Bruna Soletti (Il mio ricordo)

È SCOMPARSA LA GALLERISTA E COMPAGNA DI VINCENZO AGNETTI. NE RIPERCORRIAMO LA VITA E LA CARRIERA, IN ATTESA DI UN INCONTRO A CURA DELL’ARCHIVIO AGNETTI CHE IL 25 NOVEMBRE NE CELEBRERÀ IL COMPLEANNO E IL LAVORO.














Bruna Soletti

Il 3 agosto 2020 è scomparsa Bruna Soletti, compagna e moglie di Vincenzo Agnetti e gallerista di primo piano nella Milano tra gli anni Settanta e Ottanta. Con Agnetti aveva vissuto e partecipato al fermento della vita artistica milanese degli anni 70 e dalla sua scomparsa nel 1981 era diventata la custode di buona parte della sua produzione artistica, difendendone strenuamente la memoria, nonché l’ispiratrice dell’attuale archivio. 


Il mio personale ricordo di BRUNA SOLETTI.

Negli oltre 50 anni delle mie frequentazioni nel mondo dell’arte contemporanea non ho mai più avuto l’occasione di incontrare una persona come lei. A mio vedere Bruna Soletti era una personalità dal carattere forte, volitivo e ostinato. Nei confronti delle persone del nostro ambiente i suoi giudizi erano diretti, spesso taglienti ma sempre dichiarati frontalmente, mai dietro le spalle: insomma non te le mandava a dire e colpiva spesso un aspetto inaspettato dell’interlocutore. Con me aveva sempre tenuto un atteggiamento di benevolenza, anche se mi ha mandato a quel paese numerose volte, credo avessimo una reciproca stima. Ci avevano presentati durante la vernice della mostra di Castellani alla Pinacoteca di Ravenna nel maggio 1984 e già durante quel nostro primo colloquio le avevo espresso la mia passione per l’opera di Vincenzo Agnetti e il mio desiderio di fare una mostra con le sue opere nella mia galleria a Livorno chiedendole di aiutarmi. Però ho dovuto sudare sette camice prima di riuscire a realizzarla concretamente, ogni volta che andavo a trovarla nel suo spazio-galleria di Piazza Sant’Alessandro aveva sempre qualcosa di più urgente da organizzare, confessandomi poi che non le sembrava arrivato il tempo giusto per una mostra di Agnetti da me a Livorno; riteneva i prezzi delle opere sul mercato, in quel momento, ancora troppo bassi e quindi non intendeva svendere le opere a così poco. Infatti sono poi riuscito a realizzare la mostra nell’aprile 1997 quando i valori avevano cominciato a lievitare e a raggiungere quel minimo di quotazioni ritenute da lei interessanti. Grazie agli intensi anni vissuti nei momenti in cui scaturiva e poi si concretizzava il progetto per la rivista e la galleria “Azimuth” e, in seguito, negli anni in cui aveva preso la direzione della Galleria milanese L’Uomo e l’Arte, conosceva tutti e tutti la conoscevano, qualcuno la stimava e altri la denigravano ma lei, imperterrita, continuava il suo ritmo senza sosta. Conoscendola da vicino e frequentandola spesso avevo una ammirazione per il suo carattere forte e combattivo tipico delle persone che hanno passato molte battaglie. In modo particolare stimavo la sua coerente venerazione per la mente e per l’opera di Vincenzo Agnetti. Pur essendone la moglie, menzionandolo sia con gli estranei che con gli amici, parlava di lui sempre in terza persona dicendo “l’Agnetti ha fatto” oppure “Vincenzo Agnetti ha detto questo o scritto quello” non si riferiva mai a lui o alla sua opera come “mio marito” o “il mio compagno” questo era un particolare che mi aveva colpito sin dal nostro primo incontro. Aveva vissuto come testimone dall’interno a fianco di Agnetti, tra gli anni fine ’50 e 60, durante tutta quella fase di costituzione e lancio del gruppo e della rivista “Azimuth” di cui l’Agnetti era lo stimato teorico; infatti nella sua casa come nello studio di Agnetti si svolsero molti degli incontri tra i milanesi Manzoni, Castellani, Dadamaino con i tedeschi del gruppo Zero come pure con tutti gli altri artisti, italiani e stranieri, che frequentavano la Milano di quegli anni. Di fatto la casa e lo studio di via Machiavelli erano diventati un polo di attrazione per una ristretta élite di artisti radicali europei e internazionali che intendevano rinnovare l’arte dalla base; posizionandosi, casualmente, all’opposto della cerchia più ampia degli artisti frequentatori del Bar Giamaica di via Brera, dove la situazione era sempre aperta e variabile così che chiunque arrivasse a mostrare le sue capacità culturali veniva annoverato nella cerchia artistica della Milano dei ‘50/60. Quando in quest’ultimo decennio avevo cominciato a editare piccoli libretti sulle teorie dell’arte o sulle memorie di artisti gli avevo offerto molte volte di pubblicare un suo eventuale scritto di memorie su quegli anni formativi di “Azimuth” e sulle frequentazioni dello studio Agnetti o di via Machiavelli. Per facilitarne la riuscita ero arrivato a incaricare una critica d’arte che facesse con lei una conversazione o un’intervista; ma non c’è stato niente da fare si rifiutava categoricamente di narrare aneddoti sulle vicende e sugli incontri-scontri di quegli anni, non voleva fare gossip su una situazione che riteneva seria e importante. Mi è dispiaciuto molto non essere riuscito nel mio intento e, a mio avviso, con la sua scomparsa tutti noi abbiamo perso cognizioni su storie, aneddoti, avvenimenti e teorie che raccontati direttamente da una testimone partecipe come lei, ci avrebbero aiutati a capire meglio i fatti di quegli anni. Ma quella è stata per me una ennesima conferma della sua fermezza di convinzioni e della serietà della sua strategia nel difendere e diffondere l’opera di Agnetti che infine non mi è dispiaciuto rispettare.

Roberto Peccolo 20/10/20

Lettera a Tristan Honsinger


T. Honsinger & K. Duck, galleria Peccolo 1981

Carissimo Tristan, ti ricordi...?

Fino dagli anni 1964-65, per questioni di mio interesse artistico in relazione con la pittura moderna astratta e concreta, avevo cominciato ad ascoltare dischi di musica contemporanea, definita allora dodecafonica: Schöenberg, Stravinskij e poi Stockhausen, Berio, Maderna oppure gli americani Ph.Glass, J. Cage o M. Feldman. 
Inoltre, mi ero appassionato al jazz, iniziando dal BeBop del dopoguerra per arrivare velocemente fino al free, degli anni dal ‘60 in poi, dei musicisti americani C. Parker, J. Coltrane, O. Coleman, M. Davis ecc.
Per questo quando ti incontrai la prima volta ascoltando i tuoi rumori, fraseggi, strilli e altre diavolerie dadaiste di cui eri capace di far sortire dal tuo violoncello durante un tuo concerto, non mi impressionai più di tanto ma, soprattutto, non lo rifiutai in toto come spesso capitava anche tra quegli che si dichiaravano interessati del jazz, che fosse più o meno free e improvvisato.

Fu così che una volta incontratoti a Roma, durante un festival, ti invitai a tenere un concerto “solo” da me, in galleria, nell’ottobre 1979. Quella sera il tuo concerto fu straordinariamente “folle” e, a parte me e pochi altri appassionati di free jazz estremo, seppi che non piacque al pubblico presente in galleria; erano intervenuti più per la curiosità e con la convinzione di ascoltare una musica che consideravano “ancora ascoltabile” anche se free.

