2Ssp2KGg5u_bAEigNqusgvdGSutsyauexvX5k4oL3DN0Nj=s666" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="666" data-original-width="480" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEhGN2HeyUvjqjpH4RJAzvoXdRgwkoRiEvB5qAzn-l1TX15pEmwgXEzD_eDsJ6M97-OFp7wh-45XPY9_UxOsWZ21c4P6XRJVW1rNXAhsS1bdpXi0LHvcZHRERIyuiy720hQRr_ITsQsIcP2Ssp2KGg5u_bAEigNqusgvdGSutsyauexvX5k4oL3DN0Nj=w462-h640" width="462" /></a></span></div><span style="color: black;"><br /><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span><p></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif;"><br /></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Merriweather, serif; font-size: large;"><b>Bruna Soletti</b></span></span></p><p style="line-height: 0.74cm; margin-bottom: 0.56cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial; font-size: large;">Il 3 agosto 2020 è scomparsa Bruna Soletti, compagna e moglie di Vincenzo Agnetti e gallerista di primo piano nella Milano tra gli anni Settanta e Ottanta. Con Agnetti aveva vissuto e partecipato al fermento della vita artistica milanese degli anni 70 e dalla sua scomparsa nel 1981 era diventata la custode di buona parte della sua produzione artistica, difendendone strenuamente la memoria, nonché l’ispiratrice dell’attuale archivio. </span></p><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: helvetica;"><i>Il mio personale ricordo di BRUNA SOLETTI.</i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: helvetica;"><i><br /></i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: helvetica;"><i>Negli oltre 50 anni delle mie frequentazioni nel mondo dell’arte contemporanea non ho mai più avuto l’occasione di incontrare una persona come lei. A mio vedere Bruna Soletti era una personalità dal carattere forte, volitivo e ostinato. Nei confronti delle persone del nostro ambiente i suoi giudizi erano diretti, spesso taglienti ma sempre dichiarati frontalmente, mai dietro le spalle: insomma non te le mandava a dire e colpiva spesso un aspetto inaspettato dell’interlocutore. Con me aveva sempre tenuto un atteggiamento di benevolenza, anche se mi ha mandato a quel paese numerose volte, credo avessimo una reciproca stima. Ci avevano presentati durante la vernice della mostra di Castellani alla Pinacoteca di Ravenna nel maggio 1984 e già durante quel nostro primo colloquio le avevo espresso la mia passione per l’opera di Vincenzo Agnetti e il mio desiderio di fare una mostra con le sue opere nella mia galleria a Livorno chiedendole di aiutarmi. Però ho dovuto sudare sette camice prima di riuscire a realizzarla concretamente, ogni volta che andavo a trovarla nel suo spazio-galleria di Piazza Sant’Alessandro aveva sempre qualcosa di più urgente da organizzare, confessandomi poi che non le sembrava arrivato il tempo giusto per una mostra di Agnetti da me a Livorno; riteneva i prezzi delle opere sul mercato, in quel momento, ancora troppo bassi e quindi non intendeva svendere le opere a così poco. Infatti sono poi riuscito a realizzare la mostra nell’aprile 1997 quando i valori avevano cominciato a lievitare e a raggiungere quel minimo di quotazioni ritenute da lei interessanti. Grazie agli intensi anni vissuti nei momenti in cui scaturiva e poi si concretizzava il progetto per la rivista e la galleria “Azimuth” e, in seguito, negli anni in cui aveva preso la direzione della Galleria milanese L’Uomo e l’Arte, conosceva tutti e tutti la conoscevano, qualcuno la stimava e altri la denigravano ma lei, imperterrita, continuava il suo ritmo senza sosta. Conoscendola da vicino e frequentandola spesso avevo una ammirazione per il suo carattere forte e combattivo tipico delle persone che hanno passato molte battaglie. In modo particolare stimavo la sua coerente venerazione per la mente e per l’opera di Vincenzo Agnetti. Pur essendone la moglie, menzionandolo sia con gli estranei che con gli amici, parlava di lui sempre in terza persona dicendo “l’Agnetti ha fatto” oppure “Vincenzo Agnetti ha detto questo o scritto quello” non si riferiva mai a lui o alla sua opera come “mio marito” o “il mio compagno” questo era un particolare che mi aveva colpito sin dal nostro primo incontro. Aveva vissuto come testimone dall’interno a fianco di Agnetti, tra gli anni fine ’50 e 60, durante tutta quella fase di costituzione e lancio del gruppo e della rivista “Azimuth” di cui l’Agnetti era lo stimato teorico; infatti nella sua casa come nello studio di Agnetti si svolsero molti degli incontri tra i milanesi Manzoni, Castellani, Dadamaino con i tedeschi del gruppo Zero come pure con tutti gli altri artisti, italiani e stranieri, che frequentavano la Milano di quegli anni. Di fatto la casa e lo studio di via Machiavelli erano diventati un polo di attrazione per una ristretta élite di artisti radicali europei e internazionali che intendevano rinnovare l’arte dalla base; posizionandosi, casualmente, all’opposto della cerchia più ampia degli artisti frequentatori del Bar Giamaica di via Brera, dove la situazione era sempre aperta e variabile così che chiunque arrivasse a mostrare le sue capacità culturali veniva annoverato nella cerchia artistica della Milano dei ‘50/60. Quando in quest’ultimo decennio avevo cominciato a editare piccoli libretti sulle teorie dell’arte o sulle memorie di artisti gli avevo offerto molte volte di pubblicare un suo eventuale scritto di memorie su quegli anni formativi di “Azimuth” e sulle frequentazioni dello studio Agnetti o di via Machiavelli. Per facilitarne la riuscita ero arrivato a incaricare una critica d’arte che facesse con lei una conversazione o un’intervista; ma non c’è stato niente da fare si rifiutava categoricamente di narrare aneddoti sulle vicende e sugli incontri-scontri di quegli anni, non voleva fare gossip su una situazione che riteneva seria e importante. Mi è dispiaciuto molto non essere riuscito nel mio intento e, a mio avviso, con la sua scomparsa tutti noi abbiamo perso cognizioni su storie, aneddoti, avvenimenti e teorie che raccontati direttamente da una testimone partecipe come lei, ci avrebbero aiutati a capire meglio i fatti di quegli anni. Ma quella è stata per me una ennesima conferma della sua fermezza di convinzioni e della serietà della sua strategia nel difendere e diffondere l’opera di Agnetti che infine non mi è dispiaciuto rispettare.</i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: helvetica;"><br /></span></div><div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: helvetica;">Roberto Peccolo 20/10/20</span></div></div>galleriapeccolohttp://www.blogger.com/profile/12696965616123426178noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-51919918972758773892022-01-18T15:44:00.007+01:002022-02-02T19:16:08.682+01:00Lettera a Tristan Honsinger<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiVwiqiTPd0EYQmw6HLejm85Tzlj0KnPkJhCpKvQUwxD5lz1Q7bgOYc65Ayv8XIGzxD38uW9TEwd84Oms23Tv5hyjZn3m_qhjTKmj9QKdLDEgCQOWGbRsjMTDUeD5ixi5hdy1jGmTkoI20hBGCrrDn0mYRks728_Jc3CZAWfVope7K-zMKJKJeXT8gt=s669" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><br /></a><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiVwiqiTPd0EYQmw6HLejm85Tzlj0KnPkJhCpKvQUwxD5lz1Q7bgOYc65Ayv8XIGzxD38uW9TEwd84Oms23Tv5hyjZn3m_qhjTKmj9QKdLDEgCQOWGbRsjMTDUeD5ixi5hdy1jGmTkoI20hBGCrrDn0mYRks728_Jc3CZAWfVope7K-zMKJKJeXT8gt=s669" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"> </a><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEgeuAghW7belSWu3Kv5l4Ftuk5JJ44L5lft6_nT4-QqSPKXn6s-5ZJxeVRkZsGpRMNLD-QK-FP3arEvSoQstz_3ixomaNJrfaEbFo4X5wG_scGqZ3-q_h1sUe1HUemwtLASlCTxwBvY9tlb-xocsKvcDINqHuDp_qrVoDv0llxl-LEyX5JtPDWwX1Of=s669" style="font-family: arial; font-size: large; margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="669" data-original-width="489" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEgeuAghW7belSWu3Kv5l4Ftuk5JJ44L5lft6_nT4-QqSPKXn6s-5ZJxeVRkZsGpRMNLD-QK-FP3arEvSoQstz_3ixomaNJrfaEbFo4X5wG_scGqZ3-q_h1sUe1HUemwtLASlCTxwBvY9tlb-xocsKvcDINqHuDp_qrVoDv0llxl-LEyX5JtPDWwX1Of=w293-h400" width="293" /></a></div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: center;"><span style="font-family: arial; font-size: large;"><br /></span></div><span style="font-family: arial; font-size: x-small;"><div style="text-align: center;">T. Honsinger & K. Duck, galleria Peccolo 1981</div></span></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><span style="font-family: georgia;"><div style="text-align: justify;">Carissimo Tristan, ti ricordi...?</div></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Fino dagli anni 1964-65, per questioni di mio interesse artistico in relazione con la pittura moderna astratta e concreta, avevo cominciato ad ascoltare dischi di musica contemporanea, definita allora dodecafonica: Schöenberg, Stravinskij e poi Stockhausen, Berio, Maderna oppure gli americani Ph.Glass, J. Cage o M. Feldman. </span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Inoltre, mi ero appassionato al jazz, iniziando dal BeBop del dopoguerra per arrivare velocemente fino al free, degli anni dal ‘60 in poi, dei musicisti americani C. Parker, J. Coltrane, O. Coleman, M. Davis ecc.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Per questo quando ti incontrai la prima volta ascoltando i tuoi rumori, fraseggi, strilli e altre diavolerie dadaiste di cui eri capace di far sortire dal tuo violoncello durante un tuo concerto, non mi impressionai più di tanto ma, soprattutto, non lo rifiutai in toto come spesso capitava anche tra quegli che si dichiaravano interessati del jazz, che fosse più o meno free e improvvisato.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Fu così che una volta incontratoti a Roma, durante un festival, ti invitai a tenere un concerto “solo” da me, in galleria, nell’ottobre 1979. Quella sera il tuo concerto fu straordinariamente “folle” e, a parte me e pochi altri appassionati di free jazz estremo, seppi che non piacque al pubblico presente in galleria; erano intervenuti più per la curiosità e con la convinzione di ascoltare una musica che consideravano “ancora ascoltabile” anche se free.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">A parte il risultato di quella sera ho avuto il piacere col tempo di frequentarti e diventare tuo buon amico e non ho mancato occasioni per invitarti ancora a Livorno a svolgere altre performance nella mia galleria da solo o in compagnia di altri musicisti tuoi amici come Sean Bergin, Barre Phillips oppure, quando ci riuscivo, ti organizzavo qualche serata in club o spazi pubblici dei dintorni.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Come sai, durante tutti gli anni ‘70/80 giravo spesso, per visitare e organizzare mostre d’arte contemporanea in Europa e specialmente in Germania e Olanda dove nasceva in quegli stessi anni un forte interesse per quel versante del free-jazz che avevano definito “creativo improvvisato”.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Tanti, infatti, erano i musicisti tedeschi che acquistavano buona considerazione e successo nei Festival specializzati di Musica Creativa Improvvisata per esempio Peter Kowald, Peter Brotzmann, Gunter Sommer, Barre Phillips e altri; ma anche la colonia degli olandesi attivi in questo settore era fitta: Han Bennink, Misha Mengelberg, Evan Parker, ecc.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Tutti musicisti che ruotavano intorno alla Globe Unity Orchestra e alla temeraria e innovativa casa discografica F.M.P. di Berlino.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Così in quegli anni le nostre strade si incrociavano spesso e ci ritrovavamo in qualche festival in cui tu suonavi e io ti ascoltavo, a volte con fatica, a volte con molto piacere. Fino a quando un giorno ho saputo che a Munster (oppure era Moers?) in Westfalia c’era in programma un festival di tre giorni di teatro/danza/e musica improvvisata. Scoprii che eri stato invitato a partecipare ed era stata invitata per la danza anche Katie Duck, all’epoca tua moglie. Ci organizzammo per fare il viaggio insieme e io mi proposi di trasportarvi gratuitamente con la mia auto e di guidare fino a Munster (o Moers?) città che conoscevo bene perché avevo organizzato delle mostre d’arte italiana nel Kunstverein locale.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">A te il viaggio non sarebbe costato niente e a me dava soddisfazione l’idea di partecipare a un evento che reputavo in quel momento “fondamentale” perché riuniva tutti insieme ininterrottamente per tre giorni e tre serate molte delle formazioni e degli autori di quello specifico movimento che, altrimenti, agivano separatamente per concerti sparsi intorno all’Europa e per il mondo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Infatti, i miei entusiasmi nei confronti di quella tre giorni erano derivati dall'illusione che questa fosse la buona occasione per fissare una storicizzazione a quella “situazione” che era in atto e che doveva amalgamarsi in qualcosa di più consacrante ma, soprattutto, ricevere finalmente un ampio riconoscimento dalla critica e dalla stampa e non fosse soltanto la famosa Globe Unity Orchestra che si riuniva in occasioni sempre più rare e dispersive. </span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Questo era il pensiero che mi spinse con entusiasmo a essere presente all’evento. Partimmo carichi di entusiasmo e portai con me la mia piccola canon per riprendere e fotografare le serate e già mi prefiguravo un ampio articolo sull’avvenimento da pubblicare su una rivista tedesca, Kunstforum, con cui avevo una collaborazione per articoli su pittori, scultori e fotografi d’arte contemporanea. Nella mia mente vedevo un parallelo tra le formazioni che si davano battaglia e confronto sulle tavole del teatro locale di Munster (Moers?) e le sperimentazioni contemporanee che conoscevo e seguivo come gallerista in campo artistico e pittorico, portate avanti degli artisti visivi dal Fluxus dai Situazionisti e dalle performances del teatro d’avanguardia dei gruppi italiani quali “Magazzini Criminali”; “Gaia Scienza” e altri.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Carichi di “armi e bagagli”, come si dice, con il violoncello che occupava la parte posteriore e mi copriva parzialmente la retrovisione, guidai alla volta della Westfalia.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Non fu un viaggio molto tranquillo perché con te e tua moglie c’era anche la piccola Ilaria (allora doveva avere 2-3 anni) che ogni tanto faceva capricci e voleva fermarsi per essere cambiata o mangiare o muoversi un po’. Fu una lunga e faticosa giornata fino all’arrivo nella fredda sera del nord della Germania. Vi lasciai all'albergo prenotatovi dagli organizzatori e io andai in un hotel non lontano dal teatro.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, cominciarono a susseguirsi le performance che salvo alcuni brevi intervalli per il cambio strumenti o innesti delle attrezzature, continuavano senza sosta fino alla serata e a notte inoltrata. In quei tre giorni ho assistito a molte azioni dettate dalla volontà di improvvisare con eclatanti trovate ma poche erano le personalità che riuscivano veramente a creare un unisono d’insieme con gli altri partecipanti. </span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Musicisti, attori o danzatori che entravano o uscivano o restavano contemporaneamente sul palco. A chi non era abituato dovevano sembrare delle sarabande scatenate di personaggi un po’ pazzi in cerca di far risaltare la loro visione libertaria di musica e movimento scenico di stampo dadaista.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Però, che io mi ricordi, malgrado tutta la scena caotica che si svolgeva sul palco, non ci furono scontri o incidenti tecnici o esagerazioni estreme. Salvo quel momento quando un artista cercò di installare una bicicletta in bilico sopra il pianoforte mentre Misha Mengelberg stava suonando un suo pezzo da solo, rischiando così di rompere il piano e di far crollare la bici in testa al pianista.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Misha non si scompose più di tanto, continuò il suo intervento cambiandone il ritmo e la bici fu poi rimessa in terra. Malgrado tutta quella caotica insalata mista di gesti, movimenti e suoni, alla fine, qualche sprazzo di unità di intenti e di suoni all’unisono sono riuscito a sentirlo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">I tuoi duetti con Brotzmann o altri trombettisti o trombonisti come Evan Parker erano sempre improntati sulla velocità di esecuzione e sulla reciproca ricerca di una amalgama tra armonie e disarmonie correlate. Di quelle serate mi è rimasto indelebile la caoticità dei movimenti e degli interventi che si susseguivano ma anche quel sentimento di appagamento per i felici momenti di amalgama e unisono quando veniva raggiunto un “feeling” tra due o più partecipanti.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial; font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEidQqsQo86YL_qlORLlhX2ZANv8gFOrNHG78eUNuau-WjIyXrrSsnn5_CPYu3Ugwgb6rf8hUNaygV3JmXaXI8-F6V8KTwbXVEDHoSVL8CeAwhmkvQxpUjHqdiWoFJL5OgQ-qKVlM7SSQfn7x9sPuMuRGkFemq4A-FaB5ZlPOr729A9SD6hHu-Q0Fx52=s861" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="635" data-original-width="861" height="295" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEidQqsQo86YL_qlORLlhX2ZANv8gFOrNHG78eUNuau-WjIyXrrSsnn5_CPYu3Ugwgb6rf8hUNaygV3JmXaXI8-F6V8KTwbXVEDHoSVL8CeAwhmkvQxpUjHqdiWoFJL5OgQ-qKVlM7SSQfn7x9sPuMuRGkFemq4A-FaB5ZlPOr729A9SD6hHu-Q0Fx52=w400-h295" width="400" /></a></div><br /><div style="text-align: center;"><span style="font-family: arial; font-size: x-small;">Tristan Honsinger Moers Festival improvv. musik, 1983</span></div></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial; font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Ritornato a Livorno preparai un breve scritto accompagnato da foto b/n di quelle serate e lo inviai a Mainz alla redazione di Kunstforum che ne fece un bell’articolo di 4 pagine pubblicandolo nel numero uscito nel mese successivo. Purtroppo il tempo e la polvere sono calati per molti anni su questi avvenimenti e attualmente non saprei proprio dove ritrovare una copia delle rivista che mi farebbe piacere regalarti.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Invece, ho ritrovato i negativi da cui ho stampato alcune foto dove si vede te insieme con gli altri musicisti sul palco e Katie che danza lì vicino.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Spero che queste stampe risveglino in te un buon ricordo di quel periodo, di quelle tre serate e della nostra amicizia.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">La scorsa settimana ho ricevuto i tuoi collages che mi hai spedito da N.Y.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Ti ringrazio, mi sono piaciuti molto e mi hanno ricordato formalmente, attraverso un materiale meno aleatorio della musica come la carta, le volute, i ghirigori e gli scatti da te fatti durante i concerti.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Spero vivamente che avremo ancora occasione di ritrovarci a breve anche se, purtroppo, dal 31 dicembre 2019 ho chiuso ogni attività della galleria. </span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Ti confesso che mi piacerebbe molto averti mio ospite nello spazio che ho ancora e che vorrei dedicare a incontri culturali, per ascoltarti ancora una volta.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Ti auguro una migliore salute e che tu riesca a riprendere la tua musica con il tuo violoncello, unico amore della tua vita, che continua a seguirti e non aspetta altro che tu riprenda a suonarlo, principalmente, per la gioia tua e per chi, come noi, ti ascolta.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Spero molto che questo mio scritto di memorie ti faccia ricordare con nostalgia ma anche con affetto quegli anni in cui, tutti noi, eravamo più giovani e pieni di volontà creativa e voglia di fare; convinti che, grazie alle nostre azioni, qualcosa, prima o poi, sarebbe cambiato.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Sicuramente non era una rivoluzione, ma c’era almeno un pensiero di libertà creativa.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: georgia;">Un grande abbraccio da Livorno da me e dagli amici che ti ricordano con affetto, Steve, ecc. ecc.</span></div><div style="text-align: justify;"><span><span style="font-family: georgia;">Roberto</span></span></div>galleriapeccolohttp://www.blogger.com/profile/12696965616123426178noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-34271812613937588172017-02-02T16:53:00.002+01:002022-02-02T19:17:30.655+01:00 Un omaggio al “Ghandi della pittura moderna”.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://1.bp.blogspot.com/-YjuEQJhoIzM/WJNVdNMQdXI/AAAAAAAAOHQ/YTO5L7gW68U2Af_hoZHKd4ppkyt_k1PvQCEw/s1600/Schermata%2B2017-02-02%2Ba%2B16.57.59.png" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://1.bp.blogspot.com/-YjuEQJhoIzM/WJNVdNMQdXI/AAAAAAAAOHQ/YTO5L7gW68U2Af_hoZHKd4ppkyt_k1PvQCEw/s320/Schermata%2B2017-02-02%2Ba%2B16.57.59.png" width="252" /></a></div>
<span style="font-size: large;"><b>Phillip Martin</b></span><br />
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Con questa mostra la mia Galleria continua la stagione espositiva 2017/2018 con la serie di personali dedicate ad artisti contemporanei pensati come “Grandi isolati”. Artisti che pur operando in sintonia con l’arte del loro tempo, ad un certo momento hanno deciso di ritirarsi dalla scena artistica, per continuare il proprio lavoro lontano dai clamori e non subire pressioni dal mercato. Il loro era un vano solipsismo oppure l’onesta reazione ad un ambiente artistico che sentivano soffocante ad ogni tentativo di sincera creatività ? Sono sicuro che un giorno non lontano tutto il sistema dell’arte moderna e contemporanea si ritroverà a fare i conti con le opere che questi artisti ci hanno lasciato. Sarà una eredità ingombrante da capire e da gestire ma che riprenderà la sua giusta posizione all’interno delle ricerche artistiche del secondo dopoguerra. <br />
In quel momento, per usare una metafora, sarà finalmente restituito a Cesare quello che gli <br />
Dopo la recente mostra dedicata al francese Michel Macréau; per questa seconda occasione ho scelto di esporre le opere di Phillip Martin (Cork, Irlanda 1927 – Sydney 2014) che il noto critico francese Alain Jouffroy, in un suo scritto, aveva definito “il Ghandi della pittura moderna”. Un artista giramondo, hippie che dipingeva quadri “spirituali” colmi di simbologie, decorazioni ed effigi a evocare paramenti sacri o addobbi di templi orientali. Dopo la fine degli anni ’40 aveva iniziato con sua moglie irlandese Helen Marshall, anche lei pittrice, a viaggiare e dipingere in tutta l’Europa. Sarà in Austria, a Vienna, dove prenderà corpo per la prima volta la serie di opere sul tema “Affiche-Collage”; tema che lo accompagnerà per tutta la sua vita artistica. Ha soggiornato ed esposto a Parigi, in Irlanda, Italia, Belgio, Spagna ha soggiornato a lungo in India del sud e, a partire dagli anni ‘80, si è stabilito in Australia nei pressi di Sidney. La prima personale italiana è stata a Firenze nel 1951 presso l’eroica Galleria di Fiamma Vigo.<br />
Avevo già accennato nel precedente catalogo di Michel Macreau come ero entrato in contatto con le opere di Phillip Martin: tutto era cominciato nel 1983 quando visitando la casa del famoso collezionista, diventato poi artista lui stesso, Guglielmo Achille Cavellini, avevo visto una diecina di opere tra carte e tele di Phillip Martin che mi erano piaciute molto, infatti le avevo prese con me. Ricordo che il Cavellini mi aveva parlato con molto entusiasmo di questo artista del quale stimava il lavoro e ne apprezzava particolarmente la personalità e soprattutto il modo in cui conduceva la propria vita errabonda e hippie, ancora prima che questa diventasse una moda internazionale. Mi parlò a lungo di lui e delle sue poetiche. Ho scoperto solo più tardi, quando mi regalò il suo libro di memorie “GAC, 1946-1976 incontri/scontri nella giungla dell’arte” edito nel 1977, che tutta quella nostra conversazione l’aveva già descritta in quel libretto. Così oggi, ho deciso di riproporre quel testo nel presente catalogo perché trovo che sia una acuta testimonianza utile alla comprensione dell’opera di Phillip Martin per il pubblico odierno e inoltre perché leggendo lo scritto si percepisce un artista che guarda ai quadri e al comportamento di vita di un suo collega con, inconsciamente o meno, una velata punta di invidia per la radicalità con cui l’altro conduce la sua vita. Come ulteriore resoconto sull’uomo e l’artista Phillip Martin ho riprodotto qui una sua lettera, a me indirizzata, nella quale sono, in parte, spiegate le ragioni del suo isolamento australiano.<br />
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Roberto Peccolo 20/01/2017<br />
<br />raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-61328238714795819002016-11-03T16:56:00.002+01:002022-02-02T19:19:13.707+01:00 Sulle tracce di un artista<a href="https://4.bp.blogspot.com/-46jLPaoPfHI/WBta-p0ugTI/AAAAAAAANuY/7xeLr_Zyv2AHNdbttXlhF7x6wpTvUZ1zQCLcB/s1600/MACREAU.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://4.bp.blogspot.com/-46jLPaoPfHI/WBta-p0ugTI/AAAAAAAANuY/7xeLr_Zyv2AHNdbttXlhF7x6wpTvUZ1zQCLcB/s320/MACREAU.jpg" width="246" /></a><b>Michel MACREAU </b><br />
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La prime opere che ho visto di Michel Macréau sono stati due grandi quadri che misuravano cm. 195x130 “La Femme du Monde 1961” e “La faune humaine” del 1962, erano nella cantina del prestigioso collezionista e artista Guglielmo Achille Cavellini, nella sua villa di via Bonomelli a Brescia. Aveva venduto la villa e doveva renderla libera per trasferirsi in un piccolo e per lui più comodo appartamento in centro; nel frattempo aveva già liquidato la maggior parte della sua famosa e prestigiosa collezione, cominciando dalle opere più importanti. La sua era stata una collezione che aveva fatto epoca e che aveva ricevuto molti onori ed esposta nei maggiori e più prestigiosi Musei Europei sino dagli anni ’60. L’aveva formata girando l’Europa e raccogliendo oltre un migliaio di capolavori internazionali dell’arte moderna e contemporanea che coprivano l’intero arco di tempo: dall’iniziale Gruppo degli Otto e gli Informali del dopoguerra (tra i quali grandi lavori di Burri, Fontana, Rauschenberg, ecc.), su fino ai protagonisti dell’Arte Concettuale e Fluxus che in quegli anni erano in grande “auge”. Aveva preso quella drastica decisione economica per ottenere un capitale utile a sostenerlo e potersi liberamente concentrare sulla sua sincera passione d’artista e nell’ideale in cui credeva: la propria “Autostoricizzazione”. Questo gli avrebbe permesso di realizzare, senza impellenze un'ampia produzione di opere e di realizzare gli indispensabili libri, cataloghi e monografie utili alla diffusione del suo ideale. <br />
Dunque nel settembre del 1983 ci eravamo sentiti al telefono e mi aveva invitato a vedere se tra le opere ancora disponibili rimaste nella cantina che doveva sgomberare, ci fossero dei quadri che potevano interessarmi, utili per le mostre che facevo in quegli anni.<br />
Fu in quella occasione che insieme con i due Macreau vidi anche 7-8 grandi quadri della serie dei “palimpsesti” degli anni ’60 di Georges Noël e una diecina tra carte e tele di Phillip Martin, oltre ad alcuni piccoli quadri di altri autori in quel momento fuori mercato. Così decidemmo di fare tutto un blocco d’insieme e mi portai le opere a Livorno. Sui tre artisti Cavellini mi aveva dato ampie informazioni dicendomi dove e come li aveva incontrati, durante quei primi anni ‘60 in cui girava per le gallerie parigine, e da chi aveva comprato quei quadri. Perciò, con l’idea di fare mostre con quegli autori e le loro opere, da allora cominciai a fare ricerche sugli artisti che in quel momento qui in Italia quasi nessuno ricordava. Di Georges Noël ricevetti presto notizie e informazioni anche da Paul Facchetti (storico gallerista parigino di origine bergamasca –si deve alla sua galleria, lo Studio Facchetti che aveva aperto a Parigi nel 1951, la prima mostra nel 1952 di Jackson Pollock in Europa). Così potei prendere contatto con Noël e cominciare a collaborare con lui direttamente esponendo in diverse mostre i quadri che avevo e in seguito anche le sue opere recenti, cosa che abbiamo continuato a fare fino alla sua scomparsa nel 2011.<br />
Di Phillip Martin, il Cavellini mi aveva dato ampie informazioni e una serie di articoli che aveva scritto su di lui in libri e riviste, ma non sapeva darmi notizie più attuali. Ricevevo invece sporadiche notizie dai vari galleristi italiani e francesi dove era passato ed aveva esposto: Venezia, Firenze, Milano, Parigi. Ma ognuno alla fine non sapeva dirmi dove era andato a stabilirsi. Soltanto Rudolf Stadler, lo storico gallerista di Rue de Seine a Parigi, ricordandosi che era passato da lui recentemente, mi procurò gentilmente un indirizzo in Australia dicendomi che l’artista, pare, fosse andato a vivere là per ritirarsi completamente dalla scena artistica internazionale di cui si era stancato. Anche con Phillip Martin ho intrapreso una relazione epistolare invitandolo più volte a venire in Toscana per esporre da me, ma alla fine, purtroppo, non siamo mai riusciti a realizzare la nostra collaborazione e il mio progetto.<br />
Mi rimanevano soltanto i due misteriosi quadri, dipinti con forte espressività quasi primitiva e dalla figurazione selvaggia che mi ricordavano, per certi particolari, gli artisti “outsider” dell’ Art Brut. Così cominciai a fare domande soprattutto tra i galleristi parigini e qualcosa si schiarì quando qualcuno mi disse di rivolgermi a M.me Cerez Franco che aveva una galleria, “L’oeil-de-boeuf” in Rue Quincampoix , vicino al Centre Pompidou, dove esponeva artisti sud americani e dell’Art Brut, pare che avesse fatto un paio di mostre a lui nel 1967 e 1974.<br />
Quando entrando in galleria chiesi alla gentile signora di mezza età che era dietro al banco notizie di Macréau, la signora Franco si illuminò dicendomi subito che lo stimava come uno dei grandi artisti della giovane scena artistica parigina dei primi anni ’60, ma che poi lo aveva perso di vista perché si era stabilito nel centro della Francia in un paesino e non si era fatto più vedere da anni; ma gentilmente mi regalò tutta una serie di dépliant e cataloghini di personali o collettive dove erano riprodotti quadri di Macréau. Non era molto, ma finalmente una traccia da seguire. Fu solo qualche tempo dopo, girando per le vetrine di antiquari e gallerie di Rue Guenegaud (una parallela di Rue de Seine, nel quartiere latino) in attesa di andare ad una inaugurazione, mentre stavo ammirando la vetrina di un antiquario dove c’erano esposti dei bellissimi vetri Gallé e Daum, che intravidi appeso ad una parete un quadro che a prima vista mi ricordava le opere che avevo di Macréau, così entrai e dal fondo avanzò una anziana signora dall’aspetto molto signorile che mi chiese cosa mi interessasse. Gli domandai se quel quadro appeso era un’opera di Macréau e lei si meravigliò molto perché non si aspettava che conoscessi il nome dell’artista, e soprattutto che mi interessassi a lui in quanto gallerista straniero. Finimmo per parlare di Macréau, ma mi disse subito che non voleva vendere quell’opera a cui era molto affezionata, comunque mi mostrò 4-5 lavori su carta degli anni ’60 che gli erano rimasti e che acquistai facilmente per il prezzo sin troppo ragionevole. Quella gentile signora si chiamava Henriette Legendre e aveva avuto una galleria che aveva fatto storia nella Parigi degli anni ‘50/60 e proprio in quegli anni aveva esposto Macréau. Ma aveva anche tenuto a battesimo con le loro prime personali, alcuni dei futuri protagonisti del Novo-Realismo parigino. E fu proprio lei, visto l’entusiasmo con cui parlavo delle opere di Macréau, che mi dette un indirizzo e un numero di telefono. Fu così che un anno dopo andai a trovare, nel cuore della Francia, Michel e Claudie Macréau che con i loro tre giovani figli abitavano in campagna ai limiti di una folta boscaglia, in una vecchia casa di contadini riadattata da un vecchio fienile, nel quale era stato ricavato lo studio di Michel Macréau. Nel frattempo Georg Nothelfer un prestigioso gallerista internazionale di Berlino, anche lui appassionato di arte dalla forte connotazione espressionista, aveva comprato i miei due quadri ed aveva fatto nella sua sede di Berlino una buona mostra di Macreau con un bel catalogo. E un’altra galleria di Parigi, la Barbier-Belz, aveva cominciato a lavorare con lui e lo aveva esposto sia in galleria che alla prestigiosa fiera d’arte FIAC del 1989.<br />
