2004 - dialogo tra MENEGUZZO e PECCOLO

Intervista tratta dal catalogo della mostra
Raccolti & Differenziati

Corrado BONOMI
Raffaella FORMENTI
Albano MORANDI
Giordano POZZI
Paola RISOLI
Tyrome TRIPOLI

Qualche considerazione
e un dialogo sulla “flànerie” dell’artista
(e del gallerista)

di Marco Meneguzzo

Ci sono parole che da sole evocano l’idea che le ha prodotte, e che anzi aggiungono a quell’idea -in virtù della loro forza intrinseca, che va oltre la semplice trasposizione fonetica, comunicabile, del concetto- una sorta di valore aggiunto: in questo nostro caso la parola è “flàneur”. Non appena Roberto (Peccolo) ha pronunciato questa parola per descrivere la sua idea di mostra -e in realtà la sua idea di arte- sono affiorate visioni, immagini, evocazioni, con la stessa immediatezza di una illuminazione (altra parola correlata…), istantaneamente, con la stessa rapidità con cui la bocca la stava articolando.

Ora, si presume -si spera- che il lettore viva questa stessa sensazione, questa stessa illuminazione… In tal caso, il lavoro del critico, nella specifica situazione del suo essere “compagno di strada”, sarebbe finito prima ancora di cominciare: inutile cercare di costruire, o di decostruire, qualcosa che nasce già compiuto, pieno, maturo.
E’ lì, ostentato, esposto, sicuro: non resta che viverne le emozioni evocate.
Ma al godimento di una sensazione si può arrivare anche per via deduttiva, e in tal caso il critico riprende il suo antico ruolo didattico di “traduttore”, di interprete accreditato, che spreme la parola per farne uscire tutto il succo, anche a costo di rovinarne la forma.

Così, “flàneur” e “flànerie” diventano parole da smontare, da scomporre in infinite frasi, ognuna delle quali possiede un po’ della forza di quella parola. Dunque, l’artista come vagabondo, come “flàneur”… E’ un vagabondo di città, innanzi tutto, è un vagabondo di matrice ottocentesca, e magari francese (non solo per la parola stessa, che lo è, ma per tutta la letteratura “maudit” che ne ha fatto la fortuna, da Baudelaire a Mallarmé…), libero come lo può essere un emarginato sociale che non vede riconosciuto neppure il suo ruolo di “emarginato”, appunto (al contrario, nel medioevo, il vagabondo aveva un ruolo, vicino a quello del pellegrino e, talora, allo “scemo del villaggio”, funzioni entrambe codificate e accettate nel consesso sociale.

Il “flàneur” è l’altra faccia del “borghese”, in un’epoca in cui di proletariato ancora si parlava poco, e in cui contava più l’atteggiamento nei confronti della vita e del mondo che l’appartenenza ad una classe; è un osservatore incantato e disincantato al tempo stesso: incantato dalla varietà della vita, anche nei suoi aspetti più sordidi (il “demi monde” è un’altra invenzione del tempo…), assolutamente disincantato nei confronti del potere. Insomma, la versione cittadina e “moderna” -alla Baudelaire-
del romantico. Ma se il flàneur è “l’antiborghese”, l’artista di oggi può essere considerato tale ?

Meneguzzo: Perché l’artista dovrebbe essere un flàneur, o per lo meno assumerne l’atteggiamento ?
Peccolo: Per sopravvivere all’ambiente divenuto asfittico. Per irridere tutti i filoni dell’arte oggi vigenti che, a mio avviso, si riducono grosso modo a tre correnti:
quello dell’ennesima, ultima possibilità della pittura, quello della figurazione ritrovata attraverso la fotografia, e quello della gestione del sistema dell’arte come gestione di un sistema commerciale. Al contrario di tutto ciò penso che ci sia bisogno di un nuovo atteggiamento dadaista, di un nuovo “balbettìo” dell’arte, magari pronunciato da una generazione di artisti meno imprenditoriale, più “romantica”.
Amo questo atteggiamento anche al di sopra degli artisti: vorrei che essi avessero la possibilità percorrere ancora un’ultima ”passeggiata”, non nella natura –come cercava, ad esempio, Celant tra le origini dell’ Arte Povera-, ma nella città. In questo senso scelgo Schwitters e non Beuys…

M.: L’artista deve –e sottolineo la parola “dovere”, che qui indica una precisa volontà del soggetto- essere sempre un emarginato ?
P.: Non sempre, anzi…Vediamo che la gran parte di loro infine ha scelto la società e i suoi sistemi. Per certi versi è inevitabile, ma l’atteggiamento nei confronti del mondo è ancora importante, e questo atteggiamento vagabondo non appartiene al sistema. Per questo ci fa riflettere.

M.: Tuttavia tu sei un gallerista, e questi lavori vengono esposti in una galleria, che del sistema dell’arte è parte integrante…
P.: Alla fine l’arte sempre lì sta… Ma credo che siano un controsenso e un compromesso ancora accettabile, rispetto a chi progetta per una richiesta di mercato. Accetto i luoghi del sistema, che sono inevitabili, ma non digerisco che si creino, in arte, bisogni indotti.

M.: Perché questi sei artisti ?
P.: Per il loro atteggiamento individuale, che assomiglia molto a quello che cerco in arte. Vedo in loro, al di là delle differenze, qualcosa che li accomuna ai Novorealisti, in specie quelli più “generosi”, come Spoerri o Tinguely, o anche Villeglè. Amo negli artisti la volontà di “prendersi una vacanza” anche dal loro ruolo di artisti, la voglia di disubbidire, di “marinare la scuola”. In questi giovani mi aspetto di trovare dietro l’angolo, con sorpresa, la stessa passione e al contempo lo stesso “disinteresse” di quegli illustri antecedenti.

M.: Allora l’arte è, di fatto, la “vacanza dell’arte”, intendendo con “vacanza” il duplice significato di “assenza” e di “svago” o “licenza” ?
P.: Ti rispondo dicendoti che amo l’Art Brut, in cui il momento “naturale”, fisico, è molto più importante di quello culturale (come aveva intuito con lungimiranza Dubuffet).
E’ vero poi che la foresta -la jungla- dell’arte è piena e dominata dai grandi alberi, ma vi si trovano anche fiori e piccoli arbusti, più fini, più belli e più… “a portata di mano”. Quando vado per boschi anch’io ammiro le grandi querce e gli abeti giganti (che sono proprio quelli che marcano il bosco); ma poi mi soffermo a gustare le fragole e i mirtilli, che non a caso sono le piante più piccole e nascoste del sottobosco. Dipende da quello che uno cerca…
Per fare un esempio più attinente: tra Guttuso e Turcato, vissuti nella stessa città e nello stesso periodo del dopoguerra, a mio parere il primo illustra il mondo, il secondo costruisce il linguaggio. Dei due la mia preferenza è per il secondo, e con lui per tutti coloro che “entrano” nel problema….