A parte il risultato di quella sera ho avuto il piacere col tempo di frequentarti e diventare tuo buon amico e non ho mancato occasioni per invitarti ancora a Livorno a svolgere altre performance nella mia galleria da solo o in compagnia di altri musicisti tuoi amici come Sean Bergin, Barre Phillips oppure, quando ci riuscivo, ti organizzavo qualche serata in club o spazi pubblici dei dintorni.
Come sai, durante tutti gli anni ‘70/80 giravo spesso, per visitare e organizzare mostre d’arte contemporanea in Europa e specialmente in Germania e Olanda dove nasceva in quegli stessi anni un forte interesse per quel versante del free-jazz che avevano definito “creativo improvvisato”.
Tanti, infatti, erano i musicisti tedeschi che acquistavano buona considerazione e successo nei Festival specializzati di Musica Creativa Improvvisata per esempio Peter Kowald, Peter Brotzmann, Gunter Sommer, Barre Phillips e altri; ma anche la colonia degli olandesi attivi in questo settore era fitta: Han Bennink, Misha Mengelberg, Evan Parker, ecc.
Tutti musicisti che ruotavano intorno alla Globe Unity Orchestra e alla temeraria e innovativa casa discografica F.M.P. di Berlino.

Così in quegli anni le nostre strade si incrociavano spesso e ci ritrovavamo in qualche festival in cui tu suonavi e io ti ascoltavo, a volte con fatica, a volte con molto piacere. Fino a quando un giorno ho saputo che a Munster (oppure era Moers?) in Westfalia c’era in programma un festival di tre giorni di teatro/danza/e musica improvvisata. Scoprii che eri stato invitato a partecipare ed era stata invitata per la danza anche Katie Duck, all’epoca tua moglie. Ci organizzammo per fare il viaggio insieme e io mi proposi di trasportarvi gratuitamente con la mia auto e di guidare fino a Munster (o Moers?) città che conoscevo bene perché avevo organizzato delle mostre d’arte italiana nel Kunstverein locale.
A te il viaggio non sarebbe costato niente e a me dava soddisfazione l’idea di partecipare a un evento che reputavo in quel momento “fondamentale” perché riuniva tutti insieme ininterrottamente per tre giorni e tre serate molte delle formazioni e degli autori di quello specifico movimento che, altrimenti, agivano separatamente per concerti sparsi intorno all’Europa e per il mondo.
Infatti, i miei entusiasmi nei confronti di quella tre giorni erano derivati dall'illusione che questa fosse la buona occasione per fissare una storicizzazione a quella “situazione” che era in atto e che doveva amalgamarsi in qualcosa di più consacrante ma, soprattutto, ricevere finalmente un ampio riconoscimento dalla critica e dalla stampa e non fosse soltanto la famosa Globe Unity Orchestra che si riuniva in occasioni sempre più rare e dispersive. 

Questo era il pensiero che mi spinse con entusiasmo a essere presente all’evento. Partimmo carichi di entusiasmo e portai con me la mia piccola canon per riprendere e fotografare le serate e già mi prefiguravo un ampio articolo sull’avvenimento da pubblicare su una rivista tedesca, Kunstforum, con cui avevo una collaborazione per articoli su pittori, scultori e fotografi d’arte contemporanea. Nella mia mente vedevo un parallelo tra le formazioni che si davano battaglia e confronto sulle tavole del teatro locale di Munster (Moers?) e le sperimentazioni contemporanee che conoscevo e seguivo come gallerista in campo artistico e pittorico, portate avanti degli artisti visivi dal Fluxus dai Situazionisti e dalle performances del teatro d’avanguardia dei gruppi italiani quali “Magazzini Criminali”; “Gaia Scienza” e altri.

Carichi di “armi e bagagli”, come si dice, con il violoncello che occupava la parte posteriore e mi copriva parzialmente la retrovisione, guidai alla volta della Westfalia.
Non fu un viaggio molto tranquillo perché con te e tua moglie c’era anche la piccola Ilaria (allora doveva avere 2-3 anni) che ogni tanto faceva capricci e voleva fermarsi per essere cambiata o mangiare o muoversi un po’. Fu una lunga e faticosa giornata fino all’arrivo nella fredda sera del nord della Germania. Vi lasciai all'albergo prenotatovi dagli organizzatori e io andai in un hotel non lontano dal teatro.

Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, cominciarono a susseguirsi le performance che salvo alcuni brevi intervalli per il cambio strumenti o innesti delle attrezzature, continuavano senza sosta fino alla serata e a notte inoltrata. In quei tre giorni ho assistito a molte azioni dettate dalla volontà di improvvisare con eclatanti trovate ma poche erano le personalità che riuscivano veramente a creare un unisono d’insieme con gli altri partecipanti. 
Musicisti, attori o danzatori che entravano o uscivano o restavano contemporaneamente sul palco. A chi non era abituato dovevano sembrare delle sarabande scatenate di personaggi un po’ pazzi in cerca di far risaltare la loro visione libertaria di musica e movimento scenico di stampo dadaista.
Però, che io mi ricordi, malgrado tutta la scena caotica che si svolgeva sul palco, non ci furono scontri o incidenti tecnici o esagerazioni estreme. Salvo quel momento quando un artista cercò di installare una bicicletta in bilico sopra il pianoforte mentre Misha Mengelberg stava suonando un suo pezzo da solo, rischiando così di rompere il piano e di far crollare la bici in testa al pianista.
Misha non si scompose più di tanto, continuò il suo intervento cambiandone il ritmo e la bici fu poi rimessa in terra. Malgrado tutta quella caotica insalata mista di gesti, movimenti e suoni, alla fine, qualche sprazzo di unità di intenti e di suoni all’unisono sono riuscito a sentirlo.

I tuoi duetti con Brotzmann o altri trombettisti o trombonisti come Evan Parker erano sempre improntati sulla velocità di esecuzione e sulla reciproca ricerca di una amalgama tra armonie e disarmonie correlate. Di quelle serate mi è rimasto indelebile la caoticità dei movimenti e degli interventi che si susseguivano ma anche quel sentimento di appagamento per i felici momenti di amalgama e unisono quando veniva raggiunto un “feeling” tra due o più partecipanti.


Tristan Honsinger Moers Festival improvv. musik, 1983

Ritornato a Livorno preparai un breve scritto accompagnato da foto b/n di quelle serate e lo inviai a Mainz alla redazione di Kunstforum che ne fece un bell’articolo di 4 pagine pubblicandolo nel numero uscito nel mese successivo. Purtroppo il tempo e la polvere sono calati per molti anni su questi avvenimenti e attualmente non saprei proprio dove ritrovare una copia delle rivista che mi farebbe piacere regalarti.
Invece, ho ritrovato i negativi da cui ho stampato alcune foto dove si vede te insieme con gli altri musicisti sul palco e Katie che danza lì vicino.
Spero che queste stampe risveglino in te un buon ricordo di quel periodo, di quelle tre serate e della nostra amicizia.

La scorsa settimana ho ricevuto i tuoi collages che mi hai spedito da N.Y.
Ti ringrazio, mi sono piaciuti molto e mi hanno ricordato formalmente, attraverso un materiale meno aleatorio della musica come la carta, le volute, i ghirigori e gli scatti da te fatti durante i concerti.
Spero vivamente che avremo ancora occasione di ritrovarci a breve anche se, purtroppo, dal 31 dicembre 2019 ho chiuso ogni attività della galleria. 
Ti confesso che mi piacerebbe molto averti mio ospite nello spazio che ho ancora e che vorrei dedicare a incontri culturali, per ascoltarti ancora una volta.