Claudie e Michel Macréau vennero a Livorno per l’inaugurazione della mostra personale che finalmente ero riuscito a realizzare nell’ottobre del 1989, e per me, come per loro, fu una bella festa di vernissage. E quando nel settembre del 1994 organizzai nel Palazzo Martinengo a Brescia la mostra “Un certain regard, il ritorno di una grande pittura francese fuori corrente” avevo predisposto che la sala con i suoi quadri fosse a diretto confronto con quella contenente le opere di Robert Combas, proprio per evidenziare l’affinità brutale tra le due opere ma anche il contrasto sia generazionale esistente tra i due (Combas è del 1957 e Macréau del 1935), che gli intenti di lavoro. Mentre il brutalismo di Combas, a mio avviso, proveniva dal mondo dei comics, dai graffiti delle strade, dalla horror vacui della fitta decorazione a tappeto utile e riempitiva degli spazi e dei personaggi descritti nel quadro, quello di Macréau, secondo me, proveniva inizialmente dagli incubi provocati dall’abbruttimento causato da una “vita difficile”, dall’abuso di alcool o droghe che poi in seguito lui decantò nella narrazione di avvenimenti del quotidiano, di riferimenti alle favole popolari e alle fantasticherie di vita agreste, rustica. Ma era evidente che la sua pittura era impregnata di cultura visiva europea, francese; in particolare dal “segno” delle ceramiche e delle incisioni di Picasso e dal “colore” di Matisse. La narrazione in lui era sempre favolistica e fantasmagorica, inscenata si, su una superficie ma mai piattamente decorativa, nei suoi quadri c’era sempre, leggibile, una storia di vita vissuta o immaginata tale. In Macréau c’era la “coscienza” di essere artista e la volontà di esprimere nell’opera i suoi sentimenti siano essi stati brutali o euforici. Questo particolare determina la fondamentale differenza e distanza della sua opera nei confronti degli artisti dell’Art Brut che tanto piacevano a Dubuffet. <br />
Come pure con gli artisti metropolitani newyorkesi più recenti. Il riferimento e il confronto visivo e formale con le opere milionarie di Basquiat sarebbe qui fin troppo facile ma altrettanto inutile. I loro due mondi, due visioni dell’opera e della narrazione artistica, credo, che siano diametralmente opposti. L’uno ha sempre esaltato l’immagine del degrado metropolitano e della brutalità di quartieri newyorkesi quali il Bronx e il Queen, ma anche le insegne di Broadway e le mille luci colorate di Times Square e la rapida ascesa del suo successo di mercato era dovuto alla frequentazione della cerchia di Andy Warhol ma anche dagli abili brokers, che stavano dietro l’angolo, a Wall Street, sempre rapidi nel cercare investimenti redditizi. Macréau, invece si manterrà volutamente il semplice narratore di favole e di sentimenti rustici e naturali sinceramente legati alla madre terra. Le sue opere, in Francia, saranno troppo spesso incluse nella cerchia degli artisti della “Figurazione” o dell’”Art Brut”. E la mancanza di successo delle sue opere sul mercato ritengo sia dovuto allo scellerato sistema, autoreferenziale, del mercato d’arte parigino, di cui perfino Pierre Restany, a metà degli anni ‘60 si lamentava, quando scrisse: “La Galerie de France, un nome predestinato, vendeva, a due passi dalla boutique di Hermès, sul Faubourg St. Honoré l’articolo di Parigi, in pittura, di cui aveva il marchio depositato. Insomma l’arte della "Êcole de Paris", infischiandosene altamente di quello che succedeva a New York, o altrove, se la passava bene. Un po’ troppo bene. Così non si avvidero dei colpi di mano in serie. Di tutta una serie di colpi di mano che poco dopo avrebbero disturbato quella atmosfera euforica e soddisfatta..”. Infatti, a mio avviso, la mancata affermazione e il successo dell’arte di Macréau sta subendo gli stessi ostacoli che per anni hanno intralciato la carriera di un altro artista francese “grande isolato”: Gaston Chaissac, del quale, finalmente oggi, 50 anni dopo la morte, nessuno più dubita. Credo che, in Francia e in Europa, sia ormai arrivato il momento giusto nel quale chi fino ad ora ha preteso onori e gloria per l’Opera di Michael Basquiat riconosca onori e gloria anche per l’Opera di Michel Macréau.<br />
Per alcuni anni dopo gli avvenimenti sopra descritti, le nostre strade hanno preso sentieri diversi e non ci siamo più incrociati. Purtroppo lui è mancato nel 1995, ma io ho continuato a seguire il suo lavoro attraverso le mostre e le opere che incontravo sia in gallerie che nei Musei.<br />
Ultimamente, dopo venti anni dalla sua scomparsa ho deciso che era giunto il momento di riproporre all’attenzione del mio pubblico e della critica le sue opere con questa succinta mostra. Che niente pretende se non di rendere omaggio ad un artista e ad un uomo che ha vissuto la sua vita nel pieno della sua arte. Ringrazio qui per il sostegno a questo mio progetto Claudie e Ludo Macréau, i sigg. Monique e Jacques Latournerie e Yan Ciret che ha scritto con la sua solita attenzione la prefazione a questo catalogo. Roberto Peccolo, ottobre 2016<br />
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<br />raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-6958175506899286022014-02-24T10:49:00.005+01:002015-03-18T08:43:42.534+01:00Reading a Legnano<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://1.bp.blogspot.com/-Kw5tTZ9kfeg/UwsVXppwouI/AAAAAAAAIG4/Bdwx819eIbY/s1600/invito+1+marzo+legnano-2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://1.bp.blogspot.com/-Kw5tTZ9kfeg/UwsVXppwouI/AAAAAAAAIG4/Bdwx819eIbY/s1600/invito+1+marzo+legnano-2.jpg" height="268" width="320" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial;"><u><strong>SABATO 1 marzo 2014 alle ore 16</strong></u></span></div>
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<span style="font-family: Arial;">Museo Sutermeister di LEGNANO </span></div>
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<span style="font-family: Arial;">corso Garibaldi 225</span></div>
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<span style="font-family: Arial;"><br /></span></div>
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<span style="font-family: Arial;">un pomeriggio di reading di Poesia e Conversazione tra</span></div>
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<span style="font-family: Arial;">Roberto Ferdani e Roberto Peccolo sul tema dei poeti e dei pittori nella</span></div>
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<span style="font-family: Arial;">New York degli anni cinquanta: "<strong><em>O'Hara , Mike Goldberg e Norman Bluhm</em></strong>"</span></div>
raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-74937791879384230932012-10-31T18:46:00.002+01:002022-02-02T19:20:12.412+01:00Ciao, Ettorino<br />
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<span style="font-size: medium;"><span style="font-family: Arial;">Ettore </span><span style="font-family: Arial;">Sordini, pittore </span><span style="font-family: Arial;">nato a Milano nel 1934 é deceduto a Cagli (PU) il 27 ottobre 2012.</span></span></div>
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<span style="font-family: Arial; font-size: medium;"><br /></span></div>
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<span style="font-size: medium;"><span style="font-family: Arial;">Sordini: che </span><span style="font-family: Arial;">Emilio Villa aveva definito </span><span style="font-family: Arial;">"<em><strong>Il più balengo e più eroico dei pittori d'alta quota</strong></em>",</span></span></div>
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<span style="font-family: Arial; font-size: medium;">e che Luciano Bianciardi chiamava "<em><strong>Ettorino"</strong></em> nel su libro "<em>La vita agra</em>". </span></div>
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<span style="font-family: Arial; font-size: medium;">Ciao, <em>Ettorino.</em> </span></div>
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<span style="font-family: Arial; font-size: x-small;"><br /></span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<a href="http://2.bp.blogspot.com/-Zysxo06dBjY/UJFnyoFlTsI/AAAAAAAAGMs/DZZIMX89foc/s1600/Sordini_Peccolo2.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="http://2.bp.blogspot.com/-Zysxo06dBjY/UJFnyoFlTsI/AAAAAAAAGMs/DZZIMX89foc/s320/Sordini_Peccolo2.jpg" width="320" /></a></div>
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<span style="font-family: Arial; font-size: x-small;"><br /></span></div>
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raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-61634966951732876722012-04-28T12:46:00.001+02:002012-04-28T12:46:10.869+02:00<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://1.bp.blogspot.com/-qZoMhBiojLk/T5vKW2ck5jI/AAAAAAAAFyw/R-CFlldVWv8/s1600/Tossi+Repubblica.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://1.bp.blogspot.com/-qZoMhBiojLk/T5vKW2ck5jI/AAAAAAAAFyw/R-CFlldVWv8/s320/Tossi+Repubblica.jpg" width="116" /></a></div>
<br />raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-9852769007156511772011-04-04T18:48:00.005+02:002018-01-26T13:15:09.707+01:00Libri d’Artista<a href="http://4.bp.blogspot.com/--hWr_POvWRE/UJFhotywEJI/AAAAAAAAGMU/NsiEkh7UZhw/s1600/conferenza_.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://4.bp.blogspot.com/--hWr_POvWRE/UJFhotywEJI/AAAAAAAAGMU/NsiEkh7UZhw/s320/conferenza_.jpg" width="317" /></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Recentemente ho sentito come uno sviluppo naturale del mio, più che quarantennale impegno di Gallerista (e di organizzatore di mostre), il desiderio di editare non soltanto delle monografie o dei cataloghi di mostre, cosa che normalmente in tutti questi anni passati ho sempre fatto, ma dei veri e propri Libri creati da un Artista.<br />
In particolare, una sorta di Libro d’Artista che per ogni autore scelto fosse un giusto equilibrio fra il libro auto-biografico, o di narrazione aneddotica, e il “Libro/Oggetto” (quel tipo di libro che, al suo limite estremo, rischia di diventare una quasi scultura). Ho cominciato da poco più di 4 anni a realizzare ed editare questa mia serie di Libri Speciali, tutti con la medesima caratteristica di base. Ho tenuto costanti il formato, le 32 pagine, i caratteri, il colore e l’impostazione della copertina, lasciando l’interno alla totale libertà dell’artista nel decidere cosa inserire: solo immagini, solo testo, un misto fra testo e immagine.<br />
Ho voluto chiamare questa collana "Memorie d’Artista". Ogni Libro è a tiratura limitata di 200 copie di cui:170 con numerazione araba e firmati dall’autore e 30 con numerazione romana (XXX) numerati e firmati dall’autore, ma contenenti una piccola opera originale, un intervento, un disegno, un segno, qualcosa che lo renda unico.</div>
<span style="text-align: justify;">Fino a ora i Libri li ho proposti e organizzati in collaborazione con gli artisti con i quali sono più o meno a stretto contatto, penso che in futuro, però, inviterò anche artisti con cui non ho mai lavorato. L’unica richiesta che avanzo è che l’eventuale parte scritta e le immagini presenti nel Libro siano coerenti e interconnesse fra loro, ed entrambe siano sempre create in esclusiva dall’autore per la mia edizione.</span><br />
<div style="text-align: justify;">
Cerco di collocare questa serie di Libri in quel territorio intermedio della piccola editoria che presumo essere ancora <i>libero</i> e che sta fra quei volumi che nelle librerie si definiscono Libri sull’Arte o sugli Artisti, cioè quel genere di Libri che vanno da una piccola o grande monografia sull’autore, alla raccolta di scritti o teorie, fino a quelli che illustrano temi e argomenti delle varie correnti artistiche. Mi fermo, però, al limite di quei libri completamente elaborati di cui parlavo prima, cioè quel tipo di Libro/Oggetto che è talmente “costruito” da diventare quasi una scultura.</div>
<div style="text-align: justify;">
La mia idea, invece, è quella di riuscire a far parlare, confessare, l'artista attraverso il suo Libro: sia pittore o scultore o fotografo o designer (il territorio è talmente vasto!) il quale, anche se parla d’altro dall'arte, finisce pur sempre per parlare e descrivere, più o meno inconsciamente, quell’immaginario che <i>intravede</i> o che <i>sente </i>e che diviene, poi, parte inscindibile della sua opera.</div>
<div style="text-align: justify;">
L’intento è di fornire a chiunque prenda in mano questi Libri, la possibilità di <i>leggere</i> e magari <i>vedere</i>, i percorsi creativi che sottendono al lavoro dell’autore-artista, specie in quei suoi momenti di pausa e riflessione che precedono l’eventuale creazione del proprio lavoro. Una sorta di porta d’entrata socchiusa sull’intimità dell’atelier del costruttore - un furtivo sguardo nella caverna dell’Alchimista - prima che cominci la sua opera, oppure mentre riflette sul <i>che fare?</i> o su quello che <i>vorrebbe fare,</i> oppure sul <i>cosa sto facendo?</i></div>
<div style="text-align: justify;">
Forse la definizione più azzeccata di questa mia idea diventerebbe più chiara se citassi il titolo della mostra che il Museo di Gallarate, agli inizi di quest'anno (2010), ha dedicato alla presentazione di una parte della Collezione Consolandi: "Cosa fa la mia anima mentre sto lavorando?"</div>
<div style="text-align: justify;">
Questo era il titolo di una delle opere in mostra, che mi ha dato l'ispirazione.</div>
<div style="text-align: justify;">
Alcuni degli artisti che hanno aderito alla mia proposta e di cui sono esposti e consultabili i Libri sinora editi <a href="http://edizionipeccolo.blogspot.it/"><span style="color: blue;">qui sul blog</span></a>, si sono cimentati usando le più disparate forme di scrittura: dal racconto biografico, alla Poesia, sino alla Poesia Concreta; dal Diario, agli Aforismi; oppure si sono inventati un dialogo su temi di cui erano rimasti affascinati e in alcuni casi hanno, appunto, scelto di disegnare soltanto con immagini il proprio libro.</div>
Roberto Peccolo<br />
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://3.bp.blogspot.com/-aZrO-1Dg8SU/T4lzy5-7PWI/AAAAAAAAFwo/Fyb2bFpWCNw/s1600/Roberto+3_.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="239" src="https://3.bp.blogspot.com/-aZrO-1Dg8SU/T4lzy5-7PWI/AAAAAAAAFwo/Fyb2bFpWCNw/s320/Roberto+3_.jpg" width="320" /></a></div>
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<a href="http://edizionipeccolo.blogspot.com/">http://edizionipeccolo.blogspot.com/</a><br />
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<br />raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-28157519649269803802010-12-11T11:30:00.004+01:002012-02-18T17:02:29.879+01:00Un segno, una macchia arancione e poi...febbraio 1997 - Cahiers d'Art<br />
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La grandezza e la forza espressiva della pittura americana del secondo dopoguerra, definita Espressionismo Astratto, è stata caratterizzata dalla ricerca di un linguaggio simbolico universale. Formata dalle opere di molti artisti operanti negli anni della guerra e per tutti gli anni cinquanta a New York, questa corrente pittorica verrà riconosciuta come marcatamente americana. Si cominciò a parlare allora, per la prima volta, di un’arte “americana” che si era finalmente affrancata dalla storia e dalle tradizioni artistiche europee e le opere di molti degli artisti della prima generazione “eroica” dell’epoca –basterebbe citare per tutti Pollock, Franz Kline e Rothko- offriranno a questa teoria, volutamente o non, il valido supporto.<br />
Ma allo stesso tempo l’estenuante e forzata ricerca di un linguaggio simbolico universale ”americano” rivelerà anche la sua facile caducità in stilemi e nell’edonismo accademico che alla fine svuoterà le opere di ogni potenza creativa -stesso destino accadrà, in quegli anni, in Europa durante l’informale-. Ancora una volta uno stile sottraeva energia alla creatività. Ma il gigantismo culturale che fu messo in moto per sostenere e propagandare questa pittura finalmente “Americana”, nascondeva i piedi d’argilla e soffocava ogni dubbio. Fu la generazione che seguì in ordine di tempo, la cosiddetta “seconda” generazione della Scuola di New York, che, cercando di proseguire nella ricerca pittorica iniziata dalla precedente, cominciò ad accorgersene e dovette farsi carico delle conseguenze per trovare uno sviluppo alla propria strada. Come è potuta passare in silenzio la svolta decisiva di Phillip Guston, tra il 1959 e il 1960, dopo un viaggio in Italia -in Umbria a vedere gli affreschi di Luca Signorelli-, quando smise di dipingere quadri tipicamente “espressionismo astratto” (con i quali era diventato famoso) per approdare ad una pittura figurativa dal forte accento fumettistico e autobiografico ? Si trattava del tradimento di un eroe della prima generazione da tenere nel privato oppure del segnale eclatante di una crisi in atto che non conveniva e sarebbe stato meglio non pubblicizzare ?<br />
Ė possibile che il solo Frank O’Hara -scrittore, critico d’arte e poeta- nel suo articolo del 1962 sulla rivista Art News, si fosse accorto della vera ragione della svolta di Guston ? Una crisi dei valori che anche Kimber Smith acutamente riconosceva in un’intervista pubblicata nel 1975 su Art Press. Smith, altro protagonista della seconda generazione, dal suo esilio a Parigi aveva la fortuna di poter guardare con più distanza e freddezza al problema: «...C’era a New York un movimento cosiddetto storico, l’Espressionismo Astratto, si cominciava un quadro senza un’idea precisa... unicamente un segno... una macchia arancione... e poi il pittore aggiunge, aggiunge, aggiunge fino a che non giudichi che è finito... e il risultato, il quadro, è una specie di storia “come si fa un quadro”... ossia l’arte di fare un quadro leggibile come un libro... In quell’epoca tutti dipingevano più o meno in questa maniera... c’erano quelli che riuscivano meglio degli altri, ma tutti i pittori erano influenzati dall’ Abstract Expressionism... poi arriva la Pop Art e molti pittori hanno cambiato per fare la Pop Art subito... altri hanno aspettato un pò per ritrovarsi più tardi nella Op Art... ma erano talmente tanti quelli che lavoravano sullo stile dell’Abstract Expressionism... e mi pare che si sia fermato tutto troppo presto e che non si sia mai sfruttato il massimo di questo metodo... ».<br />
Esemplificativa del desiderio di libertà da schemi e della volontà di riallacciarsi alla Storia e ai tradizionali temi della pittura di sempre -la luce, il colore, lo spazio, il gesto, la rappresentazione, ecc. ecc.- è l’opera di altri due artisti newyorkesi degli anni cinquanta, non casualmente fraterni amici di O’Hara: Michael Goldberg e Norman Bluhm.<br />
Proprio nelle opere sviluppate dalla fine degli anni settanta fino ad oggi da Mike Goldberg che, scegliendo di vivere, oltre che a New York, metà dell’anno nella sua casa-studio tra le colline senesi, arriva a dipingere quadri di impianto astratto sulla cui superficie si combinano una pittura gestuale di segno ancora “action-painting”, con evidenti memorie degli affreschi trecenteschi della Scuola Senese o dalle atmosfere pittoriche dei maestri del Manierismo rinascimentale fiorentino. Oppure, ancora più eclatante, nei giganteschi dipinti di Norman Bluhm che, dopo un periodo di produzione di quadri in tipico stile “Espressionismo Astratto”, rifugge ogni accademismo per giungere, negli ultimi due decenni a dipingere quadri dall’impianto coloristico e formale fortemente barocco. In gioventù aveva attentamente osservato e studiato le colorate vetrate delle Cattedrali francesi di Chartres e Notre Dame di Parigi, ma è stato l’incontro a Venezia con il ciclo degli affreschi del Tiepolo che hanno fatto riaffiorare nella sua fantasia le lontane origini russo-georgiane.<br />
Una mistura che ha dato origine ai numerosi, incredibili, coloratissimi dipinti da lui realizzati durante gli anni ottanta.<br />
Due tra gli innumerevoli artisti che continuano, lontani dal clamore della mondanità e della cronaca, a lavorare sui valori fondamentali della pittura e delle sue tormentate, storiche e intricate radici.<br />
Norman e Mike e i loro dipinti « inesorabili prodotti del mio tempo », come li avrebbe definiti ancora oggi il loro amico Frank, se i giorni per lui non fossero andati via troppo veloci.<br />
R.P.<br />
(Testo pubblicato nella rivista Cahiers d’Art Italia n.19, gennaio-febbraio 1997)raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-44852410226938629402010-06-29T19:08:00.006+02:002015-08-19T19:22:29.626+02:00La Poesia non segue le quotazioni della Borsa.Per Luciano<br />
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Per chi lo conosceva incontrandolo sporadicamente durante le mostre, i concerti, al cinema o a teatro Luciano Botti appariva un uomo simpatico e ben informato sulle cose; una persona che coltivava le sue conoscenze sugli argomenti e sugli avvenimenti, qualsiasi fosse il campo artistico, insomma quello che, una volta, avrebbero definito un uomo di “cultura”. Infatti lui continuava ad aggiornarsi incessantemente, approfondiva le cose che conosceva già o ampliava quelle a cui iniziava ad interessarsi. Di questo suo atteggiamento ne è un esempio eclatante la decisione di pochi anni fa di seguire le lezioni sulla Musica e la sua Storia che il prof. Daniele Salvini teneva per l’Università della Terza Età nelle aule di una Scuola media non lontano da Piazza della Repubblica. Pur conoscendole seguiva con piacere le lezioni dedicate alle Opere (quella tale e specifica opera oppure sul tale concerto di Beethoven, o Chopin) perchè durante la lezione il pezzo musicale veniva analizzato in ogni sua componente tecnica e con un approccio da molteplici angolazioni e risvolti. Lo entusiasmava apprendere i segreti del lavoro del musicista e la tecnica da lui usata nella composizione, particolari che erano magistralmente spiegati grazie alle parole chiare dello stimato insegnante. Spesso rientrando dalla lezione si fermava a vedere la mostra che avevo in Galleria e mi rispiegava con entusiasmo quanto aveva appena appreso.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://2.bp.blogspot.com/-HQWZIRuX1xQ/VdS7RwNNYpI/AAAAAAAAMc0/k9UUy6Q79WY/s1600/Luciano%2B2.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://2.bp.blogspot.com/-HQWZIRuX1xQ/VdS7RwNNYpI/AAAAAAAAMc0/k9UUy6Q79WY/s320/Luciano%2B2.jpg" width="239" /></a></div>
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Ma oltre a tutte queste sue passioni aveva una qualità insostituibile: era un “goloso” e una persona curiosa che si lasciava coinvolgere totalmente e nel profondo dal quello che scopriva. Così nasceva il suo amore per i libri d’arte, da quelli contenenti litografie o incisioni, alle monografie sugli artisti di cui seguiva il lavoro, comprando persino più di un libro o di una monografia se un artista lo interessava. Mi ha raccontato che spesso arrivava perfino a restare sveglio, oppure caricava la sveglia ad una certa ora della notte, per registrare, quando sapeva che sui canali TV (in particolare la notte sul TV3) venivano messi in onda servizi o documentari su artisti che aveva nella sua raccolta o di cui voleva capire maggiormente il lavoro. Oppure voleva soltanto rivedere e possedere in VHS quel vecchio film che amava molto. Anch’io ho approfittato di queste sue ricerche insonni per chiedergli di registrarmi vecchi film o documentari. A causa di questa passione era arrivato a riempire tutta la libreria e parte del salotto di cassette VHS e poi DVD.<br />
Oltre a quanto descritto sopra, come dimostra questa esposizione, era anche un appassionato collezionista di arte contemporanea. Talvolta compulsivo nel cercare di acquisire almeno un’opera di un artista che lo colpiva e anche più di una, in alcuni casi. Le sue passioni pittoriche sono transitate dalla pittura informale, dagli anni 50-60 in poi, a quella della Pop Art italiana, fino alle recenti generazioni del terzo millennio più Concettuali o di Trans-Avanguardia.<br />
Naturalmente anche Luciano, come molti livornesi, aveva dovuto superare la vecchia tradizione provinciale della “figuratività” nel quadro, aveva passato differenti tappe e attraversato varie fasi nel gusto con conseguenze anche nella sua raccolta. A mio parere lo sentivo ancora troppo “legato” ad una costante: quella della “rappresentazione”. Ma meglio di tante spiegazioni filologiche o critiche sulla sua collezione ci sono qui, in questo catalogo organizzato dagli eredi e curato dal suo amico Ivo Lombardi, le immagini dei quadri a parlare e a dimostrare la qualità e l’oculatezza delle sue scelte. Quando cominciò a frequentare la mia galleria, dopo la prima metà degli anni ’70, aveva una particolare predilezione verso gli artisti della pittura e della grafica neo-Realista del dopoguerra o della Nuova Figurazione, in quel momento “impegnati”e ben considerati sia nelle mostre che sul mercato. Durante le nostre conversazioni di quegli anni cercavo spesso di fargli focalizzare lo sguardo sulle opere dei Futuristi d’anteguerra e degli Astrattisti Concreti, che avevo esposto un paio di anni prima, oppure sull’Arte Concettuale o Minimalista che stavo appunto esponendo allora.<br />
Ma le sue perplessità spesso restavano inalterabili: trovava tali artisti troppo “freddi” per il suo carattere “mediterraneo” e quindi lontani dal suo gusto. Malgrado questo non mancava di visitare le mie mostre. E poi continuava a parlarmi delle sue preoccupazioni circa la forte e reale, prepotente presenza di un mercato che rischiava di modificare i “valori” sia artistici che economici di tanti autori. Specie di quelli che lui amava di più. Spesso nelle nostre conversazioni arrivavamo ad un punto morto, senza via d’uscita: lui si arroccava sulle proprie perplessità, mostrandomi le recensioni e le valutazioni del mercato di quel momento e asserendo che tutto questo avrebbe in seguito travisato anche la riscoperta di alcuni valori storici e artistici del passato. E io, messo alle strette dalle sue concrete, evidenti argomentazioni non riuscivo che a rispondergli: «attenzione, perché la Poesia non segue le quotazioni della Borsa!». A volte le nostre mi sembravano delle vere e proprie, e inutili, conversazioni sul “sesso degli angeli”. Oggi posso dire, col senno di poi, che sarebbe bastato aspettare alcuni anni per vedere tutto il panorama artistico circostante completamente mutato, col risultato di dare ragione ad entrambi (sic!).<br />
Ma un Collezionista, specialmente di opere d’arte contemporanea, dovrebbe essere qualcosa di più della somma delle quotazioni delle opere da lui possedute. E Luciano Botti infine lo è stato; è andato ben oltre e più lontano dell’ostentazione dei “valori” economici che rappresentavano i suoi quadri.<br />
Fatte le dovute differenze di economia, di tempi e di luogo (non si può ignorare che Luciano ha sempre vissuto a Livorno) apparteneva con pieno diritto e psicologicamente a quel livello di alto comportamento a cui appartengono tutti quei collezionisti che hanno passato la maggior parte della loro vita a inseguire e raccogliere ciò che più li appassiona dell’arte e degli artisti. E di conseguenza si sono affezionati sia alle opere che all’autore e, riguardandosi con orgoglio ogni oggetto acquisito, ne ricostruiscono le ragioni e le motivazioni che li hanno indirizzati. Rivivono con la stessa ansia o entusiasmo il momento della scoperta dell’opera che immaginavano essere essenziale per la loro raccolta, placandosi soltanto una volta trovata (sarebbe quasi da dire la “riconoscono”) e, economia permettendo, riescono finalmente ad “inserirla” nella raccolta. Ė come se nel loro inconscio esistesse una sorte di immaginaria “Biblioteca di Babele” alla Borges che continua a chiedergli di essere riempita, ”completata” scatenando quell’energia vitale, compulsiva, difficilmente controllabile. Niente a che fare con l’altro tipo di collezionista che ci viene sempre più spesso descritto negli articoli specialistici e sulle riviste “patinate” di questi ultimi anni, e perciò oggi più d’attualità, colui cioè che cerca di possedere il maggior numero di “capolavori”, di avere i Top Ten, della classifica redatta dalla rivista più “in” del momento. Seguendo una tale visione sarebbe più opportuno definire questi degli “investitori” più che dei collezionisti e la differenza tra queste due posizioni qui descritte, fra le tante altre, eventuali, linee di comportamento, è sostanziale. In un caso si ha la passione, l’ossessione, fino a rasentare, forse la “malattia”. Nell’altro si ha la scommessa (con la segreta speranza di incassare presto), il calcolo della probabilità e la contemplazione del proprio “patrimonio”, determinata dall’investimento fatto.<br />
Nel primo caso l’insieme delle opere è la costruzione di una Collezione che appartiene al proprio vissuto e ricorda il tempo in cui abbiamo scoperto e poi cercato quel tale quadro o quell’artista. Dove, o con chi, o perchè e in quale occasione quella tale opera è stata poi acquistata. Insomma anche i momenti e le emozioni dedicate alla raccolta appartengono si alla sfera personale della propria vita ma si compenetrano con le ragioni dell’esistenza di quelle opere, ci accostano alla personalità che l’ha prodotta e fanno rivivere il tempo storico in cui essa è stata fatta. Tutto questo, nell’insieme (nell’intimità) della raccolta, costituisce una “presenza”, una testimonianze di vita, che diventa “palpabile”, all’unisono con le opere. Prestando attenzione la si può ritrovare, “sentire”, guardando in quello spazio vuoto del muro che sta tra un’opera e l’altra.<br />
Così una raccolta (come tutte le raccolte che abbiano il diritto di un tale riconoscimento) è allo stesso tempo uno strumento (conscio o inconscio che sia) della propria visione del mondo, ossia della simpatia che portiamo verso altre visioni, o almeno della ricerca di condividere o di avvicinarci ad una o più visioni del mondo affini alla nostra o da cui ci lasciamo affascinare.<br />