Ti auguro una migliore salute e che tu riesca a riprendere la tua musica con il tuo violoncello, unico amore della tua vita, che continua a seguirti e non aspetta altro che tu riprenda a suonarlo, principalmente, per la gioia tua e per chi, come noi, ti ascolta.
Spero molto che questo mio scritto di memorie ti faccia ricordare con nostalgia ma anche con affetto quegli anni in cui, tutti noi, eravamo più giovani e pieni di volontà creativa e voglia di fare; convinti che, grazie alle nostre azioni, qualcosa, prima o poi, sarebbe cambiato.
Sicuramente non era una rivoluzione, ma c’era almeno un pensiero di libertà creativa.

Un grande abbraccio da Livorno da me e dagli amici che ti ricordano con affetto, Steve, ecc. ecc.
Roberto

Un omaggio al “Ghandi della pittura moderna”.


 Phillip Martin

Con questa mostra la mia Galleria continua la stagione espositiva 2017/2018 con la serie di personali dedicate ad artisti contemporanei pensati come “Grandi isolati”. Artisti che pur operando in sintonia con l’arte del loro tempo, ad un certo momento hanno deciso di ritirarsi dalla scena artistica, per continuare il proprio lavoro lontano dai clamori e non subire pressioni dal mercato. Il loro era un vano solipsismo oppure l’onesta reazione ad un ambiente artistico che sentivano soffocante ad ogni tentativo di sincera creatività ? Sono sicuro che un giorno non lontano tutto il sistema dell’arte moderna e contemporanea si ritroverà a fare i conti con le opere che questi artisti ci hanno lasciato. Sarà una eredità ingombrante da capire e da gestire ma che riprenderà la sua giusta posizione all’interno delle ricerche artistiche del secondo dopoguerra.
In quel momento, per usare una metafora, sarà finalmente restituito a Cesare quello che gli
Dopo la recente mostra dedicata al francese Michel Macréau; per questa seconda occasione ho scelto di esporre le opere di Phillip Martin (Cork, Irlanda 1927 – Sydney 2014) che il noto critico francese Alain Jouffroy, in un suo scritto, aveva definito “il Ghandi della pittura moderna”. Un artista giramondo, hippie che dipingeva quadri “spirituali” colmi di simbologie, decorazioni ed effigi  a evocare paramenti sacri o addobbi di templi orientali. Dopo la fine degli anni ’40 aveva iniziato con sua moglie irlandese Helen Marshall, anche lei pittrice, a viaggiare e dipingere in tutta l’Europa. Sarà in Austria, a Vienna, dove prenderà corpo per la prima volta la serie di opere sul tema “Affiche-Collage”; tema che lo accompagnerà per tutta la sua vita artistica. Ha soggiornato ed esposto a Parigi, in Irlanda, Italia, Belgio, Spagna ha soggiornato a lungo in India del sud e, a partire dagli anni ‘80, si è stabilito in Australia nei pressi di Sidney. La prima personale italiana è stata a Firenze nel 1951 presso l’eroica Galleria di Fiamma Vigo.
Avevo già accennato nel precedente catalogo di Michel Macreau come ero entrato in contatto con le opere di Phillip Martin: tutto era cominciato nel 1983 quando visitando la casa del famoso collezionista, diventato poi artista lui stesso, Guglielmo Achille Cavellini, avevo visto una diecina di opere tra carte e tele di Phillip Martin che mi erano piaciute molto, infatti le avevo prese con me. Ricordo che il Cavellini mi aveva parlato con molto entusiasmo di questo artista del quale stimava il lavoro e ne apprezzava particolarmente la personalità e soprattutto il modo in cui conduceva la propria vita errabonda e hippie, ancora prima che questa diventasse una moda internazionale. Mi parlò a lungo di lui e delle sue poetiche. Ho scoperto solo più tardi, quando mi regalò il suo libro di memorie “GAC, 1946-1976 incontri/scontri nella giungla dell’arte” edito nel 1977, che tutta quella nostra conversazione l’aveva già descritta in quel libretto. Così oggi, ho deciso di riproporre quel testo nel presente catalogo perché trovo che sia una acuta testimonianza utile alla comprensione dell’opera di Phillip Martin per il pubblico odierno e inoltre perché leggendo lo scritto si percepisce un artista che guarda ai quadri e al comportamento di vita di un suo collega con, inconsciamente o meno, una velata punta di invidia per la radicalità con cui l’altro conduce la sua vita. Come ulteriore resoconto sull’uomo e l’artista Phillip Martin ho riprodotto qui una sua lettera, a me indirizzata, nella quale sono, in parte, spiegate le ragioni del suo isolamento australiano.

Roberto Peccolo   20/01/2017

Sulle tracce di un artista

Michel MACREAU


La prime opere che ho visto di Michel Macréau sono stati due grandi quadri che misuravano cm. 195x130 “La Femme du Monde 1961” e “La faune humaine” del 1962, erano nella cantina del prestigioso collezionista e artista Guglielmo Achille Cavellini, nella sua villa di via Bonomelli a Brescia. Aveva venduto la villa e doveva renderla libera per trasferirsi in un piccolo e per lui più comodo appartamento in centro; nel frattempo aveva già liquidato la maggior parte della sua famosa e prestigiosa collezione, cominciando dalle opere più importanti. La sua era stata una collezione che aveva fatto epoca e che aveva ricevuto molti onori ed esposta nei maggiori e più prestigiosi Musei Europei sino dagli anni ’60. L’aveva formata girando l’Europa e raccogliendo oltre un migliaio di capolavori internazionali dell’arte moderna e contemporanea che coprivano l’intero arco di tempo: dall’iniziale Gruppo degli Otto e gli Informali del dopoguerra (tra i quali grandi lavori di Burri, Fontana, Rauschenberg, ecc.), su fino ai protagonisti dell’Arte Concettuale e Fluxus che in quegli anni erano in grande “auge”. Aveva preso quella drastica decisione economica  per ottenere un capitale utile a sostenerlo e potersi liberamente concentrare sulla sua sincera passione d’artista e nell’ideale in cui credeva: la  propria “Autostoricizzazione”. Questo gli avrebbe permesso di realizzare, senza impellenze  un'ampia produzione di opere e di realizzare gli indispensabili libri, cataloghi e monografie utili alla diffusione del suo ideale. 
Dunque nel settembre del 1983 ci eravamo sentiti al telefono e mi aveva invitato a vedere se tra le opere  ancora disponibili rimaste nella cantina che doveva sgomberare, ci fossero dei quadri che potevano interessarmi, utili per le mostre che facevo in quegli anni.
Fu in quella occasione che insieme con i due Macreau vidi anche 7-8 grandi quadri della serie dei “palimpsesti” degli anni ’60 di Georges Noël e una diecina tra carte e tele di Phillip Martin, oltre ad alcuni piccoli quadri di altri autori in quel momento fuori mercato. Così decidemmo di fare tutto un blocco d’insieme e mi portai le opere a Livorno. Sui tre artisti Cavellini mi aveva dato ampie informazioni dicendomi dove e come li aveva incontrati, durante quei primi anni ‘60 in cui girava per le gallerie parigine, e da chi aveva comprato quei quadri. Perciò, con l’idea di fare mostre con quegli autori e le loro opere, da allora cominciai a fare ricerche sugli artisti che in quel momento qui in Italia quasi nessuno ricordava. Di Georges Noël ricevetti presto notizie e informazioni anche da Paul Facchetti (storico gallerista parigino di origine bergamasca –si deve alla sua galleria, lo Studio Facchetti che aveva aperto a Parigi nel 1951, la prima mostra nel 1952 di Jackson Pollock in Europa). Così potei prendere contatto con Noël e cominciare a collaborare con lui direttamente esponendo in diverse mostre i quadri che avevo e in seguito anche le sue opere recenti, cosa che abbiamo continuato a fare fino alla sua scomparsa nel 2011.
Di Phillip Martin, il Cavellini mi aveva dato ampie informazioni e una serie di articoli che aveva scritto su di lui in libri e riviste, ma non sapeva darmi notizie più attuali. Ricevevo invece sporadiche notizie dai vari galleristi italiani e francesi dove era passato ed aveva esposto: Venezia, Firenze, Milano, Parigi. Ma ognuno alla fine non sapeva dirmi dove era andato a stabilirsi. Soltanto Rudolf Stadler, lo storico gallerista di Rue de Seine a Parigi, ricordandosi che era passato da lui recentemente, mi procurò gentilmente un indirizzo in Australia dicendomi che l’artista, pare, fosse andato a vivere là per ritirarsi completamente dalla scena artistica internazionale di cui si era stancato. Anche con Phillip Martin ho intrapreso una relazione epistolare invitandolo più volte a venire in Toscana per esporre da me, ma alla fine, purtroppo, non siamo mai riusciti a realizzare la nostra collaborazione e il mio progetto.
Mi rimanevano soltanto i due misteriosi quadri, dipinti con forte espressività quasi primitiva e dalla figurazione selvaggia che mi ricordavano, per certi particolari, gli artisti “outsider” dell’ Art Brut. Così cominciai a fare domande soprattutto tra i galleristi parigini e qualcosa si schiarì quando qualcuno mi disse di rivolgermi a M.me Cerez Franco che aveva una galleria, “L’oeil-de-boeuf” in Rue Quincampoix , vicino al Centre Pompidou, dove esponeva artisti sud americani e dell’Art Brut, pare che avesse fatto un paio di mostre a lui nel 1967 e 1974.
Quando entrando in galleria chiesi alla gentile signora di mezza età che era dietro al banco notizie di Macréau, la signora Franco si illuminò dicendomi subito che lo stimava come uno dei grandi artisti della giovane scena artistica parigina dei primi anni ’60, ma che poi lo aveva perso di vista perché si era stabilito nel centro della Francia in un paesino e non si era fatto più vedere da anni; ma gentilmente mi regalò tutta una serie di dépliant e cataloghini di personali o collettive dove erano riprodotti quadri di Macréau. Non era molto, ma finalmente una traccia da seguire. Fu solo qualche tempo dopo, girando per le vetrine di antiquari e gallerie di Rue Guenegaud (una parallela di Rue de Seine, nel quartiere latino) in attesa di andare ad una inaugurazione, mentre stavo ammirando la vetrina di un antiquario dove c’erano esposti dei bellissimi vetri Gallé e Daum, che intravidi appeso ad una parete un quadro che a prima vista mi ricordava le opere che avevo di Macréau, così entrai e dal fondo avanzò una anziana signora dall’aspetto molto signorile che mi chiese cosa mi interessasse. Gli domandai se quel quadro appeso era un’opera di Macréau e lei si meravigliò molto perché non si aspettava che conoscessi il nome dell’artista, e soprattutto che mi interessassi a lui in quanto gallerista straniero. Finimmo per parlare di Macréau, ma mi disse subito che non voleva vendere quell’opera a cui era molto affezionata, comunque mi mostrò 4-5 lavori su carta degli anni ’60 che gli erano rimasti e che acquistai facilmente per il prezzo sin troppo ragionevole. Quella gentile signora si chiamava Henriette Legendre e aveva avuto una galleria che aveva fatto storia nella Parigi degli anni ‘50/60 e proprio in quegli anni aveva esposto Macréau. Ma aveva anche tenuto a battesimo con le loro prime personali, alcuni dei futuri protagonisti del Novo-Realismo parigino. E fu proprio lei, visto l’entusiasmo con cui parlavo delle opere di Macréau, che mi dette un indirizzo e un numero di telefono. Fu così che un anno dopo andai a trovare, nel cuore della Francia, Michel e Claudie Macréau che con i loro tre giovani figli abitavano in campagna ai limiti di una folta boscaglia, in una vecchia casa di contadini riadattata da un vecchio fienile, nel quale era stato ricavato lo studio di Michel Macréau. Nel frattempo Georg Nothelfer un prestigioso gallerista internazionale di Berlino, anche lui appassionato di arte dalla forte connotazione espressionista, aveva comprato i miei due quadri ed aveva fatto nella sua sede di Berlino una buona mostra di Macreau con un bel catalogo. E un’altra galleria di Parigi, la Barbier-Belz, aveva cominciato a lavorare con lui e lo aveva esposto sia in galleria che alla prestigiosa fiera d’arte FIAC del 1989.
Claudie e Michel Macréau vennero a Livorno per l’inaugurazione della mostra personale che finalmente ero riuscito a realizzare nell’ottobre del 1989, e per me, come per loro, fu una bella festa di vernissage. E quando nel settembre del 1994 organizzai nel Palazzo Martinengo a Brescia la mostra “Un certain regard, il ritorno di una grande pittura francese fuori corrente” avevo predisposto che la sala con i suoi quadri fosse a diretto confronto con quella contenente le opere di Robert Combas, proprio per evidenziare l’affinità brutale tra le due opere ma anche il contrasto sia generazionale esistente tra i due (Combas è del 1957 e Macréau del 1935), che gli intenti di lavoro. Mentre il brutalismo di Combas, a mio avviso, proveniva dal mondo dei comics, dai graffiti delle strade, dalla horror vacui della  fitta decorazione a tappeto utile e riempitiva degli spazi e dei personaggi descritti nel quadro, quello di Macréau, secondo me, proveniva inizialmente dagli incubi provocati dall’abbruttimento causato da una “vita difficile”, dall’abuso di alcool o droghe che poi in seguito lui decantò nella narrazione di avvenimenti del quotidiano, di riferimenti alle favole popolari e alle fantasticherie di vita agreste, rustica. Ma era evidente che la sua pittura era impregnata di cultura visiva europea, francese; in particolare dal “segno” delle ceramiche e delle incisioni di Picasso e dal “colore” di Matisse. La narrazione in lui era sempre favolistica e fantasmagorica, inscenata si, su una superficie ma mai piattamente decorativa, nei suoi quadri c’era sempre, leggibile, una storia di vita vissuta o immaginata tale. In Macréau c’era la “coscienza” di essere artista e la volontà di esprimere nell’opera i suoi sentimenti siano essi stati brutali o euforici. Questo particolare determina la fondamentale differenza e distanza della sua opera nei confronti degli artisti dell’Art Brut che tanto piacevano a Dubuffet. 
Come pure con gli artisti metropolitani newyorkesi  più recenti. Il riferimento e il confronto visivo e formale con le opere milionarie di Basquiat sarebbe qui fin troppo facile ma altrettanto inutile. I loro due mondi, due visioni dell’opera e della narrazione artistica, credo, che siano diametralmente opposti. L’uno ha sempre esaltato l’immagine del degrado metropolitano e della brutalità di quartieri newyorkesi quali il Bronx e il Queen, ma anche le insegne di Broadway e le mille luci colorate di Times Square e la rapida ascesa del suo successo di mercato era dovuto alla frequentazione della cerchia di Andy Warhol ma anche dagli abili brokers, che stavano dietro l’angolo, a Wall Street, sempre rapidi nel cercare investimenti redditizi. Macréau, invece si manterrà volutamente il semplice narratore di favole e di sentimenti rustici e naturali  sinceramente legati alla madre terra. Le sue opere, in Francia, saranno troppo spesso incluse nella cerchia degli artisti della “Figurazione” o dell’”Art Brut”. E la mancanza di successo delle sue opere sul mercato ritengo sia dovuto allo scellerato sistema, autoreferenziale, del mercato d’arte parigino, di cui perfino Pierre Restany, a metà degli anni ‘60 si lamentava, quando scrisse: “La Galerie de France, un nome predestinato, vendeva, a due passi dalla boutique di Hermès, sul Faubourg St. Honoré l’articolo di Parigi, in pittura, di cui aveva il marchio depositato. Insomma l’arte della "Êcole de Paris", infischiandosene altamente di quello che succedeva a New York, o altrove, se la passava bene. Un po’ troppo bene. Così non si avvidero dei colpi di mano in serie. Di tutta una serie di colpi di mano che poco dopo avrebbero disturbato quella atmosfera euforica e soddisfatta..”. Infatti, a mio avviso, la mancata affermazione e il successo dell’arte di Macréau sta subendo gli stessi ostacoli che per anni hanno intralciato la carriera di un altro artista francese “grande isolato”: Gaston Chaissac, del quale, finalmente oggi, 50 anni dopo la morte, nessuno più dubita. Credo che, in Francia e in Europa, sia ormai arrivato il momento giusto nel quale chi fino ad ora ha preteso onori e gloria per l’Opera di Michael Basquiat riconosca onori e gloria anche per l’Opera di Michel Macréau.
Per alcuni anni dopo gli avvenimenti sopra descritti, le nostre strade hanno preso sentieri diversi e non ci siamo più incrociati. Purtroppo lui è mancato nel 1995, ma io ho continuato a seguire il suo lavoro attraverso le mostre e le opere che incontravo sia in gallerie che nei Musei.
Ultimamente, dopo venti anni dalla sua scomparsa ho deciso che era giunto il momento di riproporre all’attenzione del mio pubblico e della critica le sue opere con questa succinta mostra. Che niente pretende se non di rendere omaggio ad un artista e ad un uomo che ha vissuto la sua vita nel pieno della sua arte. Ringrazio qui per il sostegno a questo mio progetto Claudie e Ludo Macréau, i sigg. Monique e Jacques Latournerie e Yan Ciret che ha scritto con la sua solita attenzione la prefazione a questo catalogo.   Roberto Peccolo, ottobre 2016