Uno degli esempi più eccezionali in tale direzione è la Collezione di sculture ambientali che Giuliano Gori ha “costruito” insieme con gli artisti nel Parco della sua Villa Celle a Pistoia.<br />
Basta solo visitarla per capirlo.<br />
Un particolare significativo di questo atteggiamento si ha quando, nel mostrarti la loro Collezione, qualunque sia il valore economico o l’importanza storica, dell’insieme delle opere, o di quel certo “capolavoro”che sta appeso insieme con gli altri, alcuni Collezionisti indicano invece più volentieri e come amata maggiormente, quell’altra opera dall’apparente aria dimessa che vediamo là isolata in un angolo. Quell’opera dimessa sembra dover sostenere il “capolavoro” mentre il “capolavoro” condivide con essa l’epoca, la tematica e magari la qualità. Come in ogni storia i fatti che appaiono minori non sono poi affatto insignificanti, anzi sono proprio quelli che spesso ci chiariscono meglio l’insieme. Entrambi sono “costituiti” inscindibilmente sia dai particolari che dai fatti eclatanti.<br />
Chi non sente come essenziale questo punto avrà poi difficoltà a comprendere quanto la “storia” e la “cultura” siano due concetti la cui stessa esistenza e memoria è diventata oggi sempre più indispensabile. Specialmente in una società come quella odierna che sta basando tutti i suoi valori esistenziali solo sulle traballanti basi del denaro e dell’apparenza.<br />
Nel concludere questo mio scritto nella duplice qualità di promotore per alcune, poche, presenze in questa Collezione e, oggi, nella veste di ospite sulle pareti della mia galleria che funge da sostitutivo alle pareti della casa dell’amico Luciano non posso che formulare un auspicio o quantomeno suggerire l’illusoria ipotesi che una tale raccolta anziché finire dispersa e nell’oblio, com’è capitato a tante altre cose nella nostra città, possa venire accolta, tenuta unita e ospitata in uno spazio aperto al pubblico e agli specialisti. E magari anche ulteriormente arricchita nel tempo per una migliore conoscenza per le prossime generazioni sugli avvenimenti culturali succedutisi nel nostro territorio. Realizzare questa idea non sarebbe poi un grande dispendio economico e di energie, in una città che da molti anni spende troppo e male per conservare e proteggere con premi, mostre e libri una cultura divenuta ormai il fantasma di se stessa e alla quale, oggi, non è rimasto altro che il vacuo orgoglio di dichiararsi un “prodotto del territorio”.<br />
Collezionare opere d’arte contemporanea non è poi, in fondo, che l’arte di raccogliere parti della memoria personale inserita in una storia collettiva in via di formazione e quindi vissuta o appena passata. E, per di più, è la strada migliore per indicare ad ognuno di noi il dovere inappellabile di conservare prima per poter divulgare poi.<br />
29.05.2010raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-66962738904307995252010-03-01T02:17:00.005+01:002012-02-18T16:53:00.539+01:00Articolo sul Corriere per la mostra di Ettore Sordini<a href="http://1.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S4sVq3TsxrI/AAAAAAAAC_E/e2P8fx7g7Ck/s1600-h/art+Sordini+2010.jpg"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5443468400752641714" src="http://1.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S4sVq3TsxrI/AAAAAAAAC_E/e2P8fx7g7Ck/s320/art+Sordini+2010.jpg" style="cursor: hand; display: block; height: 301px; margin: 0px auto 10px; text-align: center; width: 320px;" /></a>raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-26519898822586107362010-02-02T10:45:00.004+01:002022-02-02T19:21:24.086+01:00Elegia per Antonio Carena<span style="font-size: medium;">A piccoli pezzi la storia e gli amici intorno a noi<br />
si "eclissano" dal visibile "cielo" sopra noi, per<br />
consegnarsi al riconoscimento postumo.<br />
"<em>La Grande Illusione</em>" era il titolo di un famoso film<br />
di tanto tempo fa. Era anche il "leit motive" di intere<br />
generazioni di artisti del secolo passato Oggi sarebbe<br />
adatto per descrivere i motivi di quello che questi<br />
"brandelli" di storia hanno fatto ? Forse no!<br />
Non sarebbe onesto nei loro confronti, ma è grazie a<br />
quella "Grande Illusione" in cui essi hanno creduto e vissuto<br />
che a noi rimangono cose e pensieri poetici da ricordare con<br />
piacere e nostalgia.<br />
Ciao Antonio.</span>raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-9347834295633082822010-01-25T13:06:00.009+01:002012-02-18T17:15:35.169+01:0040 anni di Galleria Peccolo<a href="http://4.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S18icPceSkI/AAAAAAAAC8U/FGzb3qyOu9E/s1600-h/2008+intervista.jpg"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5431097544209746498" src="http://4.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S18icPceSkI/AAAAAAAAC8U/FGzb3qyOu9E/s320/2008+intervista.jpg" style="cursor: hand; display: block; height: 320px; margin: 0px auto 10px; text-align: center; width: 206px;" /></a><br />
<div>
<img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5431096253963267074" src="http://1.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S18hRI5vbAI/AAAAAAAAC8E/aaUDPsxQX_0/s320/40anniPECCOLO+(0)+copia.jpg" style="cursor: hand; display: block; height: 320px; margin: 0px auto 10px; text-align: center; width: 217px;" /> </div>raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-47919726543873249472010-01-24T20:57:00.024+01:002012-02-18T17:00:55.002+01:002009 - Sempre irritati con Winfred ?<em>Immer Ärger mit Winfred ?</em> con questa domanda Manfred de la Motte, nel novembre del 1979, titolava un suo scritto introduttivo al catalogo della mostra di W.G. presso la Galleria Hennemann di Bonn. Il testo era accondiscendente con le opere di Gaul esposte, ma allo stesso tempo indicava alcune incongruenze nella consequenzialità del lavoro. Uno strano titolo, eppure i due erano amicissimi da lungo tempo, si conoscevano dal 1955 e già nel 1957 Manfred de la Motte aveva scritto sulle sue opere ‘informali’ e poi nel 1962, quando era divenuto il curatore per le mostre nella Haus am Waldsee di Berlino, lo aveva invitato ad esporre i suoi quadri nella storica mostra “<em>Gegenwart bis ’62</em>” [Attualità fino al ’62]. Due anni dopo, in occasione della Rassegna Annuale d’Arte Tedesca da lui organizzata nel 1964, gli aveva chiesto di esporre, all’esterno dell’entrata del Museo, il suo Hommage à Berlin, un’opera di grandi dimensioni della serie <em>Verkehrszeichen & Signale</em> [Segnali stradali & Segnali] .<br />
Oggi in retrospettiva, passati ormai tanti anni da quelle storie e quindi con una visione più distesa posso ben capire, anche se non le condivido, le ragioni e la scelta, da parte di Manfred de la Motte, di quel titolo [<em>Sempre irritati con Winfred ?].</em> Evidentemente lo aveva scelto per difendere Gaul dalle critiche che gli venivano continuamente rivolte sulla pretesa mancanza di coerenza e di consequenza nei lavori. Ma il riferimento finiva invece per mettere in risalto proprio la reazione di sorpresa, e a volte di irritazione, che la critica e il pubblico assumeva nei confronti della radicalità della ‘poetica’, spesso polemica e intransigente, con cui W.G. affrontava le serie contigue e contemporanee, o le trasformazioni stilistiche, tra le sue opere; per questo ritenute ‘spudorate’. Escluso alcune serie di opere, la ricezione di tante altre, realizzate da Gaul nel tempo, fu costantemente sottoposta al controllo del regime sulla ‘questione della coerenza’. <span style="font-size: 78%;"><strong>(<em>1)</em></strong></span><br />
Giovanissimo, Gaul, aveva partecipato al “Gruppe 53” di Düsseldorf, il primo gruppo di artisti tedeschi che si era riunito sotto quel nome per svecchiare, attraverso l’’informale’, la scena artistica e pittorica nella Germania della ricostruzione, dopo l’epoca nazista e le distruzioni della seconda guerra mondiale. Facevano parte di quel gruppo molti degli artisti che poi programmeranno tutta la propria carriera sulle affermazioni e le conferme, nell’Europa intera, di questo stile di pittura.<br />
Ma dopo alcuni anni da quella fase, Gaul, si era staccato dai compagni di strada e ne aveva cercata un’altra più consona alla sua personalità. Ripeteva e scriveva continuamente, fino agli ultimi anni della sua vita, questa frase: « <em>Non ho deciso di fare l’artista per annoiarmi e per annoiare anche gli altri ripetendo per tutta la vita le stesse formule</em> ».<br />
Una volta che riteneva di aver chiuso un ciclo, Winfred, era incapace di ripetere imperterrito e di continuare a dipingere, con lo stesso stile, ancora altri quadri. Forse superava così il timore di un agire ‘effimero’, vago e la paura di produrre un’arte ‘sterile’ legata solo alla produzione di cose senz’anima, che non avrebbero sicuramente più contenuto la sua iniziale carica di energia.<br />
Questo era per lui un fondamentale principio a cui è rigorosamente rimasto fedele per tutta la vita.<br />
Inoltre gli piaceva troppo realizzare e sperimentare, nello stesso anno, talvolta negli stessi giorni, o a distanza di pochi mesi una dall’altra, due serie diverse, distinte o contrapposte di quadri.<br />
Gli esempi da citare sarebbero molti, forse tanti quante sono state le serie di opere che coprono tutta la sua produzione artistica. Ma vale la pena qui di citare i due momenti più ‘esemplari’: il primo riguarda la doppia serie di quadri realizzati tra il 1959 e il 1961 quali i <em>Wischbilder</em> [<em>Quadri strusciati</em>] e i Farbmanuskripte [<em>Manoscritti colorati</em>]. <strong><em><span style="font-size: 78%;">(2) </span></em></strong><br />
I Wischbilder, come dichiarava già il titolo, erano quadri ‘strusciati’, cioè tele su cui un colore, non il tipico olio da pittori, ma un colore volatile, industriale usato in tipografia, veniva distribuito strusciandolo con stracci sulla tela e lasciandolo colare o raccolto in ‘nuages’, o in ammassi nebbiosi, ottenuti da differenti passaggi, fino a creare un’impressione generale di monocroma trasparenza. Mentre invece nei Farbmanuskripte la tela era ricoperta da serrati gesti scritturali e fitte matasse di scarabocchi fatti usando pastelli colorati a olio o a cera fino a che l’intera superficie non diventava una sorta di palinsesto compatto, gremito di brulicanti segni colorati.<br />
L’altro momento clou, esempio altrettanto eclatante e ‘significativo’del suo atteggiamento artistico, esplose durante la fase della ricerca nell’ambito della Pittura Analitica (1973-1983). Partecipare a quel momento insieme con tanti altri pittori, alcuni suoi coetanei come Raimund Girke, o altri di una generazione più giovane di lui, ma che stimava, non era soltanto ribellarsi come pittore al dominio dell’Arte Concettuale, che durante quegli anni imperversava in tutto il mondo artistico occidentale; parlare di Pittura, nei dogmatici anni ’70, era considerata una bestemmia. Ma era, per lui, sopra ogni cosa, la possibilità di poter realizzare, come asseriva riflettendo su Matisse: «<em>… dei risultati [in pittura] attraverso il metodo analitico per avvicinarsi alla perfezione tentando sempre e nuovamente di dire tutto in un’unica linea </em>». <em><span style="font-size: 78%;"><strong>(3)</strong> </span></em>Infatti inizia tra il 1972-73 un’ampia serie di quadri dal titolo generale di Markierungen [Marchiature]. Dopo quasi 15 anni dalla serie parallela e contemporanea dei Wischbilder e Farbmanuskripte del 1959-61, Gaul ritorna, con una doppia serie contigua e contemporanea, a sperimentare su temi primari e ‘fondamentali’, analizzando radicalmente ‘sul campo’, cioè sulla tela, il ‘disegnare’e il ‘dipingere’. E riesce a ottenerlo, per essere molto più preciso, attraverso due serie di opere distinte e contrapposte tra loro: quelle dei quadri dal sottotitolo Zeichenmarkierungen [Marchiature di Segni] e Farbmarkierungen [Marchiature di Colore]. Nella serie Zeichenmarkierungen si impegna ad analizzare esclusivamente con diversi modi il metodo di tracciare una linea su di una superficie. Per realizzare questa serie utilizza solo pastelli a gesso e carboncino, tracciando, con questi, a mano libera, linee parallele ai margini della tela naturale, sempre grezza e non lavorata, solo preparata. Mentre nei Farbmarkierungen si impegna ad analizzare le diverse possibilità di distribuire un unico colore in modo da ottenere diverse e ampie campiture, sempre parallele tra loro, sulla tela preparata con lo stesso colore diluito. Per realizzare questa nuova serie usa sempre un unico colore distribuito sulla superficie con il rullo da imbianchino. La scelta della tela grezza di lino (del Belgio) e dei gesti minimi e primari del dipingere o disegnare sono la rivelazione di una ferma volontà di ricerca della povertà e semplicità in pittura, verrebbe da dire ‘francescana’, cioè: spogliare la pittura di tutti i fasti precedenti per renderla più umile e ‘sincera’ (come il novello frate Francesco di Assisi tentò con la Chiesa, lui lo tentava sul versante della pittura; una evidente contrapposizione allo stile Scìamanico sostenuto dal contemporaneo Beuys). Scavare con umiltà e severità nelle possibilità di operare su una superficie, restando sempre all’interno della pittura ‘dipinta’, per mettere in risalto la sacralità artigianale dell’atto creativo e rendere il manuale processo pittorico una disciplina dello spirito. Questa doppia serie di opere (realizzata tra il 1973-1978) venne esibita insieme, per la prima volta, nella mostra realizzata nel 1977, in due tempi separati, nella mia galleria di Colonia. La prima serie degli Zeichenmarkierungen fu esposta dal 18 marzo al 20 aprile mentre la seconda serie Farbmarkierungen dal 22 aprile al 18 maggio. Nel catalogo uno scritto di Gaul sulle intenzioni di lavoro. Alcuni di questi quadri furono poi esposti nel giugno dello stesso anno nella sezione Pittura della “<em>documenta 6</em> ” a Kassel.<br />
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Winfred diventava particolarmente polemico e reagiva con sarcasmo quando il suo operare veniva criticato senza che nessuno si sforzasse di capire la necessità che aveva come artista, di girare l’angolo per andare a vedere oltre i limiti di quello che, pittoricamente, aveva appena raggiunto. Oppure quando, come spesso facevano i critici, anche quelli amici, tanto magnificavano la sua serie di quadri appena presentati, quanto rimanevano indifferenti, o denigravano, la serie che seguiva. Anche a me, quando gli chiedevo chiarimenti, rispondeva che sentiva impellente, indispensabile, allargare l’orizzonte di quello che faceva, o che aveva fatto, e allo stesso tempo aveva il desiderio di superarlo, di cercare altro da conoscere. Mi ripeteva, in opposizione a quanto credevo io, che nell’evoluzione della specie i ‘normali’ sono quelli che si estinguono, perché si fermano, mentre gli ‘irregolari’, nell’adattarsi, sopravvivono; e i ‘normali’, per non estinguersi, imparano dagli ‘irregolari’ a trovare nuove strade. Ogni volta che, facilmente o con sforzo, riusciva a realizzare una nuova serie di opere, l’orizzonte gli si spostava lasciandogli intravedere molti nuovi territori da scoprire. Sentiva impellente il richiamo di poter indagare il più ampiamente possibile nel panorama immenso della pittura ‘astratta’. E questo era il vero motivo che scatenava la sua ‘fame di quadri’. Aggiungere la propria sperimentazione pittorica alle tante esistenti (un’immensità spalancatasi già alla fine dell’800, con gli impressionisti prima e con l’astrattismo poi e che reputava un’eredità di esperienze valide ancora oggi) e riuscire ad aggiungerla a quelle realizzate dagli artisti che lo avevano preceduto nella pittura d’astrazione e che considerava come suoi progenitori, era, per lui, come affondare le proprie radici nella storia della pittura, meglio, nel susseguirsi storico dei quadri dipinti da quei pittori che lo avevano preceduto e che erano i suoi ‘fari’. Era rendersi partecipe di un corpus unico; essere un tutt’uno e all’unisono con una Storia della Pittura che aveva faticosamente individuato e che, capiva, essere diventata la sua. E, appunto, quando le sue idee non venivano comprese o accettate lo considerava come un tradimento nei suoi confronti; evidentemente, diceva, non hanno capito bene nemmeno tutte le potenzialità che erano già insite nella serie dei quadri fatti precedentemente. Winfred non è mai stato un carattere facile né diplomatico o accondiscendente anzi, specialmente nei confronti delle persone che stimava o amava, era particolarmente ‘esigente’, e talvolta era proprio ‘irritante’; ma quelli che superavano questo stadio e non si soffermavano solo alle apparenze superficiali, avevano il piacere di scoprire una forte personalità, passionale, anche sarcastica, ma sinceramente e profondamente dedicata alla ‘Pittura’, con tutta l’anima. Come un Maestro Zen pretendeva da sé stesso la massima onestà intellettuale e la prova dell’osservanza alle regole e alle teorie che riteneva dovessero essere percorribili fino al loro estremo limite; dopodichè considerava che ogni apertura e sperimentazione era indispensabile pur di placare l’insaziabile fame di un pittore che, amando profondamente la Pittura, ne voglia scoprire il più ampiamente tutte le possibilità. Naturalmente come monaco ortodosso era rispettoso della sua religione e ogni sua sperimentazione pittorica rimaneva, quindi, sempre nell’alveo della pittura d’astrazione e della riflessione sull’umile ‘mestiere’di pittore. Ma soprattutto prestava la massima attenzione quando capiva che le ricerche avevano trovato un loro stadio finale oltre il quale era inutile andare; oltre il quale tutto sarebbe diventato accademica ripetizione. D'altronde anche la sua amata pittura era con lui ‘spietatamente esigente’; almeno questo era quello che lui stesso doveva aver ‘sentito’, circa il suo ‘ruolo’ di creatore. Infatti un giorno arrivò a definirla: “<em>Die Malerei ist eine eifersüchtige Geliebte</em>” [<span style="font-size: 85%;"><em>La Pittura è un’amante gelosa</em></span>]. Questo è il titolo di un libro d’artista che ha pubblicato con la Eremiten Presse nel 1992; ma che fu riedito in seguito, come capitolo, in “<em>Schnappschüsse</em>” [<em><span style="font-size: 85%;">Istantanee</span></em>] un altro libro d’artista, da me curato nel 2001 per la Morgana Ed. di Firenze, uno dei suoi ultimi libri. Veramente, solo per rispettare la verità dei fatti, il titolo originale, non fu tradotto letteralmente, ma divenne “<em>La Pittura è un’amante esigente</em>” e quando, prima d’andare in stampa, mostrai la traduzione a Winfred e gli spiegai le ragioni della ‘libera’ traduzione da: ‘gelosa’ a ‘esigente’, la differenza era così evidente e ne rimase talmente soddisfatto,tanto da dirmi che, se avesse potuto, avrebbe cambiato la parola usata nella prima versione tedesca.<br />
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Ma tornando al tema principale, qui annunciato, del rapporto tra il pittore e la pittura, quella sostenuta da Winfred nei confronti della sua pittura credo sia stata una lunga ed estenuante lotta tra le sue intuizioni, aspettative e prospettive di pittore-creatore e i risultati che riusciva a raggiungere attraverso la sua pittura-creatura. C’è stata una continua sfida, una battaglia senza tregua e senza esclusione di colpi da entrambe le parti. I continui rovesciamenti di campo e le innovazioni che ponevano ulteriori possibilità e differenti priorità continuavano a trascinare Winfred in un ingorgo, in certi momenti, inarrestabile sempre in bilico tra il precipitare e il riuscire a governare la barca della pittura ottenendo di non affondarla mai ma nemmeno di ormeggiarla abbandonata ad una facile, commerciabile, stanca ripetizione degli stilemi che aveva già realizzato al meglio nelle opere iniziali della serie. Un gorgo, una rotatoria, un giratoire infinito dal quale non era facile uscire né tanto meno riuscire a destreggiarsi all’interno. Se non con una rigida disciplina adattata di volta in volta, oppure con la continua rimessa in discussione dei risultati raggiunti ogni volta. Così finiva che la critica, non trovando il ‘bandolo della matassa’, continuava a non vederci chiaro e lui non si spiegava più di tanto. Su questa ‘impasse’ e sulla vecchia questione, riguardante la pretesa coerenza ‘a priori ’della consequenzialità delle opere, sopraggiunse l’interpretazione, finalmente illuminante, che Filiberto Menna diede sul suo lavoro nel presentarlo in catalogo nella mostra del 1979 alla Galleria Hennemann di Bonn: « <em>La traccia, la scrittura, il disegno, la pittura. La pittura, il disegno, la scrittura, la traccia. La felicità del circolo, il tempo diverso dell’arte. Andata e ritorno contro il tempo lineare, unidirezionale e irreversibile della ‘cattiva infinità’ della storia e del progresso(…). Gaul (…). Con il suo temperamento analitico, autoriflessivo, rilegge e ripercorre a ritroso il proprio lavoro, ne individua le costanti al di là delle variazioni </em>». L’altro tra i pochi critici che, meglio di tanti altri, anche tedeschi, aveva capito la matrice sotterranea che stava all’interno di tutto l’operare di W.G. è stato Enrico Crispolti. Il titolo della sua presentazione alla mostra Antologica di Gaul alla Pinacoteca di Macerata del 1982 era: “<em>W.Gaul: segno, disegno, traccia, pittura, memoria - (Opere su carta 1955-1982)</em>”, ed era realmente un titolo ‘significativo’. Crispolti era suo amico di lunga data, dai tempi del soggiorno di due anni che Winfred fece a Roma (1960-61) dove aveva dipinto ed esposto, prima in una collettiva a La Tartaruga di Plinio De Martiis e poi nella personale del 1962 all’Attico di Sargentini, la serie dei quadri realizzati proprio a Roma, dai significativi titoli Oggetto Romano, Oggetto Mistico e Oggetto di Contemplazione (1961-62) (con il titolo, appunto, in lingua italiana). Questa serie è composta soltanto da circa una ventina di tele, molte delle quali tonde, dipinti monocromi, (un evidente, ulteriore sviluppo dei precedenti Wischbilder) con un segno di cerchio al centro, quasi come un bersaglio. La serie era stata esposta nell’ottobre del 1961 anche alla Galleria Blu di Milano, sempre con presentazione di Enrico Crispolti.<br />
W.G. era nato il 9 luglio del 1928, sotto il Segno zodiacale del Cancro. <em><strong><span style="font-size: 78%;">(4)</span></strong></em><br />
Secondo quello che dichiara l’Astrologia la maggior parte dei nati sotto questo Segno sono sempre alla ricerca del grande amore a cui restano idealmente fedeli per tutta la vita, ma difficilmente mantengono ciò che conquistano: “<em>Mutevolezza, inquietudine, inclinazione all’autoanalisi, intermittenza ed immaginazione li portano sempre altrove</em>”. Questa ideale fedeltà alle passioni artistiche che lo avevano coinvolto sin da giovane studente, all’Accademia di Stoccarda, Winfred, se la porterà dentro, con sé, per tutta la vita pittorica. Lui confessava facilmente, non solo nelle conversazioni o negli scritti ma anche nelle sue opere, l’amore che aveva nei confronti della pittura creata da alcuni dei suoi artisti favoriti e che erano stati per lui fonte di ispirazione in gioventù, oppure momento di riflessione e conforto, a cui volgere lo sguardo, nei tempi di crisi: Monet, Turner e Matisse erano i nomi che ritornavano spesso, specie quando si faceva attento e riflessivo e intendeva parlare seriamente della sua ‘amata Pittura’.<br />
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Già i titoli di alcuni dei suoi quadri erano ‘dichiarazioni’: <em>Incontro di Matisse e Mondrian nello studio di W. Gaul</em>, in una tela del 1988; <em>H. Matisse in Tangeri e Matisse in Collioure</em> nel 2003. Oppure tutta la serie dei trittici e polittici dedicati a Monet durante il 1988: <em>Claude Monet in Arizona</em>; <em>C.M. in Marokko</em>; <em>C.M. in Manhattan</em>; <em>C.M. in Cuzco</em>; <em>C.M. in Andalusia</em>; e anche il bellissimo <em>Dialog mit Henri Matisse</em> [<em><span style="font-size: 85%;">Dialogo con Henri Matisse</span></em>]dello stesso anno.<br />
È commovente la testimonianza da lui descritta, del lungo e costante amore per la pittura di Claude Monet, specialmente quando nella biografia <em><strong><span style="font-size: 78%;">(5)</span></strong></em> confessa il suo primo viaggio a Parigi nel 1953, da giovane studente d’Accademia, a vedere il ciclo delle “Nymphéas” di Monet, le grandi tele esposte all’Orangerie. E come dal ricordo di quelle opere, riconobbe, siano nati in seguito, quadri quali Abschied von Rembrandt [Addio a Rembrandt] 1956-57 nella collezione del Museo di Saarbrücken; e Pracht der Zerstörung [Sfarzo della Distruzione] 1957 oggi nella collezione della Kunsthalle di Mannheim e alcune tele della serie <em>Couleur et Signification</em> [<em><span style="font-size: 85%;">Colore e Significato</span></em>] 1958-59.<br />
Il suo amore e la sua dedizione alla Pittura è stata totale e inarrestabile. Ne sono dimostrazione gli innumerevoli e bellissimi quadri da lui realizzati in 50 anni di carriera; e in una maniera più privata, ne sono testimonianza anch’io con l’aneddoto a cui ho personalmente ‘assistito’ da lontano.<br />
Già ricoverato per neoplasia polmonare in una Clinica di Kaiserswerth per fare continue analisi ed estenuanti cicli di chemioterapia, lontana solo un centinaio di metri dalla sua abitazione, così mi scriveva in una lettera datata alcuni giorni prima della morte:<br />
« <em>18.11.2003, Caro Roberto, nonostante tutti gli inconvenienti della Chemio sono riuscito, tornando in studio all’insaputa di tutti, a fare in 5 notti seguenti una serie di 50 fogli di formato 24x29 cm. Che tutti insieme farebbero un bel libro. Si tratta di soggettive interpretazioni, meno di un paesaggio che non di un ricordo delle sensazioni di luce e colori. Come titolo provvisorio ho scelto “Omaggio alle Langhe”, vedi anche altre varianti. Pensavo di aggiungere qualche testo di Cesare Pavese, che per quanto ne so è nato nelle Langhe (…) e con il permesso dell’editore potremmo (….). Speriamo che resisto ancora un pò. Ciao, Winfred</em>».<br />
Nel 1967 lo avevo contattato la prima volta scrivendogli una lettera, un paio d’anni prima di aprire la galleria, durante la fase in cui cercavo artisti con cui programmare una serie di mostre. Avevo visto delle immagini dei suoi quadri sfogliando cataloghi di mostre collettive degli anni 1959/64, sul tema Informale, lì avevo trovato pubblicati alcuni quadri dal tipico stile Informale ma che sembravano già avviati verso una pittura più monocroma. Infatti con questi quadri era presente nella mostra e nel catalogo della “<em>documenta II</em>” di Kassel del 1959; e con un Farbmanuskripte nel 1962 partecipò alla mostra “<em>Schrift und Bild</em>” allo Stedelijk Museum di Amsterdam, mostra che allora fece ‘epoca’. Invece nei cataloghi delle mostre “<em>Alternative Attuali I”</em> e<em> “II”</em> organizzate da Enrico Crispolti a L’Aquila, tra il 1962-64; e alla “I° Biennale di San Marino”, c’erano già, ben in risalto, le sue opere denominate Pop e facenti parte della sua serie dei <em>Segnali stradali & Segnali</em>. Così gli inviai una lettera esprimendo il mio entusiasmo per il suo lavoro e offrendogli la mia disponibilità a fare una sua mostra con quelle opere, una volta che avessi aperto il mio spazio. Pungente e ironico, com’era nel suo carattere, mi rispose incoraggiandomi e allo stesso tempo punzecchiandomi sul fatto che avevo l’intenzione di aprire una galleria d’avanguardia in una zona, a suo parere, da considerare ‘depressa’ e in più l’avevo scritta su una carta da lettere intestata “<em>Antiquariato</em>”(e scritta con caratteri gotici -sic!-). Negli anni che seguirono, su questa storia, ci siamo fatti un sacco di risate. Nel rispondermi fu comunque gentile e disponibile e promise di passare da Livorno a trovarmi durante il suo futuro viaggio a Roma, <em><strong><span style="font-size: 78%;">(6)</span></strong></em> dove aveva esposto e aveva amici, chiedendomi però di spedirgli i cataloghi delle mostre che avessi realizzato nel frattempo, per ‘controllare’ le concrete realizzazioni delle mie ‘utopie’(scrisse proprio così). Venne nell’estate del 1970, un anno dopo che avevo aperto la galleria, portandomi a far vedere 3-4 quadri che stava facendo quell’anno.<br />
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Il nostro fu un incontro che da subito diede inizio ad un’amicizia fraterna, che è durata fino alla sua morte, e per quanto mi riguarda dura ancora oggi. Quando l’ho conosciuto lui era già stato famoso per le sue opere della serie Segnali stradali & Segnali, le aveva esposte nei Musei più importanti e alcuni di questi lavori erano entrati nelle più prestigiose collezioni tedesche dell’epoca (quella di Ludwig, per esempio). Nel 1970 era stato segnalato, al 25° posto, nella speciale classifica sull’arte mondiale redatta per la rivista tedesca Capital, all’epoca la rivista europea più ‘in’, nell’articolo: “<em>KunstKompass, Die 100 Großen</em>”; articolo estratto da una specie di bollettino ciclostilato che circolava, per abbonamento, tra collezionisti, direttori di museo, critici d’arte e galleristi.<br />
Il giornalista-critico d’arte, di Colonia, Willi Bongard stilava ogni anno una classifica dei 100 artisti più interessanti e progressivi sulla base: delle mostre svolte nei Musei più prestigiosi e nelle gallerie private più qualificate; delle acquisizioni nelle collezioni private o dei Musei in cui entravano le loro opere; delle riviste e giornali in cui venivano recensite le mostre o dei libri di Storia dell’Arte Moderna in cui venivano nominati i lavori. L’elenco di questa classifica era tenuto talmente in considerazione dagli addetti ai lavori che fu persino pubblicato in Italia a chiusura, come postfazione, nel libro di Gillo Dorfles: “<em>Ultime tendenze dell’arte oggi</em> ”, edito da Feltrinelli nel 1973. Persino Gerhard Richter, in una intervista di pochi anni dopo che era emigrato, dalla Germania dell’Est, a Düsseldorf affermava di aver guardato ai suoi quadri e di aver dipinto alcune opere simili a quelle di Winfred. <span style="font-size: 78%;">(<em>7)<span style="font-size: 85%;"></span></em></span> <br />
Avere redatto questo mio dovuto ‘Omaggio a Winfred Gaul’; all’uomo, all’artista e alla sua pittura, non è stato, per me, senza emozione. Ripescare nella memoria i ricordi del caro amico di tante occasioni e serate passate insieme a parlare d’arte e pittura. Ripercorrere i numerosi incontri e l’amicizia che ci ha legato per tutti gli anni nei quali abbiamo lavorato insieme, collaborando e condividendo, di volta in volta, esaltazioni o delusioni, ma sempre nel rispetto reciproco.<br />
Far riaffiorare frasi, avvenimenti e comportamenti che stavano lì da oltre 30 anni ad attendere di essere rivissuti e raccontati, spero sia servito, quantomeno per fornire, a chi non lo ha conosciuto, un’occasione per avvicinarsi a Winfred Gaul e alla sua pittura e, per chi lo ha conosciuto e stimato, l’opportunità di un ulteriore tributo d’ammirazione. <em><strong><span style="font-size: 78%;">(8)</span></strong></em>Infine a chiudere questa mia accorata ricostruzione degli eventi che hanno riguardato la sua vita, le sue opere e la sua personalità, mi piace molto inserire questa citazione dal tono sottilmente raffinato e sarcastico, che Manfred de la Motte aveva tratto da una pagina di James Joyce e usata come apertura del suo scritto per un catalogo di W.G. del 1957. Una ‘frase’ che considero, ancora oggi, fortemente inerente e significativa sullo ‘spirito’ del lavoro di Winfred o dei pochi artisti come lui. Basterebbe da sola a illuminarne, di una particolare luce, tutta l’opera. Ed è anche per questo che trovo giusto inserirla come finale:<br />