Reading a Legnano



SABATO 1 marzo 2014 alle ore 16
Museo Sutermeister di LEGNANO 
corso Garibaldi 225

un pomeriggio di reading di Poesia e Conversazione tra
Roberto Ferdani e Roberto Peccolo sul tema dei poeti e dei pittori nella
New York degli anni cinquanta: "O'Hara , Mike Goldberg e Norman Bluhm"

Ciao, Ettorino


Ettore Sordini, pittore nato a Milano nel 1934 é deceduto a Cagli (PU) il 27 ottobre 2012.

Sordini: che Emilio Villa aveva definito "Il più balengo e più eroico dei pittori d'alta quota",
e che Luciano Bianciardi chiamava "Ettorino" nel su libro "La vita agra". 
Ciao, Ettorino. 


Libri d’Artista


Recentemente ho sentito come uno sviluppo naturale del mio, più che quarantennale impegno di Gallerista (e di organizzatore di mostre), il desiderio di editare non soltanto delle monografie o dei cataloghi di mostre, cosa che normalmente in tutti questi anni passati ho sempre fatto, ma dei veri e propri Libri creati da un Artista.
In particolare, una sorta di Libro d’Artista che per ogni autore scelto fosse un giusto equilibrio fra il libro auto-biografico, o di narrazione aneddotica, e il “Libro/Oggetto” (quel tipo di libro che, al suo limite estremo, rischia di diventare una quasi scultura). Ho cominciato da poco più di 4 anni a realizzare ed editare questa mia serie di Libri Speciali, tutti con la medesima caratteristica di base. Ho tenuto costanti il formato, le 32 pagine, i caratteri, il colore e l’impostazione della copertina, lasciando l’interno alla totale libertà dell’artista nel decidere cosa inserire: solo immagini, solo testo, un misto fra testo e immagine.
Ho voluto chiamare questa collana "Memorie d’Artista". Ogni Libro è a tiratura limitata di 200 copie di cui:170 con numerazione araba e firmati dall’autore e 30 con numerazione romana (XXX) numerati e firmati dall’autore, ma contenenti una piccola opera originale, un intervento, un disegno, un segno, qualcosa che lo renda unico.
Fino a ora i Libri li ho proposti e organizzati in collaborazione con gli artisti con i quali sono più o meno a stretto contatto, penso che in futuro, però, inviterò anche artisti con cui non ho mai lavorato. L’unica richiesta che avanzo è che l’eventuale parte scritta e le immagini presenti nel Libro siano coerenti e interconnesse fra loro, ed entrambe siano sempre create in esclusiva dall’autore per la mia edizione.
Cerco di collocare questa serie di Libri in quel territorio intermedio della piccola editoria che presumo essere ancora libero e che sta fra quei volumi che nelle librerie si definiscono Libri sull’Arte o sugli Artisti, cioè quel genere di Libri che vanno da una piccola o grande monografia sull’autore, alla raccolta di scritti o teorie, fino a quelli che illustrano temi e argomenti delle varie correnti artistiche. Mi fermo, però, al limite di quei libri completamente elaborati di cui parlavo prima, cioè quel tipo di Libro/Oggetto che è talmente “costruito” da diventare quasi una scultura.
La mia idea, invece, è quella di riuscire a far parlare, confessare, l'artista attraverso il suo Libro: sia pittore o scultore o fotografo o designer (il territorio è talmente vasto!) il quale, anche se parla d’altro dall'arte, finisce pur sempre per parlare e descrivere, più o meno inconsciamente, quell’immaginario che intravede o che sente e che diviene, poi, parte inscindibile della sua opera.
L’intento è di fornire a chiunque prenda in mano questi Libri, la possibilità di leggere e magari vedere, i percorsi creativi che sottendono al lavoro dell’autore-artista, specie in quei suoi momenti di pausa e riflessione che precedono l’eventuale creazione del proprio lavoro. Una sorta di porta d’entrata socchiusa sull’intimità dell’atelier del costruttore - un furtivo sguardo nella caverna dell’Alchimista - prima che cominci la sua opera, oppure mentre riflette sul che fare? o su quello che vorrebbe fare, oppure sul cosa sto facendo?
Forse la definizione più azzeccata di questa mia idea diventerebbe più chiara se citassi il titolo della mostra che il Museo di Gallarate, agli inizi di quest'anno (2010), ha dedicato alla presentazione di una parte della Collezione Consolandi: "Cosa fa la mia anima mentre sto lavorando?"
Questo era il titolo di una delle opere in mostra, che mi ha dato l'ispirazione.
Alcuni degli artisti che hanno aderito alla mia proposta e di cui sono esposti e consultabili i Libri sinora editi qui sul blog, si sono cimentati usando le più disparate forme di scrittura: dal racconto biografico, alla Poesia, sino alla Poesia Concreta; dal Diario, agli Aforismi; oppure si sono inventati un dialogo su temi di cui erano rimasti affascinati e in alcuni casi hanno, appunto, scelto di disegnare soltanto con immagini il proprio libro.
Roberto Peccolo


http://edizionipeccolo.blogspot.com/


Un segno, una macchia arancione e poi...

febbraio 1997 - Cahiers d'Art

La grandezza e la forza espressiva della pittura americana del secondo dopoguerra, definita Espressionismo Astratto, è stata caratterizzata dalla ricerca di un linguaggio simbolico universale. Formata dalle opere di molti artisti operanti negli anni della guerra e per tutti gli anni cinquanta a New York, questa corrente pittorica verrà riconosciuta come marcatamente americana. Si cominciò a parlare allora, per la prima volta, di un’arte “americana” che si era finalmente affrancata dalla storia e dalle tradizioni artistiche europee e le opere di molti degli artisti della prima generazione “eroica” dell’epoca –basterebbe citare per tutti Pollock, Franz Kline e Rothko- offriranno a questa teoria, volutamente o non, il valido supporto.
Ma allo stesso tempo l’estenuante e forzata ricerca di un linguaggio simbolico universale ”americano” rivelerà anche la sua facile caducità in stilemi e nell’edonismo accademico che alla fine svuoterà le opere di ogni potenza creativa -stesso destino accadrà, in quegli anni, in Europa durante l’informale-. Ancora una volta uno stile sottraeva energia alla creatività. Ma il gigantismo culturale che fu messo in moto per sostenere e propagandare questa pittura finalmente “Americana”, nascondeva i piedi d’argilla e soffocava ogni dubbio. Fu la generazione che seguì in ordine di tempo, la cosiddetta “seconda” generazione della Scuola di New York, che, cercando di proseguire nella ricerca pittorica iniziata dalla precedente, cominciò ad accorgersene e dovette farsi carico delle conseguenze per trovare uno sviluppo alla propria strada. Come è potuta passare in silenzio la svolta decisiva di Phillip Guston, tra il 1959 e il 1960, dopo un viaggio in Italia -in Umbria a vedere gli affreschi di Luca Signorelli-, quando smise di dipingere quadri tipicamente “espressionismo astratto” (con i quali era diventato famoso) per approdare ad una pittura figurativa dal forte accento fumettistico e autobiografico ? Si trattava del tradimento di un eroe della prima generazione da tenere nel privato oppure del segnale eclatante di una crisi in atto che non conveniva e sarebbe stato meglio non pubblicizzare ?
Ė possibile che il solo Frank O’Hara -scrittore, critico d’arte e poeta- nel suo articolo del 1962 sulla rivista Art News, si fosse accorto della vera ragione della svolta di Guston ? Una crisi dei valori che anche Kimber Smith acutamente riconosceva in un’intervista pubblicata nel 1975 su Art Press. Smith, altro protagonista della seconda generazione, dal suo esilio a Parigi aveva la fortuna di poter guardare con più distanza e freddezza al problema: «...C’era a New York un movimento cosiddetto storico, l’Espressionismo Astratto, si cominciava un quadro senza un’idea precisa... unicamente un segno... una macchia arancione... e poi il pittore aggiunge, aggiunge, aggiunge fino a che non giudichi che è finito... e il risultato, il quadro, è una specie di storia “come si fa un quadro”... ossia l’arte di fare un quadro leggibile come un libro... In quell’epoca tutti dipingevano più o meno in questa maniera... c’erano quelli che riuscivano meglio degli altri, ma tutti i pittori erano influenzati dall’ Abstract Expressionism... poi arriva la Pop Art e molti pittori hanno cambiato per fare la Pop Art subito... altri hanno aspettato un pò per ritrovarsi più tardi nella Op Art... ma erano talmente tanti quelli che lavoravano sullo stile dell’Abstract Expressionism... e mi pare che si sia fermato tutto troppo presto e che non si sia mai sfruttato il massimo di questo metodo... ».
Esemplificativa del desiderio di libertà da schemi e della volontà di riallacciarsi alla Storia e ai tradizionali temi della pittura di sempre -la luce, il colore, lo spazio, il gesto, la rappresentazione, ecc. ecc.- è l’opera di altri due artisti newyorkesi degli anni cinquanta, non casualmente fraterni amici di O’Hara: Michael Goldberg e Norman Bluhm.
Proprio nelle opere sviluppate dalla fine degli anni settanta fino ad oggi da Mike Goldberg che, scegliendo di vivere, oltre che a New York, metà dell’anno nella sua casa-studio tra le colline senesi, arriva a dipingere quadri di impianto astratto sulla cui superficie si combinano una pittura gestuale di segno ancora “action-painting”, con evidenti memorie degli affreschi trecenteschi della Scuola Senese o dalle atmosfere pittoriche dei maestri del Manierismo rinascimentale fiorentino. Oppure, ancora più eclatante, nei giganteschi dipinti di Norman Bluhm che, dopo un periodo di produzione di quadri in tipico stile “Espressionismo Astratto”, rifugge ogni accademismo per giungere, negli ultimi due decenni a dipingere quadri dall’impianto coloristico e formale fortemente barocco. In gioventù aveva attentamente osservato e studiato le colorate vetrate delle Cattedrali francesi di Chartres e Notre Dame di Parigi, ma è stato l’incontro a Venezia con il ciclo degli affreschi del Tiepolo che hanno fatto riaffiorare nella sua fantasia le lontane origini russo-georgiane.
Una mistura che ha dato origine ai numerosi, incredibili, coloratissimi dipinti da lui realizzati durante gli anni ottanta.
Due tra gli innumerevoli artisti che continuano, lontani dal clamore della mondanità e della cronaca, a lavorare sui valori fondamentali della pittura e delle sue tormentate, storiche e intricate radici.
Norman e Mike e i loro dipinti « inesorabili prodotti del mio tempo », come li avrebbe definiti ancora oggi il loro amico Frank, se i giorni per lui non fossero andati via troppo veloci.
R.P.
(Testo pubblicato nella rivista Cahiers d’Art Italia n.19, gennaio-febbraio 1997)

La Poesia non segue le quotazioni della Borsa.

Per Luciano

Per chi lo conosceva incontrandolo sporadicamente durante le mostre, i concerti, al cinema o a teatro Luciano Botti appariva un uomo simpatico e ben informato sulle cose; una persona che coltivava le sue conoscenze sugli argomenti e sugli avvenimenti, qualsiasi fosse il campo artistico, insomma quello che, una volta, avrebbero definito un uomo di “cultura”. Infatti lui continuava ad aggiornarsi incessantemente, approfondiva le cose che conosceva già o ampliava quelle a cui iniziava ad interessarsi. Di questo suo atteggiamento ne è un esempio eclatante la decisione di pochi anni fa di seguire le lezioni sulla Musica e la sua Storia che il prof. Daniele Salvini teneva per l’Università della Terza Età nelle aule di una Scuola media non lontano da Piazza della Repubblica. Pur conoscendole seguiva con piacere le lezioni dedicate alle Opere (quella tale e specifica opera oppure sul tale concerto di Beethoven, o Chopin) perchè durante la lezione il pezzo musicale veniva analizzato in ogni sua componente tecnica e con un approccio da molteplici angolazioni e risvolti. Lo entusiasmava apprendere i segreti del lavoro del musicista e la tecnica da lui usata nella composizione, particolari che erano magistralmente spiegati grazie alle parole chiare dello stimato insegnante. Spesso rientrando dalla lezione si fermava a vedere la mostra che avevo in Galleria e mi rispiegava con entusiasmo quanto aveva appena appreso.