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« <em>L’artista sta, come il Dio della creazione<br />dentro o dietro, al di là o al di sopra della<br />sua opera, è invisibile, raffinato, indifferente,<br />…e si pulisce le unghie.»</em><br />
(James Joyce)<br />
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R.P. febbraio 2009<br />
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Note:<br />
<span style="font-size: 85%;"><strong>1-</strong> Oggi questa è una ‘questione’ inesistente, completamente fuori luogo. Da quando il post-moderno prima e il terzo millennio poi, ci hanno abituati ad entrare nella personale di un artista, specialmente se giovane, e trovare contemporaneamente esposto, sulle pareti e nelle stanze della galleria, le cose più disparate: foto, disegni, luci, oggetti, sculture, video, light-box, cibachrome, grandi o piccoli dipinti, figurativi e astratti. Vediamo una installazione multimediale prodotta negli stessi momenti e proposta tutta insieme, magari con una ambientazione apparentemente casuale e, come tale, la accettiamo. Nessuno chiederà mai di sottoporre l’autore al test sulla ‘coerenza’, casomai in alcuni casi, viste le immagini presenti sulle opere, al test anti-doping. Il mondo odierno ci ha ormai definitivamente vaccinati e allontanati dalla ricerca a tutti i costi del valore della coerenza in arte. Come avviene da tempo nel mondo della musica leggera, così è oggi nelle arti figurative: perfino le ‘cover’ quando sono riproposte, anche senza alcuna modifica o alterazione, vengono tacitamente accettate e, addirittura, ne attribuiamo la gloria e il merito a colui che le ha ri-presentate. </span><br />
<span style="font-size: 85%;"><br /><strong>2-</strong> Rolf Lauter analizzando le opere di W.G. di questo periodo (1959-61) intitolava il suo scritto “<em>W.G. o l’inizio della Pittura Analitica</em>”. In: W.G. opere degli anni 1953-1961, Edizioni Roberto Peccolo, Livorno n.2, febbraio 1987</span><br />
<span style="font-size: 85%;"><br /><strong>3-</strong> W.G. Parlando di Matisse in “Dialog mit Claude Monet” (Dialogo con Claude Monet -opere 1982-88)<br />Catalogo Galerie Mühlenbusch, Düsseldorf, 1989.<br /><br /><strong>4-</strong> Elisabetta Longari, “<em>W.G. Ritratto Umorale</em>” capitolo: Il Cancro e l’amore, in “<em>Con Amore</em>”, Ritratti Monografici, Edizioni Roberto Peccolo, Livorno, giugno 1992. Riedito in: “W.G. Werkverzeichnis Band II -Gemälde 1962-1983 (Catalogo Generale Vol.II –Dipinti 1962-1983). Concept Verlag, Düsseldorf 1993.<br /><br /><strong>5-</strong> W.G. “<em>Dialog mit Claude Monet</em>”. Op.cit.<br /><br /><strong>6-</strong> W.G. amava molto l’Italia dove veniva, appena gli era possibile, per mostre e vacanze. Ha anche vissuto per lunghi periodi in Italia dove ha affittato casa: negli anni ’60 per 2 anni a Roma, in Liguria a Genova-Boccadasse per oltre 1 anno, e a S.Andrea di Rovereto vicino a Chiavari, per oltre 6 anni. Ne sono esemplari queste due lettere dal tono e dall’umore completamente contrapposte. Il 30.11.2002 in occasione della mostra: “La Galleria del Deposito” al Museo di Villa Croce di Genova aveva inviato questa dichiarazione, ora pubblicata nel catalogo della mostra: « Il mio legame con l'Italia risale ad un lontano passato. Non fu però la tradizionale nostalgia del ceto colto tedesco per le testimonianze dell'antichità a spingermi nel "paese dove fioriscono i limoni", ma il fatto che già all'inizio della mia carriera di pittore trovai critici, galleristi, collezionisti a Milano, Roma, più tardi – poi – a Genova, Livorno, Firenze e Torino che trovavano i miei quadri abbastanza interessanti da esporli ed acquistarli. Il primo passo lo fece il leggendario pioniere dell'avanguardia in Italia, Guido Le Noci, con una mostra personale alla Galleria Apollinaire di Milano nel 1957. Avevo lasciato l'Accademia d'Arte solo due anni prima. In quell'occasione feci anche la conoscenza di Panza di Biumo e della sua grandiosa collezione dei grandi Action-Painters americani. In seguito ebbi molti contatti facendo amicizie, quindi per tanti anni passai spesso più tempo in Italia che non nel mio paese. Così m'invitarono anche a Genova-Boccadasse,(dove ho vissuto per 2 anni) e dove Eugenio Carmi e Paolo Minetti dirigevano la Galleria del Deposito e contemporaneamente un laboratorio ed un'edizione per grafica originale che collaboravano con molti artisti. Tutti erano allora spronati dallo slancio idealistico che l'arte non doveva più essere un privilegio per pochi fortunati, bensì accessibile per chiunque. Mancavano ancora alcuni anni al 1968: non una rivoluzione, ma almeno un pensiero rivoluzionario ». Soltanto negli ultimi tempi era sempre più deluso dal nostro paese e non solo dall’ambiente artistico. Tono e umore totalmente diversi nella lettera che mi scriveva nell’agosto 2003: « <em>…..Dopo questa esperienza con un Museo italiano devo dirti che il mio progetto di lasciare alcune opere a Musei italiani è cancellato per sempre…. So benissimo cosa mi rispondi: reagisco esagerato e senza conoscenza della realtà italiana. Lo so, ma non mi frega un c…. della burocrazia borbonica italiana. Tu sai benissimo quanto forte era il mio legame con l’Italia una volta e per tanti anni. In Italia avevo i miei primi successi artistici. Amavo l’Italia: il paese, la cucina, i testimoni di una grande storia, i grandi pittori da Giotto a Piero della Francesca, da Mantenga a Tiziano. Italia era per me la prima scoperta oltre confine, una terra sconosciuta, un’altra lingua, un altro ritmo di vivere, un’altra mentalità. Ma stranamente mi sentivo a mio agio. Oggi come oggi mi domando se quell’Italia che amavo avrebbe (sic!) mai esistito oppure esisteva solo nella mia fantasia ?....</em> ».<br /><br /><strong>7-</strong> Gerhard Richter, “<em>La pratica quotidiana della pittura</em>” Ed. Postmedia Books, pp.15-16.<br /><br /><strong>8-</strong> Rileggendo l’ultima stesura di queste pagine mi sono reso conto del fatto che attraverso le pratiche informazioni inerenti a date di mostre, titoli di quadri, descrizione di avvenimenti e incontri nell’ambiente dell’arte, insieme agli aneddoti sulla vita privata di W.G., ho, forse, fornito al lettore una maggiore informazione per comprenderne la personalità e il lavoro; ma mi sono accorto anche di aver ripetutamente insistito sui temi delle sue intenzioni artistiche, delle sue ossessioni sul ‘dipingere’ e sulle sue fobie riguardanti la ricezione delle opere realizzate. Forse ho pedantemente rischiato una fraseologia ossessionante ma avevo solo questa possibilità per ricostruire un ‘clima’, i timori, i ‘fantasmi’, le ossessioni, appunto, che permangono nello studio di ogni artista, prima, durante e dopo che ha compiuto il suo lavoro. Come cantava la splendida voce di Billie Holiday in ‘Body & Soul’: “<em>senza uno, l’altro non sopravvive e l’altro, senza l’uno, non esiste</em>”; così, parafrasando la canzone, dopo la scomparsa di un artista, se è l’insieme dei quadri lasciati, che siano appesi nei Musei o sulle nostre pareti oppure seppelliti in un qualche deposito, l’unica cosa ‘tangibile’a formare, alla fin fine, il ‘Body’[il Corpo] di tutta la sua Opera. Sarà però il ‘Soul’[l’Anima] l’unica cosa ‘reale’, palpitante, senza la quale non riusciremo a ‘comprendere’ pienamente l’intera portata di quella ‘energia’ che da secoli l’uomo definisce Arte. Le opere restano là, appese o meno, e il loro ‘Soul’ ci accompagna ovunque. È la memoria di chi resta che perpetua le idee degli scomparsi. Perciò non sono mai stato ‘irritato’ con Winfred, ed ecco perchè ho deciso di non modificare o ‘alleggerire’ questo scritto.<br /><br /></span><span style="font-size: 85%;"></span>raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-2494926944537500802010-01-24T20:57:00.023+01:002012-02-18T17:16:26.992+01:00Maggio 2009 - Omaggio a Winfred Gaul<a href="http://4.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S3FwsNrclVI/AAAAAAAAC-k/gNNaRp4akw8/s1600-h/P1010082_.jpg"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5436250130101343570" src="http://4.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S3FwsNrclVI/AAAAAAAAC-k/gNNaRp4akw8/s320/P1010082_.jpg" style="cursor: hand; display: block; height: 240px; margin: 0px auto 10px; text-align: center; width: 320px;" /></a><br />
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</div>raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-17596235036780370322010-01-24T20:57:00.021+01:002012-02-18T17:17:39.541+01:00a WINFRED GAULin ricordo di un amico<br />
<br /><a href="http://1.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S12SFDTJUrI/AAAAAAAAC6w/s_ML6rxWtsg/s1600-h/94+Gaul02_.jpg"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5430657341161296562" src="http://1.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S12SFDTJUrI/AAAAAAAAC6w/s_ML6rxWtsg/s320/94+Gaul02_.jpg" style="cursor: hand; display: block; height: 320px; margin: 0px auto 10px; text-align: center; width: 231px;" /></a><br />
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</div>raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-19533085592837046352010-01-24T20:54:00.008+01:002015-08-19T18:26:56.909+02:00a MICHAEL GOLBERG<a href="http://4.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S12QJgg6A4I/AAAAAAAAC6o/aOkXHIye7Dk/s1600-h/2006+M+Golberg.jpg"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5430655218699862914" src="http://4.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S12QJgg6A4I/AAAAAAAAC6o/aOkXHIye7Dk/s320/2006+M+Golberg.jpg" style="cursor: hand; display: block; height: 320px; margin: 0px auto 10px; text-align: center; width: 219px;" /></a> <br />
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dicembre 2007<br />
<br />
<span style="font-size: 85%;">(Questo scritto è la riedizione, riveduta, ampliata e corretta, di un mio testo apparso nel numero 22 della rivista <em>Cahiers d'Art</em> del sett.-ott. 1997. La rivista aveva dedicato in quel numero un ampio servizio a Michael Goldberg)</span><br />
<br />
<br />
Incontrai la prima volta <strong>Michael Goldberg</strong> nel 1979 a Parigi durante una afosa mattinata di fine luglio. Aveva portato con sé, tra carte e piccole tele, una trentina di lavori tra i quali dovevamo sceglierne alcuni da utilizzare per la sua mostra da me. Avevo già fatto una pre-scelta attraverso delle diapositive che mi aveva inviato un paio di mesi prima e avevamo concordato di incontrarci dalle parti della Bastille nello studio prestatogli per l'occasione da un suo amico scultore.Quasi tutti i lavori appartenevano alla serie Codex che aveva iniziato in quegli anni e di cui non esistevano ancora molte grandi tele, cosa che mi facilitava nell'organizzare la sua mostra. Dopo i primi convenevoli, aveva sparpagliato le opere sul pavimento in ordine sparso e cominciammo così a scegliere i lavori da esporre; apparentemente di comune accordo, ma percepivo come per lui non facesse una grande differenza sceglierne uno od un altro, in fondo erano tutti “suoi lavori”. Addirittura non reagiva minimamente se cercavo di dare una spiegazione (una “lettura colta” in chiave estetico-cultural-fìlosofico) delle opere che sceglievo; si limitava ad annuire, sembrava in attesa di scoprire quale fosse il vero feeling che avevo col suo lavoro. Infatti si entusiasmò e cominciammo finalmente a dialogare su un terreno più cordiale quando gli svelai che sceglievo quel tale lavoro perché mi piaceva molto il modo in cui “quella striscia gialla finiva ad incastrarsi là in alto, nel mezzo tra la larga macchia blu e la densa pennellata rossa che gli stava accanto”. Alla fine il ghiaccio si era sciolto e Mike decise di stappare la bottiglia di Chablis che attendeva lì vicino nel secchiello. E brindammo al successo della mostra e all'inizio della nostra amicizia.Quella dei Codex era una serie che, già nelle diapositive, mi era piaciuta molto perché sulla superficie di ogni lavoro si strutturavano, accostandosi o contrapponendosi liberamente tra loro, forme e campi astratti di vario tipo e colore trattenuti insieme, legati e interagiti dalla presenza di barre o bande colorate e strisciate e slittamenti sottili del colore che, delimitando i confini e i movimenti tra le varie forme, funzionavano al contempo da impalcatura o da vettore al tutto. Un insieme di precari equilibri e continui contrasti per ottenere un'immagine di precisa e solida unità. Oppure il tutto che poteva essere anche completamente ribaltato. Questi lavori erano ormai completamente diversi ma, per alcuni particolari, richiamavano ancora alla mente la serie di quadri da lui dipinti tra il 1960 e 1963 e definiti da Klaus Kertess: «Architecting Paint». Fu questa la prima ma fondamentale “fascinazione” che recepii quel giorno dalla pittura di Mike e che costantemente ho ritrovato poi in tutti i suoi lavori o nei cicli di opere che seguirono negli anni futuri.Infatti, ancora oggi, ciò che mi affascina della sua pittura è quell’insieme di forme e colori apparentemente messi in disordine ma formanti un’unità autosufficiente; e mi intriga anche quella strana sensazione labirintica di poterne ribaltare e modificare in continuazione l’angolo di lettura.A mio avviso la pittura nei suoi quadri non cerca mai di provocare effetti sulla rètina dell'osservatore né, tanto meno, reazioni cerebrali razionali riguardanti il contenuto dell'opera d'arte che, come afferma lui stesso (parafrasando a modo suo Adorno), «Non sarà mai la somma dell'intelletto che vi viene pompato dentro a determinare il contenuto di un quadro»;(1) ma si insinua con nonchalance negli strati profondi della nostra emotività, costringendoci ad affrontare -confrontare tra loro- le differenti sensazioni di ordine e/o caos, di equilibrio o disequilibrio che riceviamo dal quadro sollecitando la nostra, personale e vitale attitudine all'ascolto dell'opera e l'intima disponibilità a lasciarci più o meno coinvolgere da essa.Quel giorno, con mia sorpresa, insistette molto perché prendessi, da inserire nella mostra, anche due o tre lavori di alcuni anni prima e molto diversi dall'unità e contemporaneità che scaturiva dall'insieme dei Codex. I lavori precedenti mi sembravano più “sperimentali”: la superficie di carta grezza, quasi non dipinta, era martoriata, seviziata da strappetti, abrasioni e fori come provocati da bruciature di mozziconi di sigaretta, il tutto amalgamato da un colore leggero, diluito, acquarelloso e trasparente, come “slavato”.Proprio non riuscivo a coglierne la continuità, a ritroso, con i Codex. Fu soltanto qualche mese dopo, nel montare le opere sulla parete della mostra che mi accorsi del perché Mike aveva voluto inserire quei lavori più anziani: tutte le azioni da lui svolte sulla carta erano state concentrate in una forma che vagamente ricordava un arco, una volta architettonica a forma di imperfetto semicerchio, oppure (come istintivamente immaginai, essendo toscano) dalla familiare, vaga, forma collinare.E questo è un altro costante aspetto che riguarda la sua pittura che in quel momento non avevo tenuto nella giusta considerazione, ma che è riaffiorato e ho trovato confermato, sempre di più recentemente, dopo che ho visto i quadri nati durante i soggiorni di lavoro nella sua casa tra le colline senesi negli anni tra il 1982 e il 1990.Avevo già visto riproduzioni di sue opere in un catalogo del 1959(2) sulla pittura americana e per essere un pittore dagli inizi Action painting che operava nella magica scena artistica della New York degli anni '50, appartenente alla generazione di pochi anni più giovane di quella “eroica” dei Pollock, Gorky, de Kooning, Rothko e F. Kline e quindi proveniente dalla patria in cui si esaltava, sia in pittura che in arte, il SUBLIME e il MINIMAL, non mi aspettavo che arrivasse a produrre una pittura così completamente diversa dagli stilemi newyorkesi cui eravamo abituati a vedere qui da noi, in Europa, verso la metà degli anni '70. Vista nel panorama di allora la pittura che faceva in quel tempo Michael Goldberg sembrava trasformata, trasfigurata. Intanto era diventata molto “inattuale” (già il solo fatto di “dipingere” era considerato in quegli anni inattuale - anche se molti continuavano a farlo nel silenzio dei propri studi), certamente “insolita”, non tanto per il contrasto di sensazioni tra equilibrio e disequilibrio o per quel fantasmatico paesaggio, che io continuavo (e continuo ancora oggi) a “sentirci”; ma perché, frequentata più da vicino e osservata con attenzione, si intravedeva che in questa pittura qualcosa era accaduto durante il suo divenire, la si sentiva come una pittura tipicamente da tempi di crisi: scarnificata, densa, pastosa e carica di tensioni allo stesso tempo. E volutamente “insolente”. Pittura che rendeva palpabile una sorta di disagio, come se una dolorosa memoria fosse ancora presente, l'insieme creava così una atmosfera che in musica verrebbe definita blues; ed era proprio questo aspetto che stranamente mi colpiva nella sua pittura e nei suoi quadri. Forse perché era proprio tutta il contrario della piacevole, astratta, eclatante Pittura Americana dei Color Fields, allora di gran moda e imperante perché ingenuamente ritenuta l'erede naturale, la continuazione dell'Espressionismo Astratto. E niente a che vedere neppure con l'ascetica, secca, mentale pittura minimale dei Fundamental Painting(3) come Ryman o Frank Stella. (Ma anche Stella, dopo aver abbandonato i quadri minimali e geometrici con cui era diventato famoso, sarebbe giunto solo alla fine degli anni settanta a ricerche simili con i suoi paintings relief in metallo dipinto).Forse il disagio che, malgrado tutto, traspariva dalle pennellate era basato sui suoi ricordi, sulla memoria di fatti della propria storia personale o probabilmente sulla nostalgia per un'epoca ormai tramontata e di come era stato bello poterla vivere, in quegli inizi degli anni Cinquanta, attraverso l'avventura della pittura. In quel momento magico ed esaltante quella sorta di “Eldorado” a qualcuno, che si era allineato alle regole, aveva fruttato fama e successo di mercato mentre per altri, nel giro di pochi anni, le cose erano mutate e si erano ritrovati espulsi dall'Eden. (Esemplare è, in questo senso, il succedersi delle alterne fortune, sia di critica che di mercato, della pittura di Philip Guston).Ma probabilmente il disagio gli proveniva anche dalla determinazione di voler continuare a dipingere “a modo suo” e a dispetto di tutto quello che stava accadendogli intorno; cercando con caparbietà e ostinazione di esprimere soltanto una pittura tutta “sua”.Nei quadri dipinti all'epoca dai pittori rimasti in ombra, in modo più evidente in quelli degli americani che in quelli degli europei, si potevano ancora distinguere, sotto la pelle della pittura, tutte le cicatrici dei “pestaggi” subiti durante le eclatanti affermazioni internazionali della Pop Art, della Minimal, dell'Arte Povera e della Arte Concettuale, un insieme di trend che si alternarono tra il '60 e '70 sul palcoscenico, ma che non avevano molto a che fare con le idee con cui questi pittori portavano avanti le loro opere.La pianificazione di interpretazioni unilaterali messe in atto durante tutti gli anni '70 dagli opinionmakers dell'epoca: la critica, le riviste e le mostre organizzate nei Musei, dovevano per forza aver provocato nella pittura di Michael Goldberg, come in quella di alcuni della sua stessa generazione (come in quella che ho visto di tanti altri pittori “non allineati”) non poche “mutuazioni” ed aver costretto tutti loro a faticose trasformazioni, relegandoli in una situazione di costante disagio. Indubbiamente per giungere con il proprio “dipingere” ai risultati e alle fioriture della piena maturità odierna, dei passaggi forzati sono stati necessari, per lui come per gli altri, e alcuni ostacoli durante il percorso di una vita si incontrano e devono pur sempre essere affrontati e rimossi. Anzi, pare, che sia proprio un tale processo, da considerare necessario, a far ottenere una piena maturazione al proprio “fare”.Ma tutto questo è sempre così indispensabile? Prima o poi nell'ambito dell'arte, ivi compresi la Storia e il Mercato, vengono riconosciuti i ritardi e gli errori di valutazione commessi nel passato; in quel momento dovrà esser dato a Mike ciò che gli è dovuto. Se non altro tutto il rispetto e la considerazione per il valore, la costanza, la forza e la profondità con cui ha portato avanti il suo percorso artistico. Finalmente, in questi ultimi decenni e in particolar modo nella sua pittura recente tutto appare molto più disteso, rilassato: un dipingere quasi “gioioso”, che musicalmente si definirebbe “cantabile”.Le serie di quadri si susseguono l'una dopo l'altra con rinnovata forza coloristica ed espressiva, in alcune ha recuperato persino l'originario interesse per il paesaggio astratto come metafora. Invitato la prima volta nel 1980/81 da Carmengloria Morales nella sua casa di Sermugnano a passare un'estate, insieme con la moglie Lynn Umlauf, di vacanza e pittura, si è affezionato all'Italia e in seguito alla Toscana dove, dal 1987, soggiorna per lunghi periodi dell'anno nel rustico di campagna che ha affittato tra le colline senesi, alternandosi con N.Y.C, dove continua a insegnare e dipingere. In questo suo nuovo studio, lavorando su piccole e grandi dimensioni sta dipingendo quadri nei quali il suo antico amore per il paesaggio urbano astratto si coniuga e si confronta con le influenze della pittura dei Maestri rinascimentali italiani e del Manierismo fiorentino e senese. Come confessa lui stesso in un suo scritto del settembre 1997 sul n. 22 della rivista Cahiers d'Art: «Essendo il tipo di persona che veramente non apprezza la natura - ne sono quasi allergico - mi sorprende ancora la mia decisione di trascorrere cinque mesi all'anno sepolto nel paesaggio toscano. Sicuramente sto qui per il senso di estraniazione, per l'assenza di interruzioni, per la necessità di poter trascorrere lunghi periodi di tempo con le dita nel naso a dedicare profondi pensieri all'arte e alla vita. Che lusso! La pittura classica è per me linfa vitale. La fede intensa e il virtuosismo di Tiziano, la folle luminosità di Grunewald, la voluttà onesta e semplice di Rubens, l'occhio e la mano sapienti di Giotto e Simone Martini, la luce lancinante di Piero Della Francesca sono una droga di mia scelta e farne esperienza diretta in loco è infinitamente eccitante».In questi lunghi anni trascorsi, la nostra amicizia si è consolidata sempre di più e io continuo ad esporre ogni due, tre anni i quadri delle sue nuove serie che dipinge qui in Toscana. La mostra che abbiamo fatto recentemente era la sua decima personale a Livorno nella mia galleria.Oggi, in tutta questa storia, la cosa che più solletica la mia vanità è l'idea (fantasiosa?) di aver sottratto un albero trascurato che rischiava di finir soffocato dal frenetico traffico metropolitano di Manhattan ed averlo aiutato a trapiantarsi tra gli ulivi e le vigne del Chianti dove ho osservato la sua rinascita, l'ho visto crescere rigoglioso e rifiorire con frutti dai colori sempre più meravigliosi. Certo tutto questo non sarà stato la realizzazione del sogno utopico della mia vita, né l'affermazione del mio successo personale più strepitoso ma, visti i tristi tempi che ci circondano, trovo che in fondo è soltanto un'altra tra le semplici ricette utili per sopravvivere e continuare ad assaporare dalla vita quel poco di buono che ancora possiamo trame. La stessa riflessione che mi capita la mattina al bar per il cappuccino: con una spruzzata di polvere di cacao sopra prende un altro sapore; senza, trovo che ha un sapore più ordinario. Così lui continua a dipingere come gli pare e io continuo ancora oggi a guardare Mike di profilo e a godermi i colori dei suoi affascinanti quadri, appesi sulle pareti della mia galleria.<br />
E ogni tanto prendiamo un bicchiere di Chablis insieme.<br />
<br />
Roberto Peccolo, novembre 2003<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://4.bp.blogspot.com/-lL-TopuE9NM/VdSt-0JGJEI/AAAAAAAAMck/6H4yrqdzhOE/s1600/Golberg_.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="153" src="http://4.bp.blogspot.com/-lL-TopuE9NM/VdSt-0JGJEI/AAAAAAAAMck/6H4yrqdzhOE/s320/Golberg_.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
ph. R.Formenti - 2006</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<span style="font-size: 85%;">(Questo scritto è la riedizione, riveduta, ampliata e corretta, di un mio testo apparso nel numero 22 della rivista <em>Cahiers d'Art</em> del sett.-ott. 1997. La rivista aveva dedicato in quel numero un ampio servizio a Michael Goldberg)</span><br />
<br />
<span style="font-size: 85%;">(1) Da una conferenza di M. G. 1991. Ripubblicata in M.G., Anima/Soul, Collana “<em>Pittura e Memoria</em>”, Morgana Edizioni, Firenze 2002.</span><br />
<span style="font-size: 85%;"></span><br />
<span style="font-size: 85%;">(2) Catalogo “<em>Arte Nova</em>” Torino, 1959. Mostra organizzata da M. Tapié e L. Pistoi al Circolo degli artisti a Torino (rassegna di artisti Informali europei, pittori americani dell'Action painting americani e artisti giapponesi del Gruppo Gutai).</span><br />
(3) Titolo della mostra “Fundamental Painting” tenutasi allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1975 a cura di R. Dippel.</div>
</div>
raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-8525745719657666722010-01-24T20:52:00.018+01:002015-10-01T13:28:48.005+02:002004 - dialogo tra MENEGUZZO e PECCOLO<span style="font-size: 85%;">Intervista tratta dal catalogo della mostra</span><br />
<strong>Raccolti & Differenziati</strong><br />
<strong><br /></strong>
Corrado<strong> BONOMI</strong><br />
Raffaella<b> FORMENTI</b><br />
Albano<b> MORANDI</b><br />
Giordano<b> POZZI</b><br />
Paola<b> RISOLI</b><br />
Tyrome<b> TRIPOLI</b><br />
<strong></strong><br />
<strong>Qualche considerazione<br />e un dialogo sulla “flànerie” dell’artista<br />(e del gallerista)</strong><br />
di <strong>Marco Meneguzzo</strong><br />
<br />
Ci sono parole che da sole evocano l’idea che le ha prodotte, e che anzi aggiungono a quell’idea -in virtù della loro forza intrinseca, che va oltre la semplice trasposizione fonetica, comunicabile, del concetto- una sorta di valore aggiunto: in questo nostro caso la parola è “flàneur”. Non appena Roberto (Peccolo) ha pronunciato questa parola per descrivere la sua idea di mostra -e in realtà la sua idea di arte- sono affiorate visioni, immagini, evocazioni, con la stessa immediatezza di una illuminazione (altra parola correlata…), istantaneamente, con la stessa rapidità con cui la bocca la stava articolando.<br />
<br />
Ora, si presume -si spera- che il lettore viva questa stessa sensazione, questa stessa illuminazione… In tal caso, il lavoro del critico, nella specifica situazione del suo essere “compagno di strada”, sarebbe finito prima ancora di cominciare: inutile cercare di costruire, o di decostruire, qualcosa che nasce già compiuto, pieno, maturo.<br />
E’ lì, ostentato, esposto, sicuro: non resta che viverne le emozioni evocate.<br />
Ma al godimento di una sensazione si può arrivare anche per via deduttiva, e in tal caso il critico riprende il suo antico ruolo didattico di “traduttore”, di interprete accreditato, che spreme la parola per farne uscire tutto il succo, anche a costo di rovinarne la forma.<br />
<br />
Così, “flàneur” e “flànerie” diventano parole da smontare, da scomporre in infinite frasi, ognuna delle quali possiede un po’ della forza di quella parola. Dunque, l’artista come vagabondo, come “flàneur”… E’ un vagabondo di città, innanzi tutto, è un vagabondo di matrice ottocentesca, e magari francese (non solo per la parola stessa, che lo è, ma per tutta la letteratura “maudit” che ne ha fatto la fortuna, da Baudelaire a Mallarmé…), libero come lo può essere un emarginato sociale che non vede riconosciuto neppure il suo ruolo di “emarginato”, appunto (al contrario, nel medioevo, il vagabondo aveva un ruolo, vicino a quello del pellegrino e, talora, allo “scemo del villaggio”, funzioni entrambe codificate e accettate nel consesso sociale.<br />
<br />
Il “flàneur” è l’altra faccia del “borghese”, in un’epoca in cui di proletariato ancora si parlava poco, e in cui contava più l’atteggiamento nei confronti della vita e del mondo che l’appartenenza ad una classe; è un osservatore incantato e disincantato al tempo stesso: incantato dalla varietà della vita, anche nei suoi aspetti più sordidi (il “demi monde” è un’altra invenzione del tempo…), assolutamente disincantato nei confronti del potere. Insomma, la versione cittadina e “moderna” -alla Baudelaire-<br />
del romantico. Ma se il flàneur è “l’antiborghese”, l’artista di oggi può essere considerato tale ?<br />
<br />
<strong>Meneguzzo:</strong> <em>Perché l’artista dovrebbe essere un flàneur, o per lo meno assumerne l’atteggiamento ? </em><br />
<strong>Peccolo:</strong> Per sopravvivere all’ambiente divenuto asfittico. Per irridere tutti i filoni dell’arte oggi vigenti che, a mio avviso, si riducono grosso modo a tre correnti:<br />
quello dell’ennesima, ultima possibilità della pittura, quello della figurazione ritrovata attraverso la fotografia, e quello della gestione del sistema dell’arte come gestione di un sistema commerciale. Al contrario di tutto ciò penso che ci sia bisogno di un nuovo atteggiamento dadaista, di un nuovo “balbettìo” dell’arte, magari pronunciato da una generazione di artisti meno imprenditoriale, più “romantica”.<br />
Amo questo atteggiamento anche al di sopra degli artisti: vorrei che essi avessero la possibilità percorrere ancora un’ultima ”passeggiata”, non nella natura –come cercava, ad esempio, Celant tra le origini dell’ Arte Povera-, ma nella città. In questo senso scelgo Schwitters e non Beuys…<br />
<br />
<strong>M.:</strong> <em>L’artista deve –e sottolineo la parola “dovere”, che qui indica una precisa volontà del soggetto- essere sempre un emarginato ?</em><br />
<strong>P.:</strong> Non sempre, anzi…Vediamo che la gran parte di loro infine ha scelto la società e i suoi sistemi. Per certi versi è inevitabile, ma l’atteggiamento nei confronti del mondo è ancora importante, e questo atteggiamento vagabondo non appartiene al sistema. Per questo ci fa riflettere.<br />
<br />
<strong>M.:</strong> <em>Tuttavia tu sei un gallerista, e questi lavori vengono esposti in una galleria, che del sistema dell’arte è parte integrante…</em><br />
<strong>P.:</strong> Alla fine l’arte sempre lì sta… Ma credo che siano un controsenso e un compromesso ancora accettabile, rispetto a chi progetta per una richiesta di mercato. Accetto i luoghi del sistema, che sono inevitabili, ma non digerisco che si creino, in arte, bisogni indotti.<br />
<br />
<strong>M.:</strong> <em>Perché questi sei artisti ?</em><br />
<strong>P.:</strong> Per il loro atteggiamento individuale, che assomiglia molto a quello che cerco in arte. Vedo in loro, al di là delle differenze, qualcosa che li accomuna ai Novorealisti, in specie quelli più “generosi”, come Spoerri o Tinguely, o anche Villeglè. Amo negli artisti la volontà di “prendersi una vacanza” anche dal loro ruolo di artisti, la voglia di disubbidire, di “marinare la scuola”. In questi giovani mi aspetto di trovare dietro l’angolo, con sorpresa, la stessa passione e al contempo lo stesso “disinteresse” di quegli illustri antecedenti.<br />
<br />
<strong>M.:</strong> <em>Allora l’arte è, di fatto, la “vacanza dell’arte”, intendendo con “vacanza” il duplice significato di “assenza” e di “svago” o “licenza” ?</em><br />
<strong>P.:</strong> Ti rispondo dicendoti che amo l’Art Brut, in cui il momento “naturale”, fisico, è molto più importante di quello culturale (come aveva intuito con lungimiranza Dubuffet).<br />
E’ vero poi che la foresta -la jungla- dell’arte è piena e dominata dai grandi alberi, ma vi si trovano anche fiori e piccoli arbusti, più fini, più belli e più… “a portata di mano”. Quando vado per boschi anch’io ammiro le grandi querce e gli abeti giganti (che sono proprio quelli che marcano il bosco); ma poi mi soffermo a gustare le fragole e i mirtilli, che non a caso sono le piante più piccole e nascoste del sottobosco. Dipende da quello che uno cerca…<br />
Per fare un esempio più attinente: tra Guttuso e Turcato, vissuti nella stessa città e nello stesso periodo del dopoguerra, a mio parere il primo illustra il mondo, il secondo costruisce il linguaggio. Dei due la mia preferenza è per il secondo, e con lui per tutti coloro che “entrano” nel problema….raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-34128975039554954222010-01-24T20:52:00.017+01:002012-02-18T17:12:45.897+01:00MICHAEL GOLDBERGGiugno 2007 - Articolo di Sebastiano Grasso per MICHAEL GOLBERG sul Corriere della Sera<a href="http://4.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S18lOsL4iRI/AAAAAAAAC8c/lhGj-XS77F8/s1600-h/2007+artic+GOLBERG.jpg"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5431100609941506322" src="http://4.bp.blogspot.com/_Qv8OOQHuN6Q/S18lOsL4iRI/AAAAAAAAC8c/lhGj-XS77F8/s320/2007+artic+GOLBERG.jpg" style="cursor: hand; display: block; height: 296px; margin: 0px auto 10px; text-align: center; width: 320px;" /></a><br />
<div>
</div>raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-61734177805400791392010-01-24T20:52:00.016+01:002012-02-18T17:14:23.047+01:002007 - A proposito dei Nouveaux Réalistes al Grand PalaisElegìa di Pierre Restany e commenti sui Nouveaux Réalistes<br />
<br />
“<em><span style="font-size: 85%;">Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi:<br />navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,<br />e ho visto i raggi Beta balenare nel buio vicino alle porte di<br />Tannhäuser…. e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo<br />come lacrime nella pioggia</span></em>”<br />
(<span style="font-size: 85%;">il replicante androide in “Bladerunner” di Ridley Scott</span> )<br />
<br />
<br />
<br />
Il 27 ottobre del 1960 durante una riunione, promossa da Pierre Restany, in casa di Yves Klein, veniva firmata, dagli artisti presenti Y. Klein, Arman, M. Raysse, F. Dufrêne, J.Villeglé, R.Hains, D.Spoerri e Tinguely, il manifesto, o meglio, la dichiarazione costitutiva del gruppo artistico che si definiva “<strong>Nouveaux Réalistes</strong>”. Il testo redatto da Pierre Restany così dichiarava:<br />
«<strong> I Nuovi Realisti hanno preso coscienza della loro singolarità collettiva.<br />Nuovo Realismo = Nuovi approcci percettivi del reale.</strong> » [<em>Naturalmente in francese nell’originale</em>]<br />
L’avvenimento faceva seguito ad una serie di mostre che ne avevano messo a fuoco le tematiche, il lavoro e le intenzioni. Come quella dell’aprile dello stesso anno organizzata alla Galleria Apollinaire di Milano che fu intitolata appunto “Les Nouveaux Réalistes”. Pierre Restany allora giovane critico lavorava alla redazione milanese della rivista Domus e aveva una buona relazione professionale e di amicizia sia con Guido Le Noci della Galleria Apollinaire che con la Galleria Schwarz di Arturo Schwarz e proprio in questa ultima furono organizzate, in quegli stessi anni collettive di alcuni artisti del gruppo, fino a quella, del febbraio 1966, dal titolo significativo “Movimento DADA ieri,oggi,domani “ nella quale parteciparono: Arman, Raysse, Spoerri, Dufrêne, Rotella e Villeglé. Una mostra che, dichiaratamente, tendeva a enfatizzare la continuità esistente tra l’allora emergente, giovane generazione dei NovoRealisti con il gruppo storico dadaista di Zurigo e Berlino.<br />
Il manifesto redatto e qui sopra trascritto, un testo di soltanto due righe, firmato dai partecipanti alla riunione ed in seguito condiviso e sottoscritto dagli artisti che, suggeriti dello stesso Restany, si sono poi aggiunti: César, Christo, Deschamps, Rotella e Niki St.Phalle. Questo alla fine divenne il nucleo originario che costituirà l’intero gruppo artistico europeo d’avanguardia più innovativo del secondo dopoguerra. L’unico raggruppamento artistico del secondo dopoguerra che ha avuto un forte impatto sul pubblico dell’epoca e vissuto una storia semplice ma complessa e agitata allo stesso tempo. Un esempio che vale per tanti altri: il gruppo si è dato una data di fondazione e quindi di nascita, per poi festeggiare, soltanto 10 anni dopo, la data della sua morte come movimento artistico [e quindi la libertà per ognuno degli artisti componenti il gruppo, di proseguire per la propria personale strada]. Ancora una volta fu Milano la città dove, nel 1970, venne organizzata la manifestazione con cui sarà celebrata e festeggiata, attraverso un grande happening in vari spazi della città, con interventi artistici, tra cui alcuni con opere create appositamente per l’occasione, la data della morte del NovoRealismo quale gruppo artistico costituito. Evento enfatizzato e reso chiaro nella grafica-manifesto realizzato per l’occasione da Spoerri:<em> <strong>“Ultima Cena -banchetto funebre del Nouveau Realisme-”.</strong></em><br />
Per afferrare meglio il valore e la portata di questo “movimento” artistico è doveroso considerarlo nella panoramica del momento e nella fase storico-artistica che circondava, all’epoca, questi artisti e solo in seguito approfondire con attenzione i “concetti/contenuti” di cui erano portatori i NovoRealisti con le loro azioni e con le loro opere. Questo è indispensabile proprio per tenere separate e distinguere attentamente la forza e la vitalità dell’impatto delle loro prime opere e delle azioni iniziali svolte da questi artisti e per non rimanere fuorviati, specialmente nell’interpretazione del lavoro, da quell’enorme massa di opere di bassa qualità prodotte, da alcuni di loro, durante il proseguo della carriera quando, sopraffatti dalle richieste del mercato, hanno invaso sia il mercato che le gallerie. Opere di cui ognuno di noi ha potuto constatare la scadente qualità e delle quali, in questi ultimi dieci anni, ha potuto assistere al riempirsi delle gallerie, delle fiere d’arte e delle televendite. Ed è facile qui il riferimento ai bronzi o ai quadri “pennellati” di Arman; come pure alle bambolone di vetroresina o di ceramica, definite “Nanà”, di Niki St.Phalle; o anche ai César con le sue compressioni d’auto e alle “espansioni”. Per non parlare di M.Raysse che, abbandonato il periodo di ricerca NovoRealista, dalla forte impronta che anticipava la Pop, ha cominciato a dipingere quadri dal sapore anacronistico e dal gusto tardo-romantico.<br />
Tutta un’altra atmosfera si respira, invece, davanti alle opere “vintage” create da questi artisti, intorno alla fine degli anni cinquanta, quando ognuno di loro esponeva e lavorava partecipando già pienamente allo spirito del tempo. In quegli anni tutti i giovani artisti cercavano con ogni mezzo e con tutte le sperimentazioni possibili di superare e di sfuggire all’asfissiante atmosfera Informale, dovuta specialmente a quel post-informale sclerotizzato, divenuto oramai una sterile accademia del segno o della materia o del gesto. In quegli stessi anni, in un altro versante, altri giovani affrontavano la diffusa atmosfera che si diffondeva per tutta Europa: un’intera generazione era alla ricerca di una sorta di “tabula rasa” o nuova “verginità”; cercava di recuperare un “grado zero”, desiderosa di azzerare per ricostruire e ricominciare poi su nuove “basi” (tale ricerca era più o meno teorica e/o concettuale oppure più o meno pittorica e riflessiva e in alcuni casi persino “monòcroma”) . Forte era il desiderio di una piattaforma da cui poter ripartire dopo la svolta degli anni ‘60. Il riferimento è qui ai tedeschi del gruppo “Zero” o agli olandesi del gruppo “Nul”; come pure al nostro gruppo milanese “Azimuth” creato da Manzoni, Castellani a cui partecipava in qualità di critico, teorico e artistico Vincenzo Agnetti.<br />
Ma contemporaneamente era anche in atto, in Europa come negli Stati Uniti, un’azione di recupero sia storica che artistica, attraverso mostre retrospettive e antologiche, del Dada che in quegli anni era in via di rivalutazione -erano ormai passati 50 anni dalle serate del Cabaret Voltaire di Zurigo e dalle mostre e serate dadaiste nei cabaret berlinesi-. Infatti proprio negli anni 1958-1963 numerose mostre o gruppi artistici, al di qua e al di là dell’oceano, si definivano di volta in volta: “new-dada”, “Funky-art”, ecc.<br />
I NovoRealisti in questo partecipavano pienamente e attivamente allo spirito del tempo grazie alla loro speciale interpretazione del “tabula rasa”; ma nelle soluzioni di lavoro dei suoi protagonisti e soprattutto nella lettura che ne faceva Restany, ribaltavano completamente, di 180 gradi [<em>non a caso una mostra da lui organizzata a Parigi nel 1961 ebbe come titolo “A 40° gradi al di sopra del Dada”],</em> l’utilizzo dell’”objet-trouvé”, dell’oggetto trovato, secondo la storica concezione di stampo dadaista. Ma innanzitutto ancora più lontano era l’eventuale riferimento al Realismo. Il Realismo dei Novorealisti non aveva proprio niente a che fare con il vecchio concetto di realismo nel quale la natura o la “realtà” veniva ancora considerata con uno sguardo frontale: essa sta davanti a noi e noi possiamo osservarla per capirla, analizzarla, interpretarla, esprimerla, ecc. A proposito di un simile argomento qualcuno aveva scritto, pochi anni prima, questa lapidaria frase circa le opere di Pollock: « <em>Pollock è il primo ad avere abbandonato il cavalletto, una volta posta la tela per terra, per cogliere il quadro da “dentro”e dall’alto. Era, per lui, come osservare un paesaggio visto dal dentro e dall’alto al medesimo tempo; mentre molta della contemporanea pittura europea appare ancora come tanti differenti paesaggi visti sfilare allineati attraverso il finestrino di un treno</em> ». Frase che liquidava così, in due parole, molta della produzione pittorica europea di quegli anni.<br />
Lo sguardo che i NovoRealisti posavano sugli oggetti che incontravano nelle strade o cercavano nei mercatini dell’usato o nelle discariche urbane, che essi frequentavano, appunto intorno alla fine degli anni ’50 e quindi in piena epoca “esistenzialista”, non era solo determinato da una reazione all’Informale ma era al contempo lo sguardo di un abitante metropolitano che ri-trovava il “vecchio”, l’usato, il “rifiuto” (tanti oggetti carichi di un vissuto e di una loro storia, forse povera ma ancora densa di sapore che poteva essere riutilizzata e reinserita o accomodata o accumulata in una rinnovata “mise en scène” proprio grazie a quel particolare colore, a quella strana forma o a quel sapore di storie antiche. Paradossalmente oggetti scartati come inutili rivivevano, grazie allo sguardo e all’azione dell’artista, il pieno della loro rappresentazione mostrandosi su un’opera d’arte – e che veniva definita “accumulazione”-). Era la reazione di uomini e artisti che avvertiva urgente la necessità di ribellarsi, di essere “contro” alla società che degenerava il proprio habitat nelle tappe forzate di una continua trasformazione, dove ogni oggetto usato e non più utile, considerato già vecchio, doveva essere gettato e sostituito dall’ultimo modello, in una foga di rinnovazione a tutti i costi; il tutto provocato da una società dei consumi in continua, esasperante espansione e che allora appariva inarrestabile. Per loro un impegno quantomeno doveroso quello di denunciare un società cosiffatta che rischiava di gettar via il bambino insieme con l’acqua sporca, come recita il famoso proverbio.<br />
Ogni cittadino passando posava il suo sguardo sui muri tappezzati dalle pubblicità sui quali campeggiavano, sempre di più, nuovi e scintillanti, i riti e i falsi miti del consumismo, ne rimaneva affascinato, ipnotizzato rischiando l’assuefazione e il conformismo. I NovoRealisti, e gli affichisti in particolare, invece definirono tutto questo la “pelle”viva di una città in continua trasformazione e se ne appropriarono, strappandola dai muri con attaccata tutta la sua storia individuale, per ricollocarla e renderla a nuova vita, utilizzandola secondo la propria idea e accumulandola anche insieme con altrettanti oggetti suoi simili.<br />
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<em>Ma le migliori parole per rivivere e comprendere gli avvenimenti di quegli anni e il contemporaneo lavoro dei NovoRealisti, le avevo lette in un articolo di Pierre Restany su un numero della rivista italiana Domus della fine degli anni ’60, scritto stranamente in francese -senza traduzione- di cui ho purtroppo perso le tracce. Di quell’articolo mi sono rimasti solo degli appunti sparsi e trascritti a mano riguardanti una stentata traduzione che all’epoca tentai di fare di quell’articolo, per meglio comprenderlo. Questi appunti sono ritornati alla luce recentemente quando sono andato a ricercare le fonti originali per scrivere sul tema di questa mostra. Oggi non ne sono più certo ma sicuramente molte delle frasi da me trascritte sono appunti sulla traduzione e alcune parti sono magari mie aggiunte per meglio ricordare o ricostruire i concetti e le “nuance” contenute nell’articolo di Restany; quindi c’è il possibile rischio che questo scritto, che poco sotto riporto come citazione, sia in realtà una sorta di fantasioso misto tra lo scritto esistente di Restany, i miei appunti di allora per la traduzione e il mio intendere odierno.</em>[<em>Insomma quello che qui propongo può risultare una sorta di stravagante “collage”. Ma in ogni caso si tratterà sempre di una nostalgica operazione di recupero archeologico di un’epoca, dell’ambiente che l’ha determinata e della fauna che l’ha vissuta. Della cui legittimità sarà lecito dubitare, ma della sua utilità no!</em>].<br />
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« All’inizio del 1960 le personalità dominanti nella cerchia dei miei amici artisti si chiamavano Yves Klein, Raymond Hains, Jean Tinguely. Tre militanti della metamorfosi del quotidiano, della vita nella metropoli. Dopo numerosi anni di preparazione e d’attesa erano passati all’attacco, moltiplicando le prese di posizione e i gesti-eclatanti, i colpi di forza che erano dei colpi di rottura manifesta con le idee e le cose che circolavano nell’ambiente dell’arte. Parigi di quegli anni si gongolava soddisfatta di scoprire sul proprio territorio, e tutti insieme, Kandinsky, Mathieu e Vasarely. In quei giorni la grande domanda all’ordine del giorno era di sapere se la quinta Repubblica avrebbe adottato l’ informale come stile ufficiale. In breve, la moda era per quella che si definiva l’ astratti-ismo più o meno lirico o geometrico, più o meno caldo o freddo. Non erano ancora venuti i tempi belli per Denise René ma i suoi jolly di punta del circolo “ forme semplici e colori puri “ riprendevano speranza e anche i giovani proseliti del Gruppo di Ricerche d’Arte Visuale scalpitavano simpaticamente. Nel versante “tachisme” si navigava in pieno lirismo. Michel Tapié credeva, in buona fede, d’aver ormai fissato il “divenire” dell’art autre per i prossimi trenta anni. E il gallerista Stadler si considerava già il Maeght del futuro. La Galerie de France, un nome predestinato, vendeva, a due passi dalla boutique di Hermès, sul Faubourg St. Honoré l’articolo di Parigi, in pittura, di cui aveva il marchio depositato. Insomma l’arte dell’Êcole de Paris, infischiandosene altamente di quello che succedeva a New York, se la passava bene. Un po’ troppo bene. Così non si avvidero dei colpi di mano in serie. Di tutta una serie di colpi di mano che vennero a disturbare quella atmosfera euforica e soddisfatta. Nel 1958 Yves Klein convoca tutta Parigi alla vernice presso la Galerie di Iris Clert a vedere i muri bianchi e nudi della galleria: il “Vuoto” creato dalla presenza e dall’accecante tutto-bianco dello spazio “sensibilizzato” dalla sua pittura monòcroma. Una pittura monocromatica, che diverrà in seguito blu, il “Bleu-Klein”. Yves [artista che conosceva lo Zen e praticava Judo e Yoga] esprimeva là, per la prima volta, il postulato dell’appropriazione energetica: il “vuoto” come spazio tangibile dell’energia cosmica quale veicolo di tutte le emozioni. L’artista che si appropria dell’energia cosmica raggiunge il senso e l’essenza del linguaggio. Niente andrà così lontano, in quella direzione, dopo questo avvenimento……….. Un anno e mezzo più tardi Arman mette la “firma”, sempre presso la Galleria di Iris Clert sull’aspetto più eclatante del suo stile, l’accumulazione: riempire, di oggetti provenienti da ogni parte, l’intero spazio della galleria fino a strabordare fuori dalla porta,[<em>e impedendo al pubblico di poter entrare nella galleria</em>] realizzando così con il “Pieno” il polo contrapposto, dialettico e teorico, al “Vuoto”di Yves Klein.<br />
L’opera di Klein aveva fortemente colpito Tinguely, loro erano amici ed avevano anche collaborato su alcune opere fatte in comune come “Vitesse pure & Stabilitè Monochrome” con cui fecero la mostra. In seguito Tinguely era riuscito a realizzare l’autonomia espressiva della macchina arrivando a costruire nel 1959 le sue “Métamatic”, le macchine che autonomamente e automaticamente dipingono e disegnano composizioni astratte usando dei bracci meccanici variabili. Con un gettone [<em>dal valore odierno di un euro</em>] ognuno si può far dipingere, dalla macchina, il suo Pollock o Hartung o Mathieu. [<em>Oggi una “Métamatic” è esposta in permanenza nel Museo Tinguely di Basilea e i visitatori possono lì, con un gettone, realizzarsi il proprio quadro</em>].<br />
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<strong>Yves Klein</strong>, già prima e in parallelo con la mostra del “vuoto” da Iris Clert, Klein dipingeva quadri ricoperti completamente da un colore Blu intenso, elettrico. Una tela o un pannello che diveniva uno spazio aperto alla meditazione. Più tardi al colore Blu sostituì una lancia termica di fuoco, usata come un pennello con il quale assaliva la superficie del quadro. Ma negli stessi anni organizzava anche performance artistiche in teatri e Musei dove, accompagnate dal ritmo ossessivo di un’orchestra d’archi, alcune ragazze completamente nude, ma preventivamente da lui colorate in Blu o rosso, venivano fatte rotolare o pressate sulla tela dove rimaneva impressa l’impronta del loro corpo.<br />
<strong>Raymond Hains</strong>, poeta dallo sguardo ironico e sarcastico si appropria di intere transenne di tavole di legno o di metallo ancora rugginose e sporche, ricoperte di sgraffi, scritte, brandelli di manifesti o altro: palizzate con cui erano protetti i cantieri di lavoro nelle facciate delle case, e le espone così come trovate. “Pelle” dei muri di una metropoli e sostegni di poesie desunte dalla casualità e sgorgate in modo non naturale nella città. Camminatore insieme con gli amici Villeglé e Dufrêne, sempre alla ricerca di brandelli e strappi di realtà e di colori che tappezzavano le strade percorse.<br />
<strong>Jacques Villeglé</strong>, raccoglie e strappa dai manifesti messaggi di scritture, parole o lettere che poi gratta e recide a formare reliquie scritte e riscritte, palinsesti dell’azione, del tempo e della memoria del vissuto. Non a caso le sue opere, dalla più grande alla minuscola, portano nel titolo la data del giorno e il nome della via da cui proviene.<br />
<strong>François Dufrêne</strong>, anche lui raccoglie brandelli di manifesti (pelle di muri trasudati) nei quali, rovesciandoli e osservandone il retro, ritrova le delicatezze e le tenui colorazioni della pittura astratta. Un romantico poeta, anticipatore della poesia fonetica, elettosi continuatore dei Grands Rethoriqueurs, -poeti del 1200/1500 francese, ancora oggi misconosciuti- ma anche innamorato delle macchie colorate e delle superfici lisce, stinte e slavate del retro dei manifesti strappati con cui nel 1959, invitato alla Prima Biennale dei Giovani Artisti di Parigi, tappezzerà il soffitto e tutte le pareti del suo spazio espositivo.<br />
<strong>Christo</strong>, nel 1962, con una parete alta 2 metri formata di bidoni di benzina messi in traverso, blocca tutta la piccola strada Rue Visconti, di fianco alla galleria J, dove nella mostra personale espone i suoi primi oggetti impacchettati. E da quel momento partiranno i suoi faraonici progetti di impacchettare valli, ponti, monumenti, ecc. che in seguito realizzerà.<br />
<strong>Daniel Spoerri</strong>, ha la prima personale da Schwarz a Milano dove espone insieme ai suoi tipici “Tableaux-Pièges”,“quadri-trappola”, che produceva già dalla fine degli anni ’50 (pannelli quadrati o rettangolari in cui sono “bloccati” e sospesi sulla parete gli oggetti e i resti di una tavola sulla quale è stato consumato un pasto) opere e assemblaggi di oggetti trovati con cui ricopre le pareti della galleria in un’ambientazione dal sapore metafisico che distorce la visione al visitatore e lo costringe a inclinare la testa per poterne osservare la composizione o ricomporne l’immagine iniziale.<br />
<strong>Gérard Dechamps</strong>, ricopre le sue prime tele del ‘58-59, come panoplìe, di indumenti intimi e corsetteria femminile usata, quindi con evidenti tracce di “umori” corporali. Intitola la sua mostra personale del 1962 alla Galerie J di Parigi “La Vie en rose”. Intorno a queste opere non mancheranno polemiche e censure. La più famosa delle quali accadde in occasione della sua mostra personale a Milano nella Galleria Apollinaire, situata nella centrale via Brera. Le Noci aveva messo in vetrina della galleria un’opera abbastanza “osé” per attirare l’attenzione e lo scandalo dei passanti. Ma proprio la domenica seguente all’inaugurazione passò da quella strada la Processione del Corpus Domini e l’Arcivescovo di Milano dell’epoca, divenuto in seguito Papa Montini, alla vista di quella vetrina ne denunciò alle autorità l’oscenità e le autorità fecero chiudere la vetrina confiscando l’opera.<br />
<strong>César</strong>, era già uno scultore affermato quando aderì e decise di unirsi al gruppo dei NovoRealisti, in quegli anni costruiva sculture in bronzo o ferro con “cascami” di fonderia e ferri vecchi realizzando figure emblematiche e animali preistorici. Dopo la sua adesione al gruppo si moltiplicarono gli interventi con le “compressioni” di carcasse di auto realizzate dagli sfasciacarrozze e con numerose azioni di costruzione istantanea di opere dette “espansioni” in cui faceva colare da un contenitore una schiuma di poliesteri colorata che appena tracimava dal contenitore, raffreddandosi, prendeva la sua propria forma, non programmata, ma cercata e “aiutata” dall’autore durante la colata.<br />
<strong>Martial Raysse</strong>, negli anni iniziali della sua adesione al gruppo dei N.R. produceva opere o pannelli e oggetti in cui inseriva immagini di corpi o visi femminili in ambientazioni d’interni sui quali incollava parti di oggetti o di utensili e casalinghi o fiori, sempre in plastica colorata a cui aggiungeva neon o lampadine che si accendevano a intermittenze varie. Una sorta di Pala d’altare in cui era messo in risalto il grigiore e lo squallore della quotidianità.<br />
<strong>Jean Tinguely</strong>, dopo una serie di rilievi cinetici mossi da motorini elettrici che facevano muovere e ruotare le forme in superficie, opere con le quali fece i suoi esordi appena arrivato a Parigi dalla Svizzera, comincerà a costruire, usando rottami rugginosi di motori e camion, resti di carrozzerie e altri ingranaggi, delle sculture ferrose in movimento; una sorta di “macchine inutili” dalla meccanica complessa ma dall’aspetto ludico con cui i visitatori potevano giocare o mettere in movimento.<br />
<strong>Niki de St.Phalle</strong>, le sue opere più eclatanti e scandalose sono le “Tableaux-tirs” (quadri su cui sparare). Pannelli con forme, a volte di Polittico, su cui incollati e ammassati oggetti di ogni tipo, di preferenza vecchie bambole, trattenuti insieme da ingessature fatte di garza o di teli dai quali spuntano fuori gli oggetti più svariati. In mostra, appesi sull’opera, numerosi palloncini riempiti di diversi colori a cui il pubblico visitatore è invitato a sparare con una carabina ad aria per far esplodere il palloncino e colorare così l’opera che a quel punto sarà considerata terminata. In seguito si concentrerà sulla produzione di figure femminili dal corpo enorme e sproporzionato che chiamerà “Nanà”.La più famosa delle quali sarà quella gigantesca realizzata con Tinguely per la mostra “Hon” al Museo di Stoccolma nel 1966: una “Nanà” dalle dimensioni gigantesche sdraiata per terra con le gambe spalancate e nella quale il pubblico poteva infilarsi dentro per poi uscire dalla parte della testa. All’interno del corpo un’esposizione dei disegni e dei progetti per realizzarla.<br />
<strong>Mimmo Rotella</strong>, per ultimo ma non per questo meno importante, l’unico italiano tra i cugini francesi, che Restany stimava molto considerandolo il suo pupillo e proteggendolo dalle insinuazioni e dagli attacchi portati dai due bretoni del gruppo, Hains e Villeglé, che vantavano, a loro favore, la priorità nell’uso del manifesto strappato avendo realizzato, insieme a quattro mani nel lontano 1949, l’opera “Ach Alma Manetro” [<em>ora nella collezione permanente del Centre Pompidou</em>], opera dove, per la prima volta, furono utilizzati manifesti strappati dai muri e attaccati poi sulla tela.<br />
Era naturale che lavorando anch’essi sullo strappo del manifesto dal muro non vedevano di buon occhio questo furbo italiano che strappava anche lui manifesti ma utilizzando quelli dove c’erano le immagini più accattivanti delle star del cinema o dei personaggi dello spettacolo cosa che ne determinava il facile successo sia nel pubblico che nella critica. E in questo senso, all’interno dei NovoRealisti, Mimmo Rotella, con questi suoi strappi sui manifesti del cinema, è quello che si avvicinava di più, insieme con M. Raysse, al gusto Pop. Malgrado però la pretesa priorità della prima opera con manifesti strappati, Hains e Villeglé esposero le loro “affiches lacerées” soltanto nel 1957 presso la Galerie Allendy di Parigi, in una mostra personale a due; mentre Rotella già nel 1955-56 esponeva i suoi manifesti strappati a Roma e nelle sue personali al Naviglio, Milano e al Cavallino,Venezia. [<em>Questa precisazione, dovuta, è solo per chiarire quella sterile controversia sulla priorità che si trascina da anni e che recentemente si è rinnovata nel catalogo della mostra “Gli affichistes tra Milano e Bretagna” tenutasi al Palazzo delle Stelline di Milano</em>]<br />
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……….In tre anni (tra il 1959-1962) i Nuovo Realisti avevano liquidato l’informale e fatto cadere il mito anacronistico dell’ Êcole de Paris, ristabilito i legami vitali con le avanguardie americane, fissato un ruolo importante e non subalterno di Parigi e dell’arte francese nel panorama del contemporaneo. Negli anni che seguirono ci furono molte mostre e manifestazioni che si esaltarono a quello spirito di ricerca. Un Festival del N.R., che farà scalpore, si terrà a Nizza nel luglio 1961 che fu ripetuto a Monaco di Baviera nel febbraio del 1963. Molti dei Novo Realisti vennero invitati ad esporre nella mostra “Art of Assemblage” al MOMA di New York (1961); alla Biennale di S.Marino “Oltre l’informale” (1963) e nel proseguo degli anni sono state dedicate mostre personali nei più prestigiosi Musei ad ognuno di questi artisti. In quegli anni la comunità di intenti e di idee tra gli artisti americani, quali Rauschenberg, Jasper Johns, Stankiewicz, Chamberlain e altri new-dada americani di quegli anni, era evidente e corrisposta. Essi venivano ad esporre a Parigi e tenevano in massima considerazione le opere e le “sperimentazioni”, a volte eclatanti dei N.R. [<em>come l’azione “Hommage à New York” (1960) di Tinguely, durante la quale una sua “Métamatic” si autodistruggeva tra scoppi di petardi e con il fuoco nel piazzale antistante il Museum of Modern Art, alla presenza di un pubblico formato da artisti, critici e direttori di Museo, cosa che influenzò enormemente A.Kaprow</em>].<br />
Restany stesso aveva facilitato questi contatti organizzando mostre, in varie gallerie di Parigi, e creando continue occasioni di incontro e confronto tra gli americani e i parigini. Un’idea che fu ripresa da Sidney Janis, all’epoca il decano dei galleristi di New York, nel 1962 con la mostra “The New Realists” nella quale rendeva omaggio agli artisti del gruppo francese. Esistono molte foto dei pittori J.Johns, Rauschenberg, o del gallerista Castelli, ripresi nelle gallerie parigine dell’epoca dove espongono opere oppure, come quelle più significative del 1961 dove si vede Rauschenberg , Johns e Castelli a Parigi che, durante la mostra di Niki St.Phalle, “Fuoco a volontà”, “sparano” con la carabina messa a disposizione per il pubblico, ai palloncini pieni di colore collocati sulle opere appese alla parete, in modo che l’esplosione del palloncino faccia colare il colore sull’opera e lo “sparatore” avrà così contribuito a completare l’opera.<br />
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Oggi finalmente al Grand Palais di Parigi (patrocinata dal Centre Pompidou) nella primavera-estate del 2007 e da settembre 2007 al gennaio 2008 allo Sprengel Museum di Hannover in Germania si tiene la prima grande retrospettiva del gruppo. La mostra che dovrebbe finalmente consacrare e far riconoscere a livello internazionale, quantomeno europeo, l’importanza di questo gruppo di uomini che, anche se rissosi, polemici e “cocasse”, “strampalati”, è stato pur sempre una “brigata” di artisti geniali e dalla forte carica creativa, che hanno lasciato in eredità alle generazioni future un patrimonio di opere e di comportamento. Un insegnamento che in futuro non sarà facilmente dimenticato né tanto meno rimarrà inosservato.<br />
Questa è in effetti la prima grande e importante mostra riassuntiva del gruppo in un prestigioso spazio museale parigino dopo l’unica tenutasi nel lontano 1986 al Musée de la Ville de Paris e non è stato certo un caso se lo Sprengel Museum di Hannover che ha sede in Kurt-Schwitters Platz e ospita nelle sue sale, oltre ad una nutrita serie di opere degli altri dadaisti, l’importante donazione di opere che Kurt Schwitters ha fatto alla sua città natale e anche la ricostruzione del suo monumentale -mai terminato- Merzbau, riconosce oggi l’importanza delle opere di questo gruppo recependo e collaborando all’organizzazione di questa mostra.<br />
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Una facile e ironica conclusione, ora che sono passati oramai più di 40 anni dagli avvenimenti qui narrati, viene dalla constatazione del fatto che dagli artisti -e proprio da quelli più ostinatamente<br />