Ma oltre a tutte queste sue passioni aveva una qualità insostituibile: era un “goloso” e una persona curiosa che si lasciava coinvolgere totalmente e nel profondo dal quello che scopriva. Così nasceva il suo amore per i libri d’arte, da quelli contenenti litografie o incisioni, alle monografie sugli artisti di cui seguiva il lavoro, comprando persino più di un libro o di una monografia se un artista lo interessava. Mi ha raccontato che spesso arrivava perfino a restare sveglio, oppure caricava la sveglia ad una certa ora della notte, per registrare, quando sapeva che sui canali TV (in particolare la notte sul TV3) venivano messi in onda servizi o documentari su artisti che aveva nella sua raccolta o di cui voleva capire maggiormente il lavoro. Oppure voleva soltanto rivedere e possedere in VHS quel vecchio film che amava molto. Anch’io ho approfittato di queste sue ricerche insonni per chiedergli di registrarmi vecchi film o documentari. A causa di questa passione era arrivato a riempire tutta la libreria e parte del salotto di cassette VHS e poi DVD.
Oltre a quanto descritto sopra, come dimostra questa esposizione, era anche un appassionato collezionista di arte contemporanea. Talvolta compulsivo nel cercare di acquisire almeno un’opera di un artista che lo colpiva e anche più di una, in alcuni casi. Le sue passioni pittoriche sono transitate dalla pittura informale, dagli anni 50-60 in poi, a quella della Pop Art italiana, fino alle recenti generazioni del terzo millennio più Concettuali o di Trans-Avanguardia.
Naturalmente anche Luciano, come molti livornesi, aveva dovuto superare la vecchia tradizione provinciale della “figuratività” nel quadro, aveva passato differenti tappe e attraversato varie fasi nel gusto con conseguenze anche nella sua raccolta. A mio parere lo sentivo ancora troppo “legato” ad una costante: quella della “rappresentazione”. Ma meglio di tante spiegazioni filologiche o critiche sulla sua collezione ci sono qui, in questo catalogo organizzato dagli eredi e curato dal suo amico Ivo Lombardi, le immagini dei quadri a parlare e a dimostrare la qualità e l’oculatezza delle sue scelte. Quando cominciò a frequentare la mia galleria, dopo la prima metà degli anni ’70, aveva una particolare predilezione verso gli artisti della pittura e della grafica neo-Realista del dopoguerra o della Nuova Figurazione, in quel momento “impegnati”e ben considerati sia nelle mostre che sul mercato. Durante le nostre conversazioni di quegli anni cercavo spesso di fargli focalizzare lo sguardo sulle opere dei Futuristi d’anteguerra e degli Astrattisti Concreti, che avevo esposto un paio di anni prima, oppure sull’Arte Concettuale o Minimalista che stavo appunto esponendo allora.
Ma le sue perplessità spesso restavano inalterabili: trovava tali artisti troppo “freddi” per il suo carattere “mediterraneo” e quindi lontani dal suo gusto. Malgrado questo non mancava di visitare le mie mostre. E poi continuava a parlarmi delle sue preoccupazioni circa la forte e reale, prepotente presenza di un mercato che rischiava di modificare i “valori” sia artistici che economici di tanti autori. Specie di quelli che lui amava di più. Spesso nelle nostre conversazioni arrivavamo ad un punto morto, senza via d’uscita: lui si arroccava sulle proprie perplessità, mostrandomi le recensioni e le valutazioni del mercato di quel momento e asserendo che tutto questo avrebbe in seguito travisato anche la riscoperta di alcuni valori storici e artistici del passato. E io, messo alle strette dalle sue concrete, evidenti argomentazioni non riuscivo che a rispondergli: «attenzione, perché la Poesia non segue le quotazioni della Borsa!». A volte le nostre mi sembravano delle vere e proprie, e inutili, conversazioni sul “sesso degli angeli”. Oggi posso dire, col senno di poi, che sarebbe bastato aspettare alcuni anni per vedere tutto il panorama artistico circostante completamente mutato, col risultato di dare ragione ad entrambi (sic!).
Ma un Collezionista, specialmente di opere d’arte contemporanea, dovrebbe essere qualcosa di più della somma delle quotazioni delle opere da lui possedute. E Luciano Botti infine lo è stato; è andato ben oltre e più lontano dell’ostentazione dei “valori” economici che rappresentavano i suoi quadri.
Fatte le dovute differenze di economia, di tempi e di luogo (non si può ignorare che Luciano ha sempre vissuto a Livorno) apparteneva con pieno diritto e psicologicamente a quel livello di alto comportamento a cui appartengono tutti quei collezionisti che hanno passato la maggior parte della loro vita a inseguire e raccogliere ciò che più li appassiona dell’arte e degli artisti. E di conseguenza si sono affezionati sia alle opere che all’autore e, riguardandosi con orgoglio ogni oggetto acquisito, ne ricostruiscono le ragioni e le motivazioni che li hanno indirizzati. Rivivono con la stessa ansia o entusiasmo il momento della scoperta dell’opera che immaginavano essere essenziale per la loro raccolta, placandosi soltanto una volta trovata (sarebbe quasi da dire la “riconoscono”) e, economia permettendo, riescono finalmente ad “inserirla” nella raccolta. Ė come se nel loro inconscio esistesse una sorte di immaginaria “Biblioteca di Babele” alla Borges che continua a chiedergli di essere riempita, ”completata” scatenando quell’energia vitale, compulsiva, difficilmente controllabile. Niente a che fare con l’altro tipo di collezionista che ci viene sempre più spesso descritto negli articoli specialistici e sulle riviste “patinate” di questi ultimi anni, e perciò oggi più d’attualità, colui cioè che cerca di possedere il maggior numero di “capolavori”, di avere i Top Ten, della classifica redatta dalla rivista più “in” del momento. Seguendo una tale visione sarebbe più opportuno definire questi degli “investitori” più che dei collezionisti e la differenza tra queste due posizioni qui descritte, fra le tante altre, eventuali, linee di comportamento, è sostanziale. In un caso si ha la passione, l’ossessione, fino a rasentare, forse la “malattia”. Nell’altro si ha la scommessa (con la segreta speranza di incassare presto), il calcolo della probabilità e la contemplazione del proprio “patrimonio”, determinata dall’investimento fatto.
Nel primo caso l’insieme delle opere è la costruzione di una Collezione che appartiene al proprio vissuto e ricorda il tempo in cui abbiamo scoperto e poi cercato quel tale quadro o quell’artista. Dove, o con chi, o perchè e in quale occasione quella tale opera è stata poi acquistata. Insomma anche i momenti e le emozioni dedicate alla raccolta appartengono si alla sfera personale della propria vita ma si compenetrano con le ragioni dell’esistenza di quelle opere, ci accostano alla personalità che l’ha prodotta e fanno rivivere il tempo storico in cui essa è stata fatta. Tutto questo, nell’insieme (nell’intimità) della raccolta, costituisce una “presenza”, una testimonianze di vita, che diventa “palpabile”, all’unisono con le opere. Prestando attenzione la si può ritrovare, “sentire”, guardando in quello spazio vuoto del muro che sta tra un’opera e l’altra.
Così una raccolta (come tutte le raccolte che abbiano il diritto di un tale riconoscimento) è allo stesso tempo uno strumento (conscio o inconscio che sia) della propria visione del mondo, ossia della simpatia che portiamo verso altre visioni, o almeno della ricerca di condividere o di avvicinarci ad una o più visioni del mondo affini alla nostra o da cui ci lasciamo affascinare.
Uno degli esempi più eccezionali in tale direzione è la Collezione di sculture ambientali che Giuliano Gori ha “costruito” insieme con gli artisti nel Parco della sua Villa Celle a Pistoia.
Basta solo visitarla per capirlo.
Un particolare significativo di questo atteggiamento si ha quando, nel mostrarti la loro Collezione, qualunque sia il valore economico o l’importanza storica, dell’insieme delle opere, o di quel certo “capolavoro”che sta appeso insieme con gli altri, alcuni Collezionisti indicano invece più volentieri e come amata maggiormente, quell’altra opera dall’apparente aria dimessa che vediamo là isolata in un angolo. Quell’opera dimessa sembra dover sostenere il “capolavoro” mentre il “capolavoro” condivide con essa l’epoca, la tematica e magari la qualità. Come in ogni storia i fatti che appaiono minori non sono poi affatto insignificanti, anzi sono proprio quelli che spesso ci chiariscono meglio l’insieme. Entrambi sono “costituiti” inscindibilmente sia dai particolari che dai fatti eclatanti.
Chi non sente come essenziale questo punto avrà poi difficoltà a comprendere quanto la “storia” e la “cultura” siano due concetti la cui stessa esistenza e memoria è diventata oggi sempre più indispensabile. Specialmente in una società come quella odierna che sta basando tutti i suoi valori esistenziali solo sulle traballanti basi del denaro e dell’apparenza.
Nel concludere questo mio scritto nella duplice qualità di promotore per alcune, poche, presenze in questa Collezione e, oggi, nella veste di ospite sulle pareti della mia galleria che funge da sostitutivo alle pareti della casa dell’amico Luciano non posso che formulare un auspicio o quantomeno suggerire l’illusoria ipotesi che una tale raccolta anziché finire dispersa e nell’oblio, com’è capitato a tante altre cose nella nostra città, possa venire accolta, tenuta unita e ospitata in uno spazio aperto al pubblico e agli specialisti. E magari anche ulteriormente arricchita nel tempo per una migliore conoscenza per le prossime generazioni sugli avvenimenti culturali succedutisi nel nostro territorio. Realizzare questa idea non sarebbe poi un grande dispendio economico e di energie, in una città che da molti anni spende troppo e male per conservare e proteggere con premi, mostre e libri una cultura divenuta ormai il fantasma di se stessa e alla quale, oggi, non è rimasto altro che il vacuo orgoglio di dichiararsi un “prodotto del territorio”.
Collezionare opere d’arte contemporanea non è poi, in fondo, che l’arte di raccogliere parti della memoria personale inserita in una storia collettiva in via di formazione e quindi vissuta o appena passata. E, per di più, è la strada migliore per indicare ad ognuno di noi il dovere inappellabile di conservare prima per poter divulgare poi.
29.05.2010