anti-creativi e contestatori, che precedettero di poco i Situazionisti e il maggio parigino del ’68- da quegli artisti cioè che sono stati alla continua ricerca di distruggere il gusto e la “forma” dell’opera e del contesto dell’arte, come fecero, appunto, a suo tempo, i dadaisti, ora i NovoRealisti, e in seguito alcuni dell’Arte Povera, ecc.. sia nel contempo sorta, seppur nuova, ancora e sempre, un’opera e quindi un’arte. Cioè da intere generazioni che hanno declamato e sistematicamente attuato, nella realizzazione dei propri lavori, la destrutturazione dell’aura dell’opera d’arte, proclamando, a seconda dei casi, la fine dell’arte e cercando di estremizzare la produzione di opere mettendone perfino in discussione la necessità, l’esistenza e sottoponendole ai limiti della rappresentabilità. Oggi tutte queste opere mantengono invece miracolosamente ancora intatta tutta la loro dirompente forza e la genuina vitalità. Come pure, nell’osservarle, ci trascinano addosso tutta quella carica innovativa e quell’energia che ci proponevano all’epoca della loro nascita. A differenza di tanta arte propostaci in quegli stessi anni da artisti, sia singolarmente che da gruppi, che propugnavano e si dichiaravano creatori e portatori di un’arte nuova e rinnovatrice, sia nelle forme che nei contenuti. Da queste opere oggi, passati alcuni anni, riceviamo solo un’impressione di stanchezza, le sentiamo come standardizzate in un gusto desueto, sfinite e oramai prive di quella forza innovativa di cui tanto si facevano vanto negli anni ‘50/70 gli artisti che ce le proponevano.<br />
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R.Peccolo - settembre 2007raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-44682983350266685742010-01-24T20:47:00.008+01:002012-02-18T16:59:13.183+01:002006 - RifiutINarteNegli ultimi dieci anni sono state fatte molte mostre d’arte moderna, anche museali, concentrate sul tema del rifiuto urbano e del come molti artisti moderni riutilizzino questi “cascami”; ( con una società contemporanea quale la nostra, sempre più incanalata verso il consumismo e quindi costretta quotidianamente a praticare il rigetto degli avanzi, la materia prima per gli artisti abbonda ! ).Le mostre più famose, tra le tante, furono “<em>Trash: quando i rifiuti diventano arte</em>” curata da Lea Vergine per il MART di Rovereto e quella a Palazzo Forti di Verona ”Dadaismo Dadaismi” in cui il curatore Giorgio Cortenova ricostruiva un percorso storico sul tema.L’anno scorso io stesso ho organizzato, con la collaborazione dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Brescia e il sostegno della Comunità Montana di Valle Sabbia, nelle cittadine della provincia bresciana Vobarno, Roè Volciano, Odolo e Gavardo, in quattro immensi spazi tutte ex-fabbriche della zona ( cotonifici e acciaierie restaurate e recuperate all’uso per eventi culturali -e anche questo fatto aveva creato un significativo legame tra le opere esposte e il loro contenitore- ), una rassegna sul tema di un’arte costruita attraverso il ri-uso, il riciclaggio degli oggetti trovati di cui gli artisti si appropriano per poi riutilizzarli nelle proprie opere. Già il titolo della mostra pretendeva di essere indicativo “Rifiuto Riusato ad arte”. Una rapida panoramica in cui avevo riunito opere di artisti più anziani, già operativi negli anni tra il 1950 e 1960, insieme, e quindi anche a confronto, con le opere di altri artisti di una o due generazioni più giovani. E nell’Antico Mulino di Gavardo avevo esposto una sezione di fotografi che durante gli anni ‘60/70 avevano scelto come tema delle loro foto le discariche urbane.Come abbiamo visto un modo di lavorare che nell’Arte Contemporanea viene da lontano e i cui progenitori storici riconosciuti sono stati gli artisti “Dada” ( operanti negli anni del primo dopoguerra, tra il 1912 e 1930 ). Allora si trattava di oggetti accumulati e riassemblati con intenzioni dissacratorie contro la stessa idea, ancora romantica, di ”Arte” e quindi oggetti che volevano costringere lo spettatore ad una reazione. E, come previsto, questa era, appunto, spesso di ripulsa o di negazione. Eppure l’introdurre in una Galleria o Museo una ruota di bicicletta o un attaccapanni o, nel caso ancora più estremo ed eclatante, un orinatoio da cesso ( intitolandolo “R. Mutt”-fontana- ), costringeva il pubblico dell’arte ad interrogarsi sul concetto di “Arte”; sulla stessa funzione e ricezione di un’opera d’arte nella società e sul suo funzionamento in quanto “oggetto” carico di simbologie e di significati. Nella mia rassegna avevo scelto artisti che utilizzavano pur sempre oggetti accumulati e riassemblati però con un metodo di lavoro più vicino al Dadaismo di Schwitters che non a quello di Duchanp. Nel senso che gli oggetti prescelti e riutilizzati non si arrestavano sulla soglia della semplice ricollocazione e dello spiazzamento atto a suscitare interrogazioni sulla funzione dell’opera d’arte, ma entravano nell’ambito dell’opera e gli stessi oggetti erano scelti e utilizzati per il loro colore o perché forme già pronte che sostituivano, o depistavano, altre troppo riconoscibili. Infatti si vede, nelle opere di questi artisti a noi più vicini, una relazione che discende dai lontani progenitori Dadaisti ma poi subito dopo, come padri da poco ripudiati, si sente ancora la stretta relazione con le opere dei Nouveaux Realistes francesi degli anni ’60 (artisti come Arman, Cèsar, Tinguely, Rotella, ecc.). Negli oggetti trovati e ricreati i Novorealisti avevano modificato molte cose in confronto all’uso che ne facevano i Dadaisti, sia riguardo alla realizzazione dell’opera che nell’atteggiamento di fondo. C’è una frase di Arman che mi aveva colpito molto e che chiarisce bene la differenza: “<em>un bullone dà di se un’immagine, cinquecento bulloni messi dentro una scatola trasparente tutti assemblati insieme, un po’ alla rinfusa, me ne danno un’altra; anzi l’insieme esalta forme o figure che non avevo nemmeno previsto, ma che ritrovo nel momento in cui le vedo</em>”.Oggi le nuove generazioni aggiungono qualcosa di nuovo, di più contemporaneo, aprendo un lato inatteso negli accostamenti. La recente generazione, nelle opere o negli assemblaggi che realizza, non usa più soltanto degli oggetti, piantati lì, accomodati o accumulati alla rinfusa, ma ne modifica e varia l’insieme, fa fare alle cose assemblate dei percorsi, spesso ne reinventa lo stesso immaginario. Giocando tranquillamente e ironicamente sull’insieme, con uno sguardo più attuale e disincantato, ormai lontano dal feticismo dissacrante del Dadaista e dalla contemplazione esistenziale, parigina dei Novorealisti. Questo rende il loro lavoro particolarmente coinvolgente e fruibile al pubblico. E’ pur sempre lo sguardo inedito degli artisti sulle cose che ci aiuta a vedere in modo diverso il mondo che ci circonda.Perciò è stato con vero entusiasmo che ho accettato, quando l’amico Davide Scarabelli mi ha invitato a collaborare con lui per l’iniziativa che stava organizzando del 1. Simposio Internazionale d’Arte con Materiali di Riciclo “<em>rifiutINarte</em>”, per il Comune di Prignano sulla Secchia, ed ho invitato gli artisti italiani e stranieri che conoscevo e il cui lavoro trovavo inerente al tema proposto dalla rassegna.Tutte le opere degli artisti invitati erano categoricamente su questo tema: il riutilizzo dei rifiuti urbani, o industriali, nelle loro opere e ognuno di loro ha lavorato riutilizzando molti materiali che provenivano dal circondario. I risultati di questi lavori, le opere da loro create, si sono integrate nell’arredo urbano del paese e del paesaggio e fanno ormai parte del patrimonio della cittadinanza. Sperando che stimolino nell’osservatore il suo senso estetico oppure la sua reazione critica; avranno in ogni modo assolto alla loro funzione principale.A conclusione di questa mia introduzione e divagando un po’ sul tema mi ritorna in mente un paradossale esempio dell’utilità del “ciclo sociale del riciclo in una società” e come questo sia così ben descritto nell’antico detto popolare francese che, grosso modo, recitava: “<em>erano gli avanzi della tavola del Principe che sfamavano i poveri della sua corte e i contadini delle sue terre, ma era la cacca dei poveri e dei contadini che concimava rendendo rigogliosi i frutti per la tavola del Principe</em>”. Solletica enormemente la mia auto-ironia, data la professione che svolgo, l’idea di ritovarmi un giorno nelle sale di una prestigiosa casa d’aste di Londra o Parigi a comprare lo sportello del vecchio armadio di mia zia Arduina, che gettammo dopo la scomparsa, pagandolo fior di milioni di dollari per il solo fatto che uno degli artisti Pop più famoso lo ha riutilizzato in una sua opera.Un esilirante modello di ironia della sorte; ma anche un’esemplare insegnamento che la vita continua a fornirci, proprio nelle piccole cose quotidiane, e su cui varrebbe la pena di soffermarci più spesso a meditare.<br />
E in questo compito gli artisti ci sono di grande aiuto, se non per altro.<br />
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Roberto Peccolo 3 agosto 2006raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-76477718882926761982010-01-24T20:43:00.007+01:002022-02-02T19:05:51.304+01:00INTERVISTA A ROBERTO PECCOLO a cura di Alberto Zanchetta<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;"><br /></div></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial; font-size: 10pt;">Zanchetta - Lo scorso anno hai spento le trentacinque candeline che commemoravano l’attività di galleria e a breve ti appresterai a varcare la soglia delle trecento mostre (sono cifre invidiabili, decisamente lungimiranti). Vediamo di ricapitolare: nel 1969 esordivi con il futurismo, seguirono poi l’astrazione geometrica, l’arte concreta, l’optical, il concettuale, la pittura analitica, l’informale, l’espressionismo astratto, Fluxus, Nouveau réalisme, l’art brut. Il gusto cambia ma non si rinnega?<o:p></o:p></span></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial;">Peccolo - Giusto! Il gusto cambia, si rinnova, attraversa travagliati percorsi o sorridenti successi (ma bisogna sempre stare all'erta con questi ultimi), si modifica e poi rispunta fuori inaspettatamente diverso da come lo prevedevi oppure, meglio, lo riscopri in cose, opere, persone dove non avresti mai previsto di ritrovarlo. Insomma è la meravigliosa avventura del gusto e le ragioni delle sue mutazioni che ci spinge sempre in avanti, "fuori dalla caverna". E l'unica certezza che resta sempre inalterata è riconoscere la qualità, anche quando questa è situata in cose o persone che senti al tuo contrario.Non ho mai visto alternative. Forse quando festeggerò i miei quaranta anni di attività magari ti risponderò diversamente. Spero senza rinnegare niente. </span><o:p></o:p></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial; font-size: 10pt;">Zanchetta - Hai sempre cercato di dare un taglio internazionale alla tua attività intessendo rapporti con l’estero, in particolare con l’Olanda, il Belgio, la Francia e la Germania. A Köln avevi persino aperto una galleria...</span><span style="font-size: 10pt;"><o:p></o:p></span></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial; font-size: 10pt;">Nel 1999 hai presentato la personale di Hans Hofmann; di lui Greenberg scrisse che, nonostante l’indubbio valore, è «forse l’artista più difficile da afferrare e da apprezzare». Credo che in questa affermazione si riassuma la tua inclinazione per un’arte di ricerca ma non facilmente assimilata dalla critica, tanto meno dal mercato.<o:p></o:p></span></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial;">Peccolo - Perchè sono proprio gli artisti "più difficili da afferrare e da apprezzare" che ti impongono una maggiore concentrazione e quindi una riflessione sulle tue potenzialità di comprensione e di assimilazione del loro lavoro.Ti impegnano per poterli aiutare e allo stesso tempo ti aiutano a migliorare le tue conoscenze e i tuoi metodi.Qualcosa di molto simile a quello che ti succede con un proprio figlio difficile o disadattato.E alla fine, quando riesci nei tuoi intenti, la soddisfazione che ne ricevi è enormemente più forte, anche economicamente.Per entrare nello specifico ho fatto al mostra di H. Hofmann perchè venivo da una serie di mostre su artisti newyorkesi degli anni '50/60 "action-painting" (Goldberg, Bluhm, Parker) e mi sono detto che non potevo non far vedere il lavoro di quello che era stato l'insegnante di molti di loro. Tanta della pittura americana degli anni 50 era sgorgata dall'atelier di N.Y. (la stessa moglie di Pollock, Lee Krasner era stata sua allieva) dove questo vecchio bavarese insegnava ma, parlando ai suoi allievi in uno strano "slang" tedesco/americano, non sempre capito, era costretto a spiegarsi mostrandogli il "farsi" della pittura con esempi diretti. Ecco, da qui la sua produzione di numerosi fogli di pittura su carta di piccolo formato (dal costo basso e dalla bellezza compositiva intatta, ancora 40 anni dopo). </span><o:p></o:p></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial; font-size: 10pt;">Zanchetta - Quando ci conoscemmo un forte legante fu l’interesse per la riscoperta di artisti ingiustamente dimenticati oppure considerati, a torto, dei “minori”. Nel tuo caso ti sei industriato nella riscoperta di figure atipiche quali Gabriele Gabrielli e Francesco Di Cocco, organizzato mostre postume di Alfano, Agnetti, Costa, Romagnoni, un compito che dovrebbe essere demandato ai musei visto che comporta più oneri – monetari! come molti mi rimproverano – che onori.<o:p></o:p></span></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial;">Peccolo - Appunto quando i Musei, o meglio chi ne organizza le loro manifestazioni, se la prendono comoda e, come fossero in vacanza, inseguono solo il facile successo delle mostre "alla moda" o che fanno tendenza, o utili solo alla loro carriera, qualcuno dovrà pur sentirsi in dovere di prendere il testimone e lavorare affinchè artisti di tutto rispetto internazionale, lo siano di nuovo. E i quattro nomi che hai detto, fra i tanti altri che si potevano citare, sono in questo senso "eclatanti": tutti e quattro sono stati artisti che hanno significato alcuni dei momenti più forti della vicenda artistica italiana degli anni '60 e '70. Credo che non ci sia qui bisogno di spiegare tra noi le ragioni e il perchè della loro momentanea assenza dagli "onori". Ma, appunto, qualcuno deve pur segnalarlo ai responsabili del settore. </span><o:p></o:p></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial; font-size: 10pt;">Zanchetta - Nel corso degli anni hai stretto amicizie e instaurato moltissimi sodalizi con gli artisti, sia tra gli storici che tra i giovani. Vorrei ne ricordassi almeno tre, quelli con Winfred Gaul, Lucio Pozzi e Albano Morandi.<o:p></o:p></span></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial;">Peccolo - Winfred Gaul è stato il primo artista tedesco con cui ho collaborato ma con lui la collaborazione, con il passare degli anni, è diventata amicizia fraterna.Cercavamo di affrontare insieme soluzioni a problemi comuni, sia in campo economico che in campo artistico.Esempio presentarci a vicenda collezionisti, interessati a comprare; direttori di Musei, interessati ai temi della pittura che a noi piaceva (quella più analitica e autoreferente) ai quali proporre mostre su questo tema.Fu lui che, invitandomi e ospitandomi nel mio primo viaggio in Germania (1971), mi aiutò a sprovincializzarmi ed a capire meglio il ruolo che la mia professione aveva nel complesso della scena artistica internazionale, di quegli anni. Grazie a lui e a quel viaggio, riuscii a togliermi di dosso la polvere della provincia che rischiava di fossilizzarmi. E' stato in quegli anni che apriì la Galleria Peccolo a Koln (che poi è durata solo 3 anni).Durante tutti questi anni ho fatto numerose sue mostre nella mia Galleria a Livorno e ne ho organizzate altrettante in spazi pubblici e gallerie private; ed ho intenzione di continuare in seguito anche se ora lui non può più venire al vernissage. E' mancato 2 anni fa. </span><o:p></o:p></div>
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<div style="margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; margin-right: 0px; margin-top: 0px; margin: 0px;">
<span style="font-family: Arial; font-size: 12pt; mso-ansi-language: IT;">Con Lucio Pozzi ci siamo incontrati nel 1977 e da allora siamo ottimi amici e ci stimiamo enormemente, anche se di lui, in tutti questi anni, ho fatto solo 3 mostre personali.Ho inserito i suoi lavori in molte collettive a tema ed ho già edito sul suo lavoro alcuni bei libri esplicativi del suo modo di lavorare, dei quali siamo entrambi orgogliosi. Invece con Albano Morandi, come con Corrado Bonomi o Raffaella Formenti e altri ancora, che sono di una generazione più giovane, cerco più un rapporto da compagno di strada: lavorare insieme su progetti di mostre, organizzare collettive, articoli o altro sui temi che li coinvolgono. Insomma tutta la normale routine di lavoro che chiunque pensi di voler fare seriamente questa professione deve cercar di produrre per gli artisti con cui collabora. </span></div>
raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-2175401493532199709.post-24784059993334141462010-01-24T20:06:00.011+01:002012-10-31T18:40:19.017+01:002005 - intervista a R. PECCOLOLivorno - Novembre 2005<br />
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<strong>SABRINA RICCI:</strong> Il periodo della fine degli anni ’60 inizio ’70 ha visto fiorire molte correnti artistiche; sono gli anni della rivolta giovanile, della rivoluzione sessuale, dei grandi ideali. Era il maggio ‘69 quando apre la galleria Peccolo e inizia a trattare prima arte moderna e successivamente arte contemporanea. Quale clima socio-culturale si respirava a Livorno in quegli anni?<br />
Quali altri spazi, oltre la sua galleria, trattavano arte contemporanea?<br />
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<a href="http://1.bp.blogspot.com/-pDBesCO11dI/UJFibkH5nHI/AAAAAAAAGMc/J9VSE_nnDU4/s1600/conferenza_.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://1.bp.blogspot.com/-pDBesCO11dI/UJFibkH5nHI/AAAAAAAAGMc/J9VSE_nnDU4/s320/conferenza_.jpg" width="317" /></a><strong>ROBERTO PECCOLO:</strong> Sul clima socio-culturale non ti so rispondere così specificatamente , sul piano più strettamente artistico sì. In quegli anni a Livorno era dominante una pittura tardo-romantica, una sorta di lunga continuazione dello stile macchiaiolo, post-macchiaiolo, realista, ecc. Un’arte che aveva avuto il suo splendore durante la metà dell’800 ma che oramai si trascinava sempre più stancamente. E tutto questo aveva finito per condizionare il gusto del pubblico in generale e anche del collezionismo, sia privato che pubblico. Le uniche novità erano portate, qualche volta, dalla galleria Giraldi che proponeva spesso, oltre ad artisti figurativi, anche pittori astratti e non figurativi, facendo mostre un pò diverse. Inoltre c’era la Galleria Fante di Picche, diventata poi Graphis Arte dei fratelli Guastalla che proponeva, dall’apertura nella metà degli anni ’60, quel filone artistico sviluppatosi nell’ Italia del dopoguerra e che andava dal Neorealismo, alla Nuova Figurazione, alternandolo con mostre di alcuni maestri del ‘900. E occupandosi particolarmente di grafica.<br />
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<strong>SR:</strong> La galleria Guastalla è ancora attiva a Livorno?<br />
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<strong>RP:</strong> Esiste ancora adesso, ma non è più dei due fratelli, è di uno solo, l’altro ha aperto a Milano. Come Giraldi, la vecchia galleria di Bruno Giraldi non esiste più, fu chiusa dopo la sua morte; ma è risorta da qualche anno grazie al figlio che l’ha riaperta seguendo più o meno il filone del padre. Ci sono alcuni personaggi di questa città, artisti, collezionisti, che ricordano bene le mostre fatte, dalla metà degli anni ‘50 al ’65, dalla galleria Giraldi perché furono dirompenti;“formidabili” come diceva lui stesso.<br />
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<strong>SR:</strong>Giraldi ha esposto artisti livornesi moderni come Nigro, Chevrier ed altri V.Fontani, M.Landi ?<br />
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<strong>RP:</strong> Non ha esposto soltanto artisti moderni livornesi, ma artisti del calibro di Rosai, Reggiani, Baj, Crippa, Bertini, Fontana. Mario Nigro aveva fatto da lui una mostra già nel 1952; ma Nigro non ha esposto solamente da Giraldi, ma anche alla Casa della Cultura. La “Casa della Cultura”, appunto, sembra come un destino di questa città, una “maledizione”, recentemente ha cessato ogni attività sia espositiva che propositiva, ma era stato un altro di quei luoghi che aveva vissuto numerosi anni, facendo mostre di qualità come quella di Nigro nel 1954 e ’65 (io vidi questa del ’65), di Vinicio Berti nel 1966, di Cagli nel 1969, e anche quella serie di mostre “Ricerche linguistiche intersoggettive” del 1967 (un’ampia panoramica, durata alcuni mesi, di artisti cinetici, gestaltici e della ricerca visiva). E altre mostre che ora non ricordo. Insomma di cose importanti ne sono passate in questa città ma, come spesso succede, o sono passate inosservate o lasciano traccia solo nei pochi frequentatori affezionati. Il Living Theatre per esempio, molti non ricordano o non lo sanno, ha fatto una performance alla Casa della Cultura nel 1968. In quegli anni il ruolo della Casa della Cultura, parlo degli anni tra il 1955 e il 1975, come luogo di esposizioni e di avvenimenti è stato molto forte e propositivo, anche se saltuario.<br />
Negli anni successivi,dopo il ‘78/80, questo ruolo si è molto affievolito. Le manifestazioni annuali del Premio Modigliani ebbero sede lì, tra il 1956 e il 1967. E nelle due edizioni finali quelle del 1963 e del 1967, fu abbinato al Premio Modigliani, che era diventato biennale, una rassegna sull’arte contemporanea con sede alla Casa della Cultura. Nel 1963 ci fu la mostra “L’informale in Italia fino al ‘57” curata da Calvesi, molto bella e ben documentata, ampia e divulgativa. Per l’edizione del 1967 l’abbinamento fu “Serigrafie della Pop americana”, per la città un’altra esposizione memorabile. Ma allo stesso tempo, appena terminato il grosso avvenimento clou, venivano fatte delle mostre di artisti minori o locali per cui tutto ridiventava più provinciale e un po’ troppo saltuario e precario. Tanto è vero che, finito il Premio Modigliani nel ’68, chiuso per motivi di contestazione, come è stato fatto con i premi della Biennale di Venezia e con quasi tutti gli altri premi sia italiani che esteri. (La contestazione nacque tra gli operatori culturali e gli artisti per una diversa e contraria visione dell’uso che veniva fatto delle attività culturali. Gli effetti di questa diversa visione sono durati fino ai recenti anni ’90 poi, con il cosiddetto post-moderno, tutto è ricominciato). A Livorno dopo il ’70, finito quel periodo di buona attività, Casa della Cultura, ha rallentato le manifestazioni internazionali, fino a diventare il luogo espositivo in cui si privilegiavano solo mediocri artisti locali.Qualche anno dopo a Livorno è nato il Museo Progressivo d’Arte Contemporanea di Villa Maria, grazie alla spinta dell’allora Assessore alla Cultura. Infatti proprio in quegli anni fu creato un Assessorato alla Cultura autonomo, finalmente separato da quello allo Spettacolo e all’Istruzione, e vi fu nominato Vittorio Marchi, una persona che aveva un vissuto familiare di buona e aperta cultura. Era nipote del famoso architetto futurista livornese, Virgilio Marchi. (Virgilio Marchi era un architetto futurista, di famiglia livornese, mi sembra sia vissuto a Genova, molto bravo, ma purtroppo, come è stato per molti architetti futuristi, Sant’Elia, Chiattone e altri, esistono solo rari esempi di architettura costruita. Tutti loro sono riconosciuti e studiati più sulla base dei progetti che non per le opere poi realizzate). E quando sorse il Museo Progressivo fra le altre mostre ne fu organizzata una su: Virgilio Marchi architetto futurista.<br />
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<strong>SR:</strong> Si, infatti, fine 1974, nasce il Museo Progressivo di Arte Contemporanea accolto nei locali di Villa Maria. Entrambi lavoravate sul contemporaneo, ma in definitiva quali sono stati i suoi rapporti con questo Museo?<br />
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<strong>RP:</strong> Durante le inaugurazioni qui da me, qualche conversazione o incontro tra gli artisti che esponevo e l’assessore alla Cultura, o Vera Durbè, anche lei appassionata e frequentatrice delle mostre nella mia galleria, ce ne sono stati. Frasi e argomenti del tipo: “sarebbe necessario che nella città nascessero luoghi polivalenti dove far le mostre o un museo, luogo didattico, dove esporre le opere raccolte”. In quegli anni, conversazioni su argomenti simili, credo ne venissero fatte a bizzeffe nelle gallerie o durante le numerose occasioni di mostre e dappertutto, non soltanto a Livorno. La mancanza di una rete museale, dedicata all’Arte Contemporanea, efficiente e funzionante era un’esigenza sentita in molte parti del nostro paese. Che poi qui a Livorno, in seguito e fortunosamente, sia stato realizzato qualcosa, anche se di breve durata, è tutta un’altra storia. Ricordo di una particolare conversazione su questo tema specifico con M.Ballocco,allora insegnante di cromatologia all’Accademia di Brera a Milano e ricordo che, durante la sua inaugurazione, fece una lunga chiacchierata con la Durbè e con Marchi spiegando bene a loro quali potevano essero le reali possibilità e i passi necessari per riuscire a far sorgere un nuovo museo, offrendosi di parlarne con altri artisti suoi amici per coinvolgerli in questo eventuale progetto. Credo che fu lui a parlargli di Aldo Passoni, allora vicedirettore della Galleria Arte Moderna di Torino e curatore di tutta una serie di mostre importanti che il Museo torinese stava facendo in quegli anni. Infatti fu Passoni a impostare le prime idee e i primi progetti sul costituendo Museo. Purtroppo, ironia della sorte, non riuscì nemmeno a vederne l’inaugurazione: morì alcuni mesi prima in un incidente stradale. Così contattarono lui e con lui gli altri critici di fama internazionale che divennero poi curatori della collezione e delle mostre del Museo Progressivo di Livorno.<br />
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<strong>SR:</strong> Alcune opere di artisti che hanno esposto da lei fanno parte oggi della collezione del museo. E’ stato lei il tramite tra Olivieri, Zappettini e il museo?<br />
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<strong>RP:</strong> No, perché fu costituita una Commissione di critici (Aldo Passoni, Zeno Birolli, Vittorio Fagone e Lara Vinca Masini) che fu incaricata di individuare le linee di ricerca artistica che dovevano delineare la base portante della collezione (a formare il carattere, la specificità, del Museo) dopodichè, tra le altre linee di ricerca ne fu individuata una sul tema della Pittura analitica, e, a quel punto, furono sentiti gli artisti -quelli tra loro che erano disponibili a donare un’opera ad un prezzo simbolico- affinchè il Museo potesse aprire con una collezione di opere di nomi ben conosciuti amalgamati ad opere di artisti, allora, emergenti. Io, durante questa fase, feci solo da tramite per gli artisti che conoscevo e che erano stati invitati a partecipare al progetto. Prima di tutto questo però fu deciso, intelligentemente, di recuperare tutte le opere acquisite dall’Amministrazione durante il periodo del famoso Premio Modigliani. Cosa che non fu di poco conto. Per molti anni, attraverso i premi, non avevano acquisito molti capolavori, sembravano più acquisti fatti per assecondare gli artisti della zona; ma nelle edizioni degli anni tra il ’63, e ’67 erano state acquistate opere molto importanti, basilari, ancora oggi da ritenere dei veri capolavori.Vedi ad esempio lo Spazio totale X di Nigro, Hiroshima n.2 di Tancredi e il magnifico Grande rettile di Pascali. Queste acquisizioni, come tutte le opere che furono poi semidonate dagli artisti prescelti formarono la Collezione Permanente e con queste fu aperto il Museo. All’apertura non fu edito un catalogo, ma oggi le opere sono tutte documentate nel catalogo della mostra “Il grande rettile e gli altri”, mostra che si è svolta nell’estate 1999 a Livorno nei locali del Museo Fattori di Villa Mimbelli, e nelle cui pagine sono state riprodotte la maggior parte delle opere della collezione che costituivano la Collezione dell’ex Museo Progressivo di Villa Maria. Tutte queste opere oggi fanno parte delle Civiche Raccolte della città, ma, attualmente, non sono esposte in permanenza. Sono nei depositi in attesa di una collocazione che abbia un senso.Le recenti amministrazioni non hanno il coraggio di riconoscere l’errore, fatto all’epoca, nel chiudere il Museo Progressivo di Villa Maria riaprendone un altro o quantomeno rifondando un luogo polivalente dove possono essere esposte al pubblico le opere della collezione e dove al contempo si organizzino mostre e manifestazioni sul contemporaneo. Recentemente hanno fatto una mostra riassuntiva di tutti i Premi Modigliani e dei relativi acquisti. Lì si è potuto vedere chiaramente come non sia difficile mutare il gusto nelle acquisizioni durante gli anni. Nelle prime edizioni, anni ’55 in poi,premiarono e acquisirono Cavicchioni, Frunzo,Frasnedi, Sassu, Pizzinato. Dal ’63 in poi c’è stata una vera mutazione nelle acquisizioni, cosa che è sicuramente dovuta al cambiamento della commissione critica addetta alle premiazioni. Sostituita quella troppo provinciale, che faceva le scelte per le acquisizioni guardando ad autori cittadini o dei dintorni, con una commissione più caratterizzata in ambito nazionale, gli autori acquistati cominciavano ad avere un’altra risonanza. Il primo premio, dato dall’Amministrazione Comunale era un premio acquisto, quindi erano opere che rimanevano di proprietà della città. Probabilmente c’era già, consciamente o inconsciamente non so, l’ipotesi di far sorgere, un giorno, qualcosa. In realtà però questo non è mai stato dichiarato apertamente, programmaticamente, hanno sempre acquisito così, tanto per acquisire patrimonio culturale, come impegno dell’Amministrazione della città nei confronti della cultura moderna regionale e nazionale. Non si vedeva ancora una visione prospettica di qualcosa che dovesse nascere. Però, dal 1973/74 in poi, quando sorge l’Assessorato alla Cultura con Vittorio Marchi, primo Assessore alla Cultura della nostra città, questo diventa un impegno propositivo per i 4 anni dell’incarico. E infatti Marchi è arrivato alla fine del suo mandato riuscendo ad aprire il museo e a farlo partire. Però poi alla fine, anche questa esperienza, è durata soltanto una quindicina d’anni. Come dicevo, sembra appunto un destino che incombe su questa città. O forse, più probabilmente, le forze contrarie ad una seria, internazionale, attività museale sono, in questa città, troppo preponderanti. Anche se criticato da molte parti, nei primi dieci anni il Museo ha funzionato, ha fatto un’attività continua; poi cominciò a rallentare anche perché, a sentire quello che dicevano la Durbè o altri, continuavano a mancare i soldi. Ma tutta questa storia è ben spiegata nel catalogo della recente mostra "<em>Il Grande rettile e gli altri"</em>. Una esperienza entusiasmante purtroppo finita male. Anzi, forse, proprio per come è finita potrebbe essere una vicenda esemplare, da studiare, per i molti altri Musei che sorgono sui momentanei entusiasmi di un’Amministrazione, comunale o privinciale o regionale, o di qualche Fondazione privata e che dopo gli iniziali entusiasmi vengono abbandonati come giocattoli inutili e destinati alla chiusura oppure rimangono atrofizzati dai debiti e abbandonati a sopravvivere come possono,senza prospettive.<br />
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<strong>SR:</strong> Qual’ è il filo conduttore, se così si può dire, che ha seguito la galleria Peccolo in tutti questi anni di attività?<br />
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<strong>R.P.:</strong>Il filo conduttore, forse non sono sempre riuscito a renderlo evidente, ma nella mia mente è sempre stato chiarissimo: una riflessione sull’arte contemporanea e sulla ricerca degli artisti, italiani e no, che è andata sviluppandosi dal futurismo ad oggi (fino ad oggi, proprio no, perché oramai siamo nel 2005, ma almeno fino agli anni ’80/’90, si) e tutto questo entusiasmo, come pure la mia visione personale che ho sull’arte, mi resta ancora intatta e spero che mi resterà così chiara fino a quando la Galleria rimarrà aperta.Parlando con Meneguzzo, durante un’intervista da pubblicare per un catalogo, gli spiegavo la mia “visione” del mondo dell’arte,usando come paragone al nostro ambiente quello di una foresta (avrei dovuto dire “di una jungla”) dominata e piena di grandi e maestosi alberi; gli facevo notare come lì esistono e vi si trovano fiori e piante dai colori bellissimi e piccoli arbusti dalle forme più fini, più belle, soprattutto: più “a portata di mano”. Come nel bosco anche nel mondo dell’arte ci sono forme e colori bellissimi, dipende da quello che uno vede o cerca…. Anch’io quando vado per boschi ammiro, come fanno tutti, le grandi querce e gli abeti giganti, che sono magari proprio quelli che danno il nome al bosco, ma poi mi soffermo a gustare le fragole e i mirtilli che, guarda caso, sono le piante più piccole e nascoste del sottobosco. E questo è il live-motive (o filo conduttore) che accompagna, fin dagli inizi, la mia attività e che ogni tanto riesco a rendere evidente e dichiarato. Come quando ho organizzato tre serate di 3 incontri con critici d’arte –uno per ogni serata- che chiamai La riflessione della critica. Chiesi ai tre critici, che all’epoca stimavo: Bonito Oliva, Menna e Celant di parlare delle loro metodologie di lettura dell’opera e degli avvenimenti artistici, cosa che loro fecero rivelandosi quei seri ricercatori che conoscevo.Quando ho seguito la Pittura degli anni ’70 ho sempre dimostrato un più forte interesse verso i pittori più analitici che non per quelli più lirici.Ancora recentemente ho organizzato due giornate di incontri e conferenze sul tema Lettrismo e Situazionismo con conferenze, opere esposte, filmati, ecc., affinché scaturisse dagli incontri, tra il pubblico e i relatori, una chiara visione di cosa è stato il Lettrismo e, in modo particolare,cosa è stato il Situazionismo,di cui -recentemente- tanto si parla e poco si conosce. Fino ad oggi, con le mostre fatte in galleria ho cercato di seguire tappa per tappa quegli avvenimenti artistici che si sono susseguiti nella storia dell’Arte Contemporanea, dando una mia preferenza per quelli che sono stati, a mio parere, i più essenziali -quelli cioè che avevano prodotto delle opere con una più forte mutazione in confronto ai lavori dei loro contemporanei-. In questa ottica se all’epoca avessi potuto (avessi avuto i mezzi economici e le relazioni adatte) avrei cominciato con il “dadaismo”. Infatti, come asseriva, allora Hugo Ball –uno dei fondatori- la parola “dada” riprendeva in forma onematopeica il primo balbettìo di un bambino; per reagire alla grande abbuffata del post-impressionismo imborghesito e delle opere ormai accademizzate delle avanguardie cubiste del primo 900, avevano cercato di creare un nuovo “punto zero” da cui ripartire. Anch’io, allora, cominciando a costruire qualcosa di diverso avrei voluto partire da zero; proprio come avevano fatto loro sessant’anni prima. Ma non potendo, per questioni economiche e di organizzazione, iniziai con quello che avevo più a portata di mano, che era anche più facile riuscire a realizzare. In quegli anni era calata un pò d’ombra sul futurismo; vuoi perché nel dopoguerra erano stati quasi tutti tacciati di simpatie verso il regime fascista -esponevano spesso in mostre vicine all’ideologia fascista-; vuoi perché qualcuno di loro lo era stato veramente -e per questo automaticamente messo in ombra-; vuoi perché nel dopoguerra erano sorte altre tendenze radicalmente opposte al futurismo e che si focalizzavano in tutt’altre direzioni come il Neorealismo, l’Espressionismo Esistenziale,la Nuova Figurazione e (poco dopo) la Pop art. Quello che era futurismo sembrava una cosa ormai lontana, del passato e questo, paradossalmente, facilitava le cose per organizzare le loro mostre. Come aveva facilitato, pochi anni prima, le mostre e l’acquisizione di importanti opere futuriste da parte delle prestigiose collezioni private e Museali americane. Ricordo che andavo a trovare degli artisti, oppure in alcuni casi i loro eredi, che ormai avevano 70/80 anni e che vivevano un pò appartati; erano molto felici di trovare qualcuno che, dopo tanti anni, li esponeva in una città di provincia (perchè a Milano o a Roma qualche galleria che faceva ancora una loro mostra c’era, però non erano sicuramente tornati sugli altari, come si dice, e come, finalmente, lo sono, di nuovo, e giustamente, da qualche anno in qua). Andai a Perugia a trovare Dottori, che era ancora vivo, aveva 90 anni e tutto contento mi caricò la macchina di quadri promettendomi che sarebbe venuto a vedere la sua mostra. Cinque-sei giorni dopo l’inaugurazione, apparve qui in galleria, aveva preso un taxi che lo aveva accompagnato da Perugia a Livorno per vedere la sua mostra. La tappa conseguenziale successiva alle mostre sui futuristi è stata per me la generazione dell’astrattismo geometrico (o concretista, come dicono gli svizzeri) ma comunque una pittura di stampo geometrico ed erede del Costruttivismo russo degli anni ‘10. Automaticamente nel giro di due-tre anni ( perché facendo, come ancora oggi faccio, una media di sei-sette mostre all’anno), avevo realizzato quelle cinque, sei mostre sul gruppo dei futuristi (quelli che ero riuscito facilmente ad esporre, poiché Boccioni era irreperibile e Severini già troppo caro. E gli altri ancora vivi erano già della seconda-terza generazione futurista e mi interessavano meno). Poi con le mostre degli astrattisti geometrici di Milano, Como e dei Concretisti svizzeri, in tutti erano una diecina, ho coperto un anno e mezzo di attività, (in una stagione riuscivo a esporre quasi tutti gli autori di un certo movimento). Dopo circa tre anni, dall’apertura, ho fatto mostre a qualcuno degli artisti della Optical art, e ad autori dell’allora denominata “ricerca visiva”.Queste mostre erano come un passo obbligato, consequenziale alle mostre precedenti. Contemporaneamente però avevo visto, da Sperone a Torino, delle cose che mi avevano affascinato molto ossia le opere di Sol Lewitt, Judd, una mostra di Flavin ed altre opere “Minimal”. Mi apparivano così “essenziali”, Zen, meditative. Fu grazie a Sperone che riuscì ad organizzare da me la mostra degli Incomplete open Cubes di Sol Lewitt e di Kosuth con le opere Art as idea, as idea. Quasi nello stesso anno avevo incontrato e cominciavo a vedere pittori che facevano quadri completamente bianchi, o completamente neri, oppure dai colori tenui, mezzo-tono, ma con pochissime cose che si muovevano sulla superficie, piccole pennellate o piccoli segni, ma proprio quasi invisibili. Infatti organizzai una collettiva alla Casa della Cultura, era una mostra troppo ampia per lo spazio della mia galleria, dal titolo significativo Tempi di Percezione. Era la pittura che nasceva in quegli anni, nella stessa epoca in cui era sorta e veniva esposta la Minimal art e l’arte concettuale e trovai che questi lavori arano più vicini tra loro di quanto non sembrasse; avevano lo stesso contenuto mentale, autoriflessivo, minimale e contemplativo. E così dopo la metà degli anni ‘70 ho fatto tutta una serie di mostre dei giovani pittori (all’epoca quarantenni) come Cecchini, Zappettini, Morales, Griffa. Trovavo la loro pittura molto vicina alle opere “minimal”; una pittura minimalista, meditativa e autoriflessiva. In contemporanea con loro esponevo altri pittori, sempre astratti e riflessivi, ma più lirici, che sentivo meno vicini al minimalismo perché, pur facendo in quegli stessi anni anche questi una loro personale, riflessione sulla pittura (come Olivieri, Verna, Vago,Guarneri) il risultato, nei loro quadri, prendeva però un carattere diverso, più naturalistico e lirico. Oppure come in Gastini che dopo quegli anni ha continuato per la sua personale strada, più vicina all’Arte Povera . Nel catalogo che recentemente ho edito per i 35 anni della galleria ci sono specificate, stagione dopo stagione e mostra dopo mostra, tutte le esposizioni che ho portato a Livorno. Decisi in seguito di dedicare una o due stagioni di mostre agli artisti del gruppo “Forma 1”. Un gruppo che a mio parere aveva dato, agli inizi degli anni ’50, una svolta determinante sia alla cultura che alla pittura italiana del dopoguerra: Dorazio Accardi, Sanfilippo,Perilli, Consagra, ecc…. Ho sempre scelto guardando all’interno della situazione, diciamo così, del non figurativo, però sempre attraverso gruppi o situazioni che hanno insistito, che hanno avuto una loro forza di mutazione nella cultura italiana e che si erano affermati grazie a questo. Non andavo certo a caso ho sempre mantenuto una relazione, quando facevo delle scelte, con una situazione conosciuta, che era esistita, che aveva operato o si era costituita come parte integrante, oppure alternativa, nell’ambito delle proposte artistiche sue contemporanee.Probabilmente questa mia voglia continua di fare è stata una reazione alla situazione stagnante locale che è stata anche la ragione principale per cui decisi di aprire la galleria. Decisi di iniziare la serie di mostre come gallerista perchè in realtà ero già aperto: avevo il negozio di mio padre, antiquario, dove avevo un mio spazio, quello dove ora c’è questo ufficio e dove io esponevo dei quadri moderni facendoli vedere alle persone che venivano a comprare i mobili (suscitando molte perplessità in loro e in mio padre).Solo un anno dopo le prime mostre ho rinnovato i locali e aperto ufficialmente la Galleria Peccolo. Ho sempre creduto che in questa città sono esistite molte cose di non poca importanza ma che sono sempre state ignorate. Ad esempio Peruzzi, un pittore futurista di Livorno era completamente sconosciuto ed isolato qui, addirittura le persone forse non sapevano nemmeno che fosse esistito il futurismo e se lo conoscevano, persavano fosse una cosa lontana, passata. Ecco questa è stata, probabilmente la causa del mio modo di confrontarmi con la realtà che mi circondava, tener sempre presente le vicende artistiche e la storia che era successa e portare a Livorno i personaggi che di questa storia avevano fatto parte e che erano da vedere, da guardare, da studiare. Ho sempre invitato oltre al pubblico anche gli artisti locali a venire a vedere le mostre che facevo qui; solo, sai, gli artisti…vengono, guardano quello che gli interessa oppure non guardano affato perché non gli interessa. Loro sentono la loro arte. Invece secondo me sarebbe una funzione utile della galleria veramente da sfruttare, da approfittarne e da parte di tutti: pubblico, artisti, curiosi, perché le opere stanno lì sul muro, fanno il loro dovere “si mostrano” e vogliono essere guardate, discusse, confrontate. Allora, la galleria, acquista un senso come luogo di eventi, altrimenti il suo ruolo non si differenzia da quello di un negozio dove, ad esempio, si vendono lampadari. Secondo me c’è un valore aggiunto in una galleria che è questo.<br />
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<strong>SR:</strong> Si, infatti la galleria è stata anche sede di incontri e dibattiti<br />
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<strong>RP:</strong> Si, oltre alle manifestazioni a cui accennavo prima, per l’occasione della centesima mostra della galleria, nel giugno 1981, ho organizzato una “Festa-Festival 100° mostra” che è durata più di un mese e durante il quale in ogni serata c’era una mostra, una installazione, o performance, o danza, proiezioni di film, concerti jazz e azioni teatrali.In due diverse serate ci furono le azioni teatrali di due tra i gruppi teatrali di ricerca più conosciuti del momento: Il Marchingegno (di Giancarlo Cauteruccio) e La Gaia Scienza (di Giorgio Barberio Corsetti e Marco Solari) oggi scioltosi. Poi per l’intera stagione che seguii ho alternato mostre di pittura a performance, azioni e conferenze. Mi piaceva molto l’idea di galleria come spazio aperto ad ogni forma di avvenimento. Durante questo tipo di serate a volte getti dei semi, come diceva la famosa parabola, che, a seconda dei casi, a volte finiscono da una parte, seccano e non fanno nascere niente, in altri punti invece, inaspettatamente, vedi germogliare il grano.<br />
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<strong>SR:</strong> I quattro artisti che sono andata a trovare nei loro studi, Cecchini, Morales, Olivieri e Zappettini, hanno in comune, oltre al fatto di aver esposto nella galleria negli anni ’70, l’appartenenza ad un certo tipo di pittura, la pittura-pittura, o pittura riflessiva o, per alcuni di loro, al versante più estremo della pittura analitica. La galleria è stato sicuramente un punto di riferimento importante per la nascita sia della pittura riflessiva che della più radicale analitica. In particolare che cosa la affascinava di questi artisti, del loro modo di dipingere?<br />
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<strong>RP:</strong> Si, ho fatto una serie di mostre che riguardavano più in generale la pittura-pittura in cui esponevano anche questi quattro artisti. Successivamente ho seguito più da vicino, perché mi affascinava di più il loro lavoro, quelli che secondo me erano più analitici o radicali. Qualche anno dopo, agli inizi degli anni ‘80, nascevano a New York delle manifestazioni e degli incontri e conversazioni tra pittori,tenuti nello studio di Marcia Hafif che terminarono con una mostra che si intitolava Radical Painting .A quegli incontri hanno preso parte alcuni degli artisti che io avevo esposto, come Gunter Umberg, Marcia Hafif, Raimund Girke, Carmengloria Morales ed altri.Ho sempre fatto mostre che riguardavano più la pittura che non la scultura e all’interno della pittura ho sempre scelto una pittura non figurativa. Mi interessava il fatto che il pittore avesse in testa, mentre dipingeva, il senso con cui costruiva il suo quadro, che si concentrasse sul “farsi” della pittura nel momento stesso in cui la faceva. Non quando erano fisime da pittore intellettuale, ma quando da pittore si poneva quei problemi, autoreferenti, basilari del suo stesso modo di lavorare. Una specie di analisi, anche introspettiva se vuoi, come direbbe uno psicanalista, sul suo modo di comportarsi, della sua condizione, del suo atteggiamento sul lavoro, nei confronti degli strumenti che usa e della tela che ha di fronte. E non è un’analisi così sui generis, quale può essere fatta da tutti, anche dal pittore che dipinge un paesaggio, il quale arriva alla fin fine a fare un’analisi di questo tipo, ma nel pittore analitico di quegli anni quella analisi provocava qualcosa in più, per esempio una tela monocroma, scarna o poco dipinta, oppure come nei “Support Surfaces” francesi, che a mio parere negli stessi annio facevano un’operazione parallela e ancora più radicale –indagavano sulla trama e l’ordito della tela o del telaio, ecc.- e soprattutto modificavano il modo di installare le tele sulla parete e le possibuilità di relazione e di interpretazione dei dipinti fatti. Qualcuno era arrivato a non dipingere con il pennello ma ad immergere la tela stessa nel colore. Tanto è vero che ho sempre portato come esempio,per la comprensione di questi metodi operativi, il famoso film di Federico Fellini 8 e 1/2. In questo film si vede non solo il capolavoro filmico che è, ma anche un aspetto, che io chiamo, analitico, come per la pittura, perché Fellini in realtà costruisce un film in cui fa tutta una spiegazione di come lui vorrebbe o potrebbe fare un film. Lui non fa il film con una storia, ma si racconta e ci racconta e ci fa vedere il suo progetto: una sua fantasia che gli scatta pensando ad una storia per fare il film. Da lì gli viene in mente che potrebbe fare una scena così, poi un’altra scena…e tu intanto vedi le scene che gli vengono in mente. Dopo vedi che parla con il tizio e si accorge che la scena era troppo difficile da realizzare allora parlando con lui viene fuori che la scena si potrebbe fare in un altro modo. E lì nel frattempo le scene continuano e si sviluppano in quel modo. E’ un film che parla di come un regista avrebbe voglia di fare un film, delle sue fantasie e di come forse riuscirà a farlo quando lo farà; ma il film, nella fiction viene dopo, se mai verrà. In realtà il film è già stato fatto. Quando appare la parola FINE il film è già stato fatto. Ho sempre pensato che in questo capolavoro di Fellini ci fosse la spiegazione “visibile” –la cartina di tornasole- di tutto questo modo di lavorare autoriflessivo (auto-analitico).Anche se il mezzo usato era diverso, a mio modo di vedere, in alcuni tra i pittori analitici c’era un simile atteggiamento di fondo, molto vicino a quello espresso nel film da Fellini. E recentemente, per uno strano caso del destino, ho esposto le opere di M. Lemaitre, un Lettrista francese, che oltre ad opere dipinte, grafiche e libri ha realizzato alcuni film sperimentali, divenuti poi famosi, uno dei quali, del 1951 –guardacaso- si intitola Il Film è gia cominciato ?. Questo lo dico perché alcuni di loro, i pittori intendo, riuscivano ad esprimersi con parole, o testi, che mi chiarivano molto, ma molto lucidamente questa loro concezione sulla pittura, mentre qualcun altro invece riusciva a spiegarsi meno con le parole ma più lucidamente attraverso il dipinto.<br />
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<strong>SR:</strong> Una galleria di stampo internazionale che si è proiettata oltre la città di Livorno. Agli inizi degli anni ‘70 ha avuto rapporti con musei della Germania aprendo una sede anche là. Che cosa mi racconta di questa sua esperienza?<br />
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<strong>RP:</strong> In questa scelta che io feci sui pittori di un certo tipo, della pittura analitica o più radicali che erano poi alla fin fine quei quattro o cinque che ho seguito più da vicino, ci fu un momento in cui trovammo facili consensi in Germania. Perché in Germania c’erano musei con direttori aperti verso la pittura e che esponevano spesso arte Minimalista; perché c’erano anche molti pittori analitici che erano vicini alle cose che facevano gli italiani; perché in Germania c’erano una serie di musei ben organizzati che avevano soldi e disponibilità per organizzare mostre tematiche ampie e ben organizzate.A quel punto decidemmo, anche gli artisti dettero una mano dal punto di vista organizzativo, di aprire uno spazio dove poter mostrare le loro opere, per poterle mostratre dal vivo e non andare in giro con foto o cataloghi. Erano gli anni in cui andare in Germania era qualcosa di un po’ avventuroso. Si sapeva che gli italiani andavano in Germania come operai a lavorare alla Volkswagen, era una cosa da immigrati. Però in realtà là il mondo della cultura e specialmente dell’arte contemporanea era molto disponibile, curioso, aperto. E c’erano già le tracce di rapporti tra le gallerie, Sperone di Torino con K. Fischer di Dusseldorf e Paul Maenz di Colonia che esponevano e si passavano le mostre di arte concettuale, minimale e già anche qualcuno dell’arte povera. Infatti Germano Celant viaggiava continuamente tra l’Italia e la Germania per propagandare le opere degli artisti che seguiva e organizzargli le mostre, ma all’epoca non erano ancora molti quelli dell’arte povera ma erano di più gli americani dell’arte concettuale e minimale. La Germania in quegli anni attraversava un momento di grande boom non solo economico, ma anche culturale. Si erano riaperti e rifunzionavano i musei, finalmente era finito l’isolamento della Germania che fino agli inizi degli anni ’60 era stata bloccata dall’eredità derivata dal nazismo e dalle distruzioni della guerra; si stava finalmente liberando era diventata una Repubblica Federale. E il federalismo lì ha funzionato, cioè, le regioni –i Landers- hanno funzionato poiché hanno iniziato a supportare i loro musei affinchè ospitassero le novità che venivano dagli altri paesi dell’Europa e dall’America.Ma non solo per le arti visive, ha funzionato anche nella musica, nei conservatori,nei teatri. Mi ricordo come all’epoca Dario Fo fosse più famoso in Germania che non in Italia, era incredibile. Ho visto passare intere tournee dal teatro di Dario Fo al teatro dell’avanguardia italiana.In quegli anni erano il famoso “Carrozzone”, o la “Gaia Scienza” che hanno fatto numerose tournee in Germania mentre qui in Italia erano costretti in iniziative saltuarie di Festival o relegati nelle fumose cantine romane. Io stesso ho dato una mano, fino a che ho potuto non essendo quello il mio settore, al gruppo della “Gaia Scienza” nell’aprigli la strada verso i teatri di ricerca tedeschi organizzandogli una tournee in tre musei che in quegli anni ospitavano performance e azioni teatrali: Folkwang Museum di Essen, il KunstMuseum di Dusseldorf e al Museo di Wuppertal. Infatti alcuni anni dopo il gruppo fece una tournee nei due templi dell’avanguardia teatrale tedesca il Teatro della Torre di Francoforte e nello spazio di Pina Baush di Wuppertal. In Germania era così, quando andavi dal direttore di un museo e gli proponevi una mostra, se gli piaceva il progetto, la prima cosa che ti domandava, contrariamente a quello che succedeva qua dove ti dovevi raccomandare o dovevi avere già una raccomandazione affinché venisse accettato il tuo progetto di mostra, ti diceva: “quanto le dobbiamo come onorario per questo suo progetto molto bello?”. Era così, perché professionalmente doveva essere così. Che poi, oggi, anche là sia tutto cambiato, questo è un altro discorso.<br />
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<strong>SR:</strong> Quanto è rimasta aperta la galleria là?<br />
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<strong>RP:</strong> Due anni e mezzo, ma in quel breve tempo ho organizzato mostre dei miei artisti,oltre che nel mio spazio, anche in prestigiosi Musei ed ho organizzato alcune collettive sul tema della Pittura Analitica che hanno lasciato il segno. Poi ho portato alcuni pittori con cui lavoravo,Gaul, Morales, Olivieri, Zappettini, ad avere una sala a Documenta6 di Kassel del 1977. Zappettini nella sua intervista ha specificato che purtoppo l’anno di ritardo provocò tutta una mutazione, ed è stato vero.<br />
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<strong>SR:</strong> Si, ha raccontato che ridussero gli spazi che precedentemente gli avevano assegnato.<br />
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<strong>RP:</strong> Si, avrebbero dovuto avere ognuno una sala. Fino al 1976, specie in Germania, c’era molta attenzione rivolta a questo tipo di pittura così riflessiva, autoriflessiva, quasi concettuale e invece nel giro di un anno sbucò fuori un nuovo stile di dipingere molto più figurativo e selvaggio la cosiddetta Pittura Spontanea, neoespressionista che fu poi etichettata dei “Nuovi Selvaggi”(Neuen Wilden). Ebbe facile presa perché molto simile e considerata erede dell’Espressionismo tedesco d’inizio secolo. Da lì presero poi il via tutta una serie di artisti che facevano una pittura molto espressiva, dai colori forti, molto più volgarizzata ma molto più emotiva. Questo finì per mettere al centro dell’attenzione più quella forma di pittura che non l’altra. L’altra era troppo silenziosa, più mentale, meno chiassosa.<br />
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<strong>SR:</strong> …si, ne parla anche Olivieri della Documenta6 di Kassel come la fine di un periodo…<br />
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<strong>RP:</strong> …si perché lui la vede sotto questa angolazione, forse Zappettini è più lucido…lui si aspettava veramente qualcosa da questa esposizione, come tutti noi, è come un gruppo teatrale o musicale, se vai a cantare all’Olimpià di Parigi ti aspetti poi che da quel concerto arriverai nei grandi teatri del mondo, e invece finisci per capire che è stata in realtà l’ultima chance che hai avuto, puoi solo tornare indietro. Io all’epoca, non subito, ma in seguito ebbi proprio questa sensazione.<br />
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<strong>SR:</strong> Pensa che ci sia un legame tra la pittura-pittura, compresa l’astrazione analitica e le correnti del passato o piuttosto che sia stato un momento di rottura<br />
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<strong>RP:</strong> Ma, nei confronti della pittura analitica o almeno in quelli che la facevano radicalmente, io non l’ho mai vista come una continuità con la pittura del passato, ma nemmeno come momento di reale rottura, strappo dalla pittura del passato. In quegli anni, ogni volta che veniva fatto un catalogo nei testi c’erano sempre riferimenti al costruttivismo russo di Malevic o al suprematismo,oppure, non so, con la pittura di fine anni ’50, di Stella quando faceva i quadri minimali oppure con Ad Reinhardt quando faceva i quadri neri, oppure ancora con altri. Quasi tutti i critici d’arte o i direttore di musei o storici dell’arte che scrivevano facevano sempre , riferendosi a questa pittura, un riferimento alla storia, riferimento a quel tipo di storia, come se fosse nel loro DNA, lo era, ma era talmente lontano e diverso che secondo me lo era fino ad un certo punto. E’ come dire che siamo tutti figli di Adamo ed Eva, è vero, ma i progenitori sono lontani nel tempo.…<br />
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<strong>SR:</strong> Magari facevano un collegamento formale.<br />
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<strong>RP:</strong> Si, è vero molti facevano un collegamento formale, probabilmente gli era più facile. Enche se vi si poteva leggere un certo collegamento formale dell’immagine realizzata sul quadro. Il collegamento formale giusto è quello con il minimal o, più che con Sol Lewitt che poi minimal lo è stato fino ad un certo punto, con le strutture di Donald Judd o certe istallazioni con il neon di Flavin. In fondo una serie di quadrati o rettangoli messi in un certo modo, accostati, facevano lo stesso pensare alla cultura del tempo. E’ come ho detto prima riferendomi al film di Fellini, quando un artista comincia a dire “questo è il mio modo di pormi di fronte alla tela” e comincia a costruire attraverso una serie di ipotesi un quadro, a quel punto lì il quadro è finito, quando cioè una serie di ipotesi è poggiata sulla tela. Non so se è chiara l’immagine che voglio dare. Una operazione di tipo concettuale fatta con il pennello. E infatti il più puro, il più intelligente e anche il più famoso, per sua fortuna è stato Robert Ryman, pittore americano che ha anche scritto sul tema delle cose stupende, proprio su quel suo “fare la pittura”. E continua ancora oggi a fare quadri bianchi. Tutti gli analitici europei lo guardavano in quegli anni, chi prò chi contro, comunque restava un punto di riferimento per tutti loro. In quegli anni mi sarebbe piaciuto fare una sua mostra, se avessi potuto. Riuscii a fare soltanto una mostra di grafiche di tre americani, in cui c’era R. Ryman con Brice Marden, che faceva quadri bianchi e neri, anche lui molto minimali e con Robert Mangold che faceva quadri dove c’era una sola linea centrale.<br />
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<strong>SR:</strong> Quale è stato il rapporto con gli artisti con i quali ha lavorato più a stretto contatto negli anni ’70? Mi sembra di capire che c’era tra voi un rapporto di amicizia più che di lavoro?<br />
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<strong>RP:</strong> Si, ci vedevamo spesso e spesso gli organizzavo mostre anche in altre gallerie, così ci vedevamo anche in altre gallerie e per altre occasioni. Qualche volta andavo nel loro studio a discutere con loro, su cosa stavano lavorando o su che cosa stavano progettando oppure su che cosa potevamo fare insieme, come mostre.Il lato pittura apparteneva a loro, il lato organizzativo, qualche volta, apparteneva a me. Poi non era proprio sempre così, però era questa un pò la divisione dei compiti tra noi.<br />
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<strong>SR:</strong> Il fatto che gli artisti della pittura con tendenze riflessive o analitiche,con cui appunto lei lavorava a stretto contatto in quegli anni, non si siano formati come gruppo, è stato per loro un punto debole secondo lei?<br />
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<strong>RP:</strong> La domanda ne implica altre: se pensi di costruire qualcosa per fare un gruppo che si affermi sul mercato o sulla scena dell’arte finisci comunque per perdere di vista che cosa devi fare. Penso poi che ogni artista se crede molto nella sua pittura finisce per credere meno in quella dell’altro anche se gli è compagno di strada. Adesso ti spiego, nemmeno con i tre o quattro pittori con cui ho lavorato più a stretto contatto e che quindi in ogni cosa che organizzavo io loro c’erano, mostre o qualsiasi altra cosa, si è potuto creare una specie di gruppo omogeneo, come tu pensavi potesse succedere, un po’ perché ognuno crede nel proprio territorio e non vorrà cedere automaticamente il passo a nessun altro, un po’ perché probabilmente i più puri pensano al soggetto principale al proprio interesse che è la pittura e non a creare un gruppo. Dovevo essere io forse che potevo, forzando la mano, chiedergli di far nascere un gruppo ufficialmente, lanciandolo. In realtà venne fatta una volta una riunione, ma finì che ognuno rimase delle proprie idee, cioè poi alla fine non facemmo nulla…<br />
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<strong>SR:</strong> Sì, però alcune esperienze degli anni ’60 hanno portato gli artisti a costituire dei gruppi, vedi ad esempio le esperienze dell’arte cinetica dove c’era proprio questa propensione per il lavoro e la ricerca collettivi, ricordiamo il gruppo T di Milano o il gruppo N di Padova o comunque anche gruppi non italiani…<br />
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<strong>RP:</strong> Certo, ma per questi gruppi era più facile, se così posso dirlo, perché lavoravano sulle forme (sulla GestaltTheorie) per cui potevano esserci, e secondo me ci sono stati, una divisione per settori nei campi della ricerca. Faccio un esempio:all’interno della ricerca del gruppo ci programmiamo che tu nella tua serie di lavori ricerchi lo spazio ottico usando forme piane e geometrie prospettiche, io svolgo la mia ricerca con forme che sviluppo nello spazio tridimensionale o fisico. Ecco credo che grosso modo così dovrebbe esser andata. Infatti riguardo alla pittura analitica la mancanza di un gruppo omogeneo ha forse creato più difficoltà ad affermarsi sia come idea generale del gruppo che come idea particolare riguardante la pittura fatta da ognuno di loro. Ma soprattutto, forse è mancato il critico propugnatore e un po’ menager. Se io penso al futurismo non mi vengono in mente altri nomi che quelli dei quattro/cinque firmatari del manifesto e in seguito tra quei quattro o cinque vedo le differenti personalità e le variazioni del lavoro. Solo che nel futurismo c’è stato Martinetti che ha assolto la funzione di propugnatore. Lui era l’intellettuale, l’uomo coinvolto con loro, con le loro stesse idee, però non dipingeva, forse se avesse fatto anche lui il pittore, finiva anche lì così. Sì, dovrei farmi un’autocritica, forse lì sono mancato io, o forse è mancato qualcun altro. Per un pò lo è stato Klaus Honnef il critico tedesco che ha organizzato le prime mostre di questo gruppo, però anche lui non ha mai circoscritto il gruppo a quei quattro o cinque e basta, ha sempre fatto mostre in cui rientravano dieci da una parte, venti dall’altra, mostre in cui c’erano cinque artisti di una galleria e cinque dell’altra. Probabilmente è anche vero che tutta la situazione non era poi così restringibile in un piccolo gruppo, forse questa è la semplice verità, perché in realtà fu una situazione piena di nuance, difficile da raggruppare. E’ un po’ come fare la quadratura del cerchio, più di tanto non puoi arrivare, questa è la mia idea.<br />
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<strong>SR:</strong> Abbiamo parlato fino ad adesso del suo rapporto con gli artisti, ma qual è stato il suo rapporto con i critici che frequentavano e presentavano le mostre nella sua galleria?<br />
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<strong>RP:</strong> Sui critici di Livorno e dintorni, più che altro giornalisti delle cronache locali, meglio non parlarne. Di questa città l’unico, allora giovane laureato, che mi impressionò per la sua conoscenza di filosofia e di estetica fu, verso la metà degli anni ’70, Massimo Carboni. Infatti lo aiutai subito facendogli tenere qui nella mia galleria le sue prime conferenze sull’arte contemporanea. Avevamo anche una visione vicina su molti argomenti del contemporaneo; tant’è che organizzammo insieme un paio di mostre una delle quali sull’arte “come citazione”dal titolo Arte e Storia dell’Arte. Ma per il resto niente di valido. Invece con i critici di Roma o Milano, più di livello nazionale, c’è stato, in alcuni casi un percorso in comune accordo, infatti per un pò di anni ho avuto lo stesso critico che scriveva per ogni catalogo delle mie mostre. Poi mi accorsi che i rapporti diventavano strani, lui cercava di proporre a me artisti che non mi piacevano o viceversa io chiedevo a lui di scrivere su artisti che a lui non piacevano e magari lo faceva ugualmente. Quindi nascevano scritti in catalogo da parte del critico vuoti oppure mostre che condividevo fino ad un certo punto. Per cui, alla fine, ho preferito mettermi sempre in accordo con l’artista sul critico che scrivesse in catalogo, di volta in volta cercando il più adatto alla situazione. Comunque con loro ho sempre mantenuto un rapporto professionale. Spesso con alcuni critici ho condiviso alcune linee generali di fondo. Con Filiberto Menna, ad esempio, ho condiviso, specialmente durante gli anni ’70, certe scelte, la sua visione estetica. Fui molto felice quando Einaudi pubblicò il libretto della sua “La linea analitica dell’arte moderna”. Ricordo che ne comprai numerose copie che diffusi tra gli amici e gli interessati frequentatori della galleria.SR: E con i collezionisti?RP: Con i collezionisti ho sempre preferito avere un ruolo propositivo. Io sono un propositore. Quando il lavoro di un artista mi piace lo invito a venire da me ad esporre, lavoro su lui, per lui e con lui per qualche mese prima dell’inaugurazione, due o tre mesi prima, nel momento della mostra e anche, qualche volta, per alcuni mesi dopo. Dopo di che per me la cosa è finita. Per dirla molto semplicemente mi piacciono di più le brevi, appassionanti storie d’amore, i flirt, che non i lunghi matrimoni che a volte possono diventare pesanti, insopportabili. Lo dico sempre ai frequentatori della mia galleria, il gusto, come l’arte, cambia, si rinnova, attraversa travagliati percorsi, difficoltà e insuccessi o sorridenti successi (io però stò sempre all’erta con quest’ultimi) e dopo questi percorsi si modifica e rispunta fuori inaspettatamente diverso da come avevi previsto di ritrovarlo. Insomma è la meravigliosa avventura dell’arte e delle ragioni delle sue mutazioni che, inseguendola, affinano il nostro gusto e ci spingono sempre in avanti, “fuori dalla caverna”. A volte mi incolpano di fare mostre difficili da capire, “da afferrare ed apprezzare”; di proporre artisti misconosciuti, poco assimilati dalla critica e tanto meno dal mercato. Ma sono proprio gli artisti “più difficili da afferrare e apprezzare” che ci impongono una maggiore attenzione, una concentrazione e quindi una riflessione sulle potenzialità che abbiamo di comprensione e di assimilazione del loro lavoro. Ti impegnano per aiutarli al meglio e allo stesso momento ti aiutano a migliorare le tue conoscenze e i tuoi metodi. E alla fine, quando riesci nei tuoi intenti, la soddisfazione che ne ricevi è enormemente più forte, anche economicamente. Per fare un esempio pratico: recentemente mi è capitata una buona occasione ed ho deciso di fare una mostra di H. Hofmann. Perché venivo da una serie di mostre su artisti newyorkesi degli anni ‘50/60, pittori della Scuola di New York, cosiddetta “action-painting”, quali Goldberg, Bluhm, Parker, K.Smith, e mi sono detto che non potevo non far vedere il lavoro di quello che era stato l’insegnante di molti di loro. Lui, tedesco di nascita e di formazione artistica, è stato una delle “matrici” originarie di tanta pittora americana degli anni ‘50. (Come l’altra matrice, che ha originato la linea più razionale di molta pittura e “Minimal” americana, è stato il tedesco, ex-Bauhaus, Joseph Albers ai cui corsi di pittura al Black Mountain College del Nord Carolina si sono formati i vari Frank Stella, K. Noland, Don Judd, Carl Andre e altri ancora. La maggior parte delle persone, anche del nostro ambiente, non sa che tanta della pittura americana del dopoguerra è scaturita da questi due ottimi artisti e altrettanto bravi insegnanti europei. Come Masson e Picasso furono la matrice originaria di molta pittura degli Espressionisti Astratti americani di prima della guerra). H. Hofmann per vivere aveva creato un suo atelier dove insegnava pittura a New York –la stessa moglie di Pollock, Lee Krasner, era stata sua allieva-. Questo vecchio bavarese, trapiantato a New York, durante l’insegnamento parlava ai suoi allievi con uno strano “slang”, un misto di tedesco/americano, quasi incomprensibile agli allievi, ed era costretto a spiegarsi mostrando ai suoi giovani allievi il “farsi” della pittura con esempi diretti. Da qui la sua produzione di numerosi fogli di pittura su carta di piccolo formato -dal costo basso e dalla bellezza compositiva intatta, ancora 50 anni dopo-. Ecco, in breve e parzialmente, spiegato come una galleria che faccia un tipo di lavoro, come questo, così come piace a me e lo intendo io,in una città come questa di Livorno mi abbia forzatamente costretto a spostarmi e frequentemente. Abbiamo parlato infatti delle cose fatte in Germania, dei miei continui viaggi là, ai quali devo aggiungere le numerose settimane trascorse a Roma, o a Milano o del continuo andare e tornare. Un viaggiare che è poco legato al piacere di girare e molto più al dover andare a vedere la mostra di un artista, a conoscere il tale, nello studio dell’altro, ecc. Ma parlavamo dei collezionisti e del modo in cui vedo il mio lavoro; cioè del fatto come io sia propositivo: scelgo un artista e le sue opere, gli preparo la mostra (cioè ne faccio una presentazione -a questo proposito mi piace molto il paragone con il teatro dove ogni sera va in scena una commedia, una volta comica, una volta tragica, una sera l’ Opera, un’altra sera un concerto- questo è il mio modo di vedere la galleria; un luogo dove si può andare a vedere le opere del tale artista o del tal’altro artista). Invece una galleria che lavora con artisti che ha a contratto, magari stipulato da un notaio, si ritrova costretta a lavorare con gli stessi artisti per numerosi anni o forse più. Che tipo di risultati ottiene? Che questi siano pure dei grandi artisti e che varranno un giorno moltissimo, questo a me interessa molto poco o fino ad un certo punto.E’ lo stesso paragone che facevo prima sul matrimonio: in quella condizione di contratto pluriennale devi prendere il bello e il brutto –esempio, se un artista sta facendo delle brutte opere, tu sei costretto a continuare a venderle e a proporle, malgrado tutto-. Se l’artista risulta essere una fregatura, dal punto di vista del risultato artistico o anche economico, il gallerista dovrà continuare a dire che è un Grande Artista; e dovrà dirlo a voce sempre più forte, per nascondere il mormorio contrario. Nella mia idea di galleria tutto questo non è previsto, quasi non esiste, perché io ti presento un artista, ma prima di proportelo ho guardato il suo lavoro, ho già fatto una scelta, mi è piaciuto, mi ha interessato e quindi lo espongo portandolo a Livorno e dicendo ai visitatori della mostra e agli altri: guardatelo e se vi piace compratevelo! Spesso purtroppo questo modo di lavorare non viene capito, anzi viene visto come qualcosa di opposto a quello che è. Molti credono infatti che un gallerista lavori seriamente con degli artisti solo se ha un contratto con loro, se ci investe sopra dei soldi. Naturalmente devo riconoscere che poi ci sono sempre le due facce per ogni medaglia, i risvolti anche negativi per ogni posizione presa. Il mio punto di vista comunque rimane integro e non lo considero assolutamente un disimpegno né economico, perché mi impegno con tutte le spese per trasporti, cataloghi e diffusione della mostra; nè tantomeno culturale, infatti cerco sempre il riferimento alla storia che lega il lavoro di quell’artista, in quel preciso momento, con ciò che è stato fatto, da lui o da altri, in precedenza o quello che in prospettiva sta preparandosi a sviluppare nel futuro. Spessissimo continuo a dire alle persone che entrano in galleria e guardano le opere ho in mostra: è un artista di una certa età,… che ha avuto una sua storia artistica e personale… oppure che negli anni tali faceva questo,….ora sta lavorando su queste opere,…mi sforzo di dare sempre i riferimenti necessari alla lettura e alla comprensione storica e stilistica del lavoro di ogni artista che presento ai visitatori. Per me un’opera d’arte assolve completamente alla sua funzione quando, dopo averla vista –anche senza averla comprata- ti costringe a cercare un libro o un disco per ampliare la tua comprensione nei suoi confronti; e non quando raddoppia o decuplica il suo prezzo durante un’asta internazionale. A proposito dei certi “valori” economici e delle sicure “valutazioni” forniti attualmente dai listini delle vendite internazionali, troppi sarebbero gli esempi esplicativi della relatività e della fallacità di tale tipo di certezze. Basterebbe ricordarsi delle recentissime vicende delle azioni della Parmalat o dei Bond Argentini.<br />
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<strong>SR:</strong> Che cosa pensa delle giovani generazioni di artisti? Della situazione attuale del mondo dell’arte?<br />
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<strong>RP:</strong> In questi ultimi 10 anni si è creata una situazione che non condivido molto, per una questione di fondo. Che le nuove generazioni vadano in accademia per apprendere, imparare e magari diventare “artisti”, questo lo trovo normale, ma quello che trovo anormale è che, appena laureati, si sentano consacrati “artisti” e si considerano già come tali. Molti di loro si considerano dei bravi strateghi (come papà Warhol ha loro insegnato) e mischiando insieme una certa idea sull’arte o sulle opere del tale artista –naturalmente scegliendo sempre quelle di uno già molto famoso e ben illustrato in ponderosi volumi- con delle cose che sono già state fatte precedentemente, magari facendo finta di non saperne nulla; oppure infischiandosene di tutto ciò che è stato fatto, producono una qualsiasi opera proponendola come “l’opera nuova”, tutta loro. Dandosi poi da fare per introdurla e farla accettare dalla critica o dal gallerista che l’aiutino a divulgarla nel mercato delle merci. In realtà invece sono solo pronti a infilarsi e a consacrarsi al mondo della produzione di opere ed oggetti per il mercato dell’arte. Questo è una tra le tante strategie per ottenere il successo e la gloria ma, secondo me, è proprio il sistema più sicuro per NON fare arte. L’arte, quando è sincera, non ha strategie e ha molto poco a che fare con la produzione degli oggetti per il mercato. Questo casomai riguarda più l’artigianato. Il modo di lavorare, di concepire così il proprio lavoro e il suo uso, a mio parere, non li può portare da nessuna parte. Magari li fa diventare ricchi e qualcuno anche famoso. Ma, capisci, facendo così si sono già venduti l’anima al mercato, al commercio. A volte non lo sanno e lo fanno inconsciamente sull’onda degli entusiasmi; ma la maggior parte si sentono sicuri, anzi sono certi di riuscire a gestire le cose, pur sapendo che stanno cavalcando una tigre. Può darsi che qualcuno, pur comportandosi così riuscirà ugualmente, a fare qualcosa di significativo, cosa che è probabile, auspicabile. Una cosa certa è che se l’importanza sul mercato delle opere che fai è determinata dal numero di milioni che vengono investiti sul tuo lavoro allora sarà l’investitore, o il gallerista, o il mecenate a diventare “il creativo”. I giocatori stanchi e delusi dai cavalli da corsa, dalle azioni della borsa o dagli investimenti in Argentina si sentiranno tutti autorizzati e in grado di diventare loro i creatori dell’ARTISTA. Ho la vaga impressione che in questo, malaugurato, caso il ruolo dell’artista sarà ridotto soltanto al mestiere, all’artigianato da arredamento. Credo che stia succedendo così perché le ultime generazioni sono cresciute un pò troppo fuori dagli insegnanti che hanno ricevuto all’Accademia, e molto sotto l’ala ideologica dell’autobiografia di Andy Warhol. Dalla lettura di quel libro hanno appreso tutte le scorciatoie utili per raggiungere il successo e il conseguente denaro, invece di comprendere tutte le difficoltà che l’operare nel mondo dell’arte comporta. Questo è il mio giudizio, morale e antieconomico, che dò sul problema delle nuove generazioni. Poi al di là di tutto questo, vedo anch’io dei lavori che mi piacciono. Ma mi troverei di più in sintonia con tutto questo fenomeno se fosse preso con molta più calma; che si calmasse tutta questa euforia, drogata, sulla scoperta del futuro genio a qualsiasi costo. Ne stiamo pagando, tutti, un prezzo troppo alto. Rischiamo di ritrovarci in pochi anni con un’intera generazione di artisti completamente bruciata, spompata, cioè spremuta e gettata dopo l’uso.<br />
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<strong>SR:</strong> La galleria che cosa sta trattando attualmente?<br />
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<strong>RP:</strong> Non è un caso che in questo momento abbia la mostra di Howard Smith che è stato uno dei protagonisti di quel gruppo, sfociato poi nella mostra che fu fatta al Museo di Williamston nel 1984 di cui ti parlavo prima e che si intitolava Radical Painting. Quindi cerco di riprenderne le fila. Sto pensando seriamente di rifare alcune mostre ad artisti di quegli anni, Cecchini, Morales, ora non saprei dirti se anche altri, però in queste mostre vorrei essere assolutamente più radicale che negli anni passati, proprio per far capire e vedere più chiaramente il tema. Tutto questo mi è facilitato perché nel frattempo questa tematica è stata ripresa, rivisitata. Si stanno facendo dappertutto mostre antologiche e riassuntive sulla pittura di quegli anni.E collezionisti importanti come Panza Di Biumo, per esempio, hanno dedicato una parte della loro raccolta a questa sezione visiva. Ora la chiamano pittura monocroma. Negli ultimi anni c’è, insomma, un rinnovato interesse sulla pittura. A maggior ragione mi piace ancor di più l’idea di rientrare sull’argomento riprendendolo e riproponendo mostre su tale tema e vorrei riuscire, specificando meglio ed entrando più attentamente su quei particolari che rendono più forti ed evidenziano le differenze tra un certo modo di fare la pittura da un altro.Il messaggio che dà questo tipo di pittura, che mi affascina molto, lo leggerai nel testo-intervista tra F.Sardella e Howard Smith che ho pubblicato nel catalogo della mostra. A differenza degli anni ’70, ora stò molto attento, non solo a scegliere il critico ma anche a fare in modo che il catalogo della mostra diventi qualcosa di quasi unico, documentativo.Per il catalogo di H.Smith ho chiesto a Sardella di fargli un’intervista, per farlo parlare in prima persona della sua pittura. E quando il pittore è costretto a parlare delle sue cose, delle sue idee, ne viene fuori un testo che non accompagna solo le immagini ma come in questo caso un catalogo, irripetibile. Esattamente come avevo fatto alcuni mesi fa con il catalogo della mostra di Lucio Pozzi in cui ho pubblicato una bizzarra conversazione tra Pozzi e Zanchetta, altro giovane critico, una congiunzione da cui è sortito uno scritto molto bello, esplicativo del modo di operare di Lucio. In alcune parti del testo viene fuori chiaramente questa sua idea di messa in crisi della visione univoca del suo fare arte, il suo costante rifiuto di produrre un unico prodotto circoscritto (quadro, scultura, foto, ecc.). Ti confesso che dopo tanti anni mi divertirebbe fare mostre di artisti che si mettono a fare veramente quello che gli pare e piace, senza lasciarsi coinvolgere dalle mode o dal mercato. Cioè artisti che si mettono, e mettono la loro opera, perennemente in discussione per tutta una serie di ragioni: il loro modo di fare arte, il loro modo di farla recepire. Di artisti così liberi e sganciati dalla loro stessa immagine. Tanto è vero, a proposito di editoria, che stò curando una collana di libri Pittura e Memoria per una casa editrice di Firenze la Morgana Edizioni. Abbiamo cominciato a fare i primi libri agli artisti con cui ero più in contatto e vicino come spirito. Era necessario accellerare i tempi poiché molti di loro hanno una veneranda età e per adesso la loro memoria è ancora lucida, ma… Comunque fino ad adesso abbiamo fatto sei volumi, pubblicandone due l’anno. Il primo l’abbiamo fatto con un artista parigino Renée Laubies, di origine francese, ma di nascita indocinese –la madre- che vive parte dell’anno in India e pratica la meditazione. Finita la meditazione prende gli acquerelli e lavora, e vengono fuori dei paesaggi fantastici, fatti di luce e colore, non realisti né naturalisti, impalpabili. Lui lavora solo con acquerelli su carta. Alcuni anni fa avevo fatto una mostra delle sue carte, mi erano piaciute, poi un giorno parlando con lui mi raccontava di queste sue visioni, della meditazione e in più mi parlava dei suoi vissuti nella Parigi degli anni ‘50/60, che oramai nessuno ricorda più perché o sono tutti morti oppure qualcuno ne ha scritto sui libri ma è scritto non dal punto di vista dellarte.E lui mi aveva suggerito l’idea di fare un libro sui suoi ricordi, un po’ gossip, un po’ memoria e su artisti con cui aveva lavorato a contatto di gomito o con personaggi della cultura del tempo. E’ un bel personaggio oltre ad essere un buon artista, un buon pittore. Ne è venuto fuori un libro che ridescriveva un’epoca, una città mitica e un’ambiente ormai scomparso.La collana avevo voluto si chiamasse Pittura e memoria perché come avevo spiegato all’editore la mia idea era quella di far parlare l’artista, il pittore, con il quale puoi anche parlare di vino o di osterie o di carte o di un paesaggio, finisce per essere sempre un modo di sentir parlare la pittura attraverso colui che la fa, cioè sullo sfondo della conversazione c’è sempre la sua arte e la sua pittura. Così ho chiesto agli artisti prescelti di descrivere in un testo, aforismi o brevi scritti, tutto quello che volevano e avevano in mente. La Morales è stata l’unica che, quando le ho proposto la cosa, è saltata su dicendo: “Io non parlo di osterie, né di vino, parlo, se parlerò, di pittura e della pittura che faccio io e basta !”…è stata radicale anche in questo. Però, per esempio, c’è stato Winfred Gaul, purtroppo adesso è morto, che nel suo libro ha descritto i suoi viaggi che faceva in Toscana negli anni ‘60, parlava delle osterie dove era andato un giorno, del buon vino che aveva bevuto, ma ci si sente, io ci sento, ancora oggi quando lo leggo, il pittore. Quando, per esempio, narra di un temporale improvviso che lo aveva colto per strada, mi sembra di vedere i colori del temporale. Anche perché, secondo me, per entrare dentro a questo specchio magico che è il quadrato della tela dipinta, non bastano soltanto gli occhi e la mente ma hai bisogno di tutta una serie di cose che ti prendano per mano e che ti introducano lentamente dentro questa porta magica. Perché un quadro è veramente, non ricordo chi l’abbia detto,una sorta di specchio di Alice e lo specchio in cui entri ti trasporta in un mondo fantastico. Anche un quadro semplicemente tinto di bianco, tipo quelli di Ryman -per esempio- oppure il famoso “<em>Quadrato bianco su fondo bianco</em>” di Malevic, alla fine riescono a darti tutta una serie di informazioni da trasportarti dentro il loro mondo. Ancora un altro esempio: con Michael Golberg, con il quale ho una grande amicizia da tanti anni, ci conosciamo da venti anni e gli ho fatto già 10 mostre personali, eppure non abbiamo mai passato una serata a parlare della sua pittura. Abbiamo parlato di una mostra che abbiamo visto, di un quadro antico nella tale chiesa, questo sì, ma mai apertamente della sua pittura. L’unico momento in cui riesco a parlare con lui su quello che fa è quando lo vado trovare nel suo studio però non devo mai chiedergli direttamente le cose, e questo l’ho capito già dalla prima volta che andai a trovarlo. Mi ricordo, mentre osservavo le sue opere, lui stava lì ed io continuavo a spiegargli facendo sfoggio delle ragioni culturali estetico e filosofiche per cui sceglievo un’opera invece che un’altra e lui stava lì in attesa, sembrava aspettasse che gli dessi una prova di intelligenza. Ad un certo punto gli dissi che sceglievo un quadro perché c’era una massa blu che entrava dentro una superficie gialla che mi piaceva molto; allora si è come risvegliato ricominciando la conversazione. Da allora, quando vado nel suo studio gli dico solamente: “ bello, questo mi piace”. Tanto è vero che spesso faccio delle “gaffe” enormi dicendogli di un quadro: “bello questo” e lui : “ma questo non è ancora finito!” e viceversa di un altro: “bello, devi finirlo?” e lui: “no, no, questo è finito!”. Non so, forse a volte penso lo faccia per gioco o, meglio, perché non ha ancora stabilito se quel quadro non ha più bisogno dei suoi interventi, pennellate.Davanti ai quadri, per farlo parlare della sua pittura faccio domande del tipo: “perché hai messo questa striscia rossa vicino a questa massa blu?” e lui: “perché ci stava bene” io insisto: “…e se fosse stata nera?” allora lui continua spiegandomi e parlandomi del nero e del perché non l’ha scelto. E’ l’unico momento in cui riesco ad entrare un pò nella sua pittura. Diverso e diametralmente opposto a molti altri artisti che si divincolano in cinquantamila modi per farmi capire quanto siano bravi, o quanto intelligenti o quanto siano perfetti artisti. In tutti questi anni mi sono reso conto che le cose quando sono complicate da comprendere e mi impegnano di più, mi coinvolgono maggiormente e mi costringono ad affinare il mio metodo di avvicinarmi a loro, e provo un gran godimento quando arrivo ad un risultato e riesco ad avvicinarmi un pò di più alla personalità dell’artista e alla sua pittura. Non vorrei parlare di crescita culturale, non penso che si tratti di una somma di cose che poi messe insieme producono un nuovo stadio; ma del fatto che un artista sia più difficile o diffidente di un altro; alcuni ti lasciano entrare facilmente, altri invece tendono a nascondersi o a intromettere ostacoli sul tuo cammino. Sta a te individuare e capire gli ostacoli, rimuoverli e procedere avanti. Goldberg è uno di quei pochi artisti della vecchia generazione con cui ho, da tanti anni, un ottimo rapporto. Forse mi è stato facilitato dal fatto che lui ha trovato la sua tranquillità nella campagna toscana, vicino a Siena, abbandonando la metropoli New York dove rientra solo per tre mesi l’anno. Così per me andare nel senese a trovarlo è più facile. So che alle 6/ 6,30 del mattino si alza a dipingere e solo dopo inizia la sua giornata. A New York insegna ancora, lui mi ha confessato che non ce la farebbe a stare senza i suoi alunni, gli mancherebbero troppo anche se spesso si sente un pò a disagio con loro, per quello che fanno, per le loro idee, per le cose che vorrebbero o che gli chiedono, ma poi alla fine risolve tutto dicendogli: “basta che fai una cosa che non mi costringa a girarmi dall’altra parte”. Lui è una specie di dinosauro dell’ultima generazione eroica americana degli anni ’50, che è cresciuto con il jazz e il rock and roll, con i poeti e scrittori della Beat Generation.Quindi ha l’esperienza di un mondo che ormai è quasi scomparso ma che è stato determinante in Europa per tutta la mia generazione. Non a caso che tutti noi abbiamo avuto un sussulto quando per la prima volta abbiamo visto qui in Europa una mostra dei quadri di Rothko. Quei quadri hanno segnato un’intera generazione. Anche la Morales mi confessò che rimase molto colpita dalla prima mostra fatta a Roma negli anni ’70 di Rothko e con lei tanti altri pittori, allora giovani. Probabilmente sarà dovuto al fatto che all’epoca le mostre erano organizzate per dare un’informazione precisa sul lavoro di un artista, dalla A alla Z. Anche le altre mostre, le collettive tematiche, erano precise, scientificamente attendibili. Oggi invece molte mostre vengono fatte per vendere biglietti all’ingresso; anche nelle mostre è entrato quel meccanismo del consumismo di cui parlavamo prima. Questo è il punto a cui sono giunto recentemente. In seguito poi non so dove approderò. Ogni tanto riesco a proporre delle mostre in spazi pubblici o museali che accettano il miei progetti e mi aiutano economicamente a realizzarli come due anni fa al Palazzo Rocca di Chiavari dove, con l’aiuto dell’Assessorato alla Cultura, sono riuscito a organizzare una mostra che avevo in mente da molto tempo O’Hara, Bluhm e Godberg: un poeta e due pittori nella New York degli anni’50. Una mostra in cui avevo riunito tre vecchi amici e le loro opere; ricreando nelle sale della mostra l’atmosfera di quegli anni a N.Y. Recentemente ho organizzato con l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Brescia in quattro immensi spazi di ex fabbriche, cotonifici e acciaierie situate nella Val Sabbia e recuperate all’uso per eventi culturali, una mostra sul tema dell’arte fatta attraverso il riuso, il riciclaggio degli oggetti trovati. Il titolo della mostra era già indicativo <em>Rifiuto Riusato ad arte</em> .Una rassegna dove ho riunito opere di artisti più anziani degli anni ‘50/60 insieme a quelle di altri più giovani ed, in un vecchio mulino restaurato, avevo esposto una sezione di fotografi degli anni ‘60/70 che hanno fotografato discariche. Tutte le opere degli artisti invitati erano fatte su questo tema, riutilizzando nell’opera rifiuti urbani. Un modo di lavorare che viene da lontano, i cui progenitori, riconosciuti erano stati i dadaisti degli anni del primo dopoguerra. Oggetti accumulati e riassemblati con un metodo di lavorare però più vicino al dadaismo di Switters che a quello di Duchamp. Infatti vedevo nelle opere di questi giovani una relazione che discendeva dal dadaismo e poi subito, come padri appena vicini, dai Nouveaux Realists francesi, come Arman, César, Tinguely, ecc. Non a caso che il progetto di questa mostra mi sia nato dopo la serie di personali che ho organizzato nella mia galleria di alcuni tra i protagonisti del Novorealismo francese: Spoerri, Villeglé, Dufrene, Deschamps,e il nostro Rotella. Nei loro lavori di riciclaggio di oggetti trovati i Novorealisti avevano modificato molte cose in confronto all’uso che ne facevano i dadaisti. C’è una frase di Arman che mi aveva colpito molto e dice: “un bullone dà di se un’immagine, cinquecento bulloni messi dentro una scatola trasparente tutti assemblati insieme, un po’ alla rinfusa, me ne dà tutta un’altra”. Probabilmente un certo interesse per quel modo di lavorare mi è sorto preparando le loro personali e frequentandoli. Oggi la nuova generazione vi aggiunge qualcosa di più contemporaneo. La recente generazione aggiunge qualcosa nelle opere o nei loro assemblaggi, non soltanto degli oggetti messi lì accumulati e accomodati ma ne modificano e variano l’insieme, gli fanno fare dei percorsi, spesso ne reinventano l’immagine e l’immaginario, giocando tranquillamente e ironicamente sull’insieme; con uno sguardo più attuale e disincantato, ormai lontano dal feticismo dissacrante del dadaista e dalla contemplazione esistenziale parigina dei Novorealisti. Questo rende il lavoro che fanno qualcosa di nuovo. Un lato inatteso nelle loro installazioni. Sono tutti artisti sui cinquanta anni, quindi nemmeno più così giovani, ma non sono ancora usciti all’attenzione del grande pubblico e mi fa piacere aiutarli e condividere il tema del loro lavoro. Ad alcuni ho già fatto qui da me a Livorno una personale e spero di realizzarne altre in futuro. Questo vorrà dire che le loro opere continuano ad entusiasmarmi e a piacermi. Invece sulle recenti, nuove leve, ribadisco, sono un po’ scettico, come ti ho già detto cerco di capire, aspetto di vederne gli sviluppi. Senza chiudermi completamente alle novità né, tantomeno, alle eventuali riscoperte. Ormai ho superato il traguardo, dei 35 anni di attività, cosa di cui sono molto orgoglioso. Sono prossimo a organizzare la trecentesima mostra nella mia galleria per cui aspetto di giungere ai 40 anni di attività ininterrotta per fare un serio bilancio del lavoro fatto e magari editare un ampio volume riassuntivo di tutta questa massa di lavoro. Alla fine, per concludere questo nostro incontro e riprendendo la metafora che facevo prima, paragonando il nostro mondo dell’arte e degli artisti ad un bosco, ad una foresta, sicuramente posso affermare che ho vissuto tutti questi miei anni in un luogo incantevole, respirandone un’aria pura, a volte meno fresca, ma sempre circondato dal profumo di clorofilla (cioè di acqua ragia). Forse non sempre sono arrivato a salire sulle querce giganti o sugli abeti millenari che dominano nella foresta ma ho riempito la mia dispensa di molti vasetti di marmellata di fragole e di mirtilli per la gioia mia e dei golosi come me.raffohttp://www.blogger.com/profile/12655648694412401121noreply@blogger.com