Elegia per Antonio Carena

A piccoli pezzi la storia e gli amici intorno a noi
si "eclissano" dal visibile "cielo" sopra noi, per
consegnarsi al riconoscimento postumo.
"La Grande Illusione" era il titolo di un famoso film
di tanto tempo fa. Era anche il "leit motive" di intere
generazioni di artisti del secolo passato Oggi sarebbe
adatto per descrivere i motivi di quello che questi
"brandelli" di storia hanno fatto ? Forse no!
Non sarebbe onesto nei loro confronti, ma è grazie a
quella "Grande Illusione" in cui essi hanno creduto e vissuto
che a noi rimangono cose e pensieri poetici da ricordare con
piacere e nostalgia.
Ciao Antonio.

2009 - Sempre irritati con Winfred ?

Immer Ärger mit Winfred ? con questa domanda Manfred de la Motte, nel novembre del 1979, titolava un suo scritto introduttivo al catalogo della mostra di W.G. presso la Galleria Hennemann di Bonn. Il testo era accondiscendente con le opere di Gaul esposte, ma allo stesso tempo indicava alcune incongruenze nella consequenzialità del lavoro. Uno strano titolo, eppure i due erano amicissimi da lungo tempo, si conoscevano dal 1955 e già nel 1957 Manfred de la Motte aveva scritto sulle sue opere ‘informali’ e poi nel 1962, quando era divenuto il curatore per le mostre nella Haus am Waldsee di Berlino, lo aveva invitato ad esporre i suoi quadri nella storica mostra “Gegenwart bis ’62” [Attualità fino al ’62]. Due anni dopo, in occasione della Rassegna Annuale d’Arte Tedesca da lui organizzata nel 1964, gli aveva chiesto di esporre, all’esterno dell’entrata del Museo, il suo Hommage à Berlin, un’opera di grandi dimensioni della serie Verkehrszeichen & Signale [Segnali stradali & Segnali] .
Oggi in retrospettiva, passati ormai tanti anni da quelle storie e quindi con una visione più distesa posso ben capire, anche se non le condivido, le ragioni e la scelta, da parte di Manfred de la Motte, di quel titolo [Sempre irritati con Winfred ?]. Evidentemente lo aveva scelto per difendere Gaul dalle critiche che gli venivano continuamente rivolte sulla pretesa mancanza di coerenza e di consequenza nei lavori. Ma il riferimento finiva invece per mettere in risalto proprio la reazione di sorpresa, e a volte di irritazione, che la critica e il pubblico assumeva nei confronti della radicalità della ‘poetica’, spesso polemica e intransigente, con cui W.G. affrontava le serie contigue e contemporanee, o le trasformazioni stilistiche, tra le sue opere; per questo ritenute ‘spudorate’. Escluso alcune serie di opere, la ricezione di tante altre, realizzate da Gaul nel tempo, fu costantemente sottoposta al controllo del regime sulla ‘questione della coerenza’. (1)
Giovanissimo, Gaul, aveva partecipato al “Gruppe 53” di Düsseldorf, il primo gruppo di artisti tedeschi che si era riunito sotto quel nome per svecchiare, attraverso l’’informale’, la scena artistica e pittorica nella Germania della ricostruzione, dopo l’epoca nazista e le distruzioni della seconda guerra mondiale. Facevano parte di quel gruppo molti degli artisti che poi programmeranno tutta la propria carriera sulle affermazioni e le conferme, nell’Europa intera, di questo stile di pittura.
Ma dopo alcuni anni da quella fase, Gaul, si era staccato dai compagni di strada e ne aveva cercata un’altra più consona alla sua personalità. Ripeteva e scriveva continuamente, fino agli ultimi anni della sua vita, questa frase: « Non ho deciso di fare l’artista per annoiarmi e per annoiare anche gli altri ripetendo per tutta la vita le stesse formule ».
Una volta che riteneva di aver chiuso un ciclo, Winfred, era incapace di ripetere imperterrito e di continuare a dipingere, con lo stesso stile, ancora altri quadri. Forse superava così il timore di un agire ‘effimero’, vago e la paura di produrre un’arte ‘sterile’ legata solo alla produzione di cose senz’anima, che non avrebbero sicuramente più contenuto la sua iniziale carica di energia.
Questo era per lui un fondamentale principio a cui è rigorosamente rimasto fedele per tutta la vita.
Inoltre gli piaceva troppo realizzare e sperimentare, nello stesso anno, talvolta negli stessi giorni, o a distanza di pochi mesi una dall’altra, due serie diverse, distinte o contrapposte di quadri.
Gli esempi da citare sarebbero molti, forse tanti quante sono state le serie di opere che coprono tutta la sua produzione artistica. Ma vale la pena qui di citare i due momenti più ‘esemplari’: il primo riguarda la doppia serie di quadri realizzati tra il 1959 e il 1961 quali i Wischbilder [Quadri strusciati] e i Farbmanuskripte [Manoscritti colorati]. (2)
I Wischbilder, come dichiarava già il titolo, erano quadri ‘strusciati’, cioè tele su cui un colore, non il tipico olio da pittori, ma un colore volatile, industriale usato in tipografia, veniva distribuito strusciandolo con stracci sulla tela e lasciandolo colare o raccolto in ‘nuages’, o in ammassi nebbiosi, ottenuti da differenti passaggi, fino a creare un’impressione generale di monocroma trasparenza. Mentre invece nei Farbmanuskripte la tela era ricoperta da serrati gesti scritturali e fitte matasse di scarabocchi fatti usando pastelli colorati a olio o a cera fino a che l’intera superficie non diventava una sorta di palinsesto compatto, gremito di brulicanti segni colorati.
L’altro momento clou, esempio altrettanto eclatante e ‘significativo’del suo atteggiamento artistico, esplose durante la fase della ricerca nell’ambito della Pittura Analitica (1973-1983). Partecipare a quel momento insieme con tanti altri pittori, alcuni suoi coetanei come Raimund Girke, o altri di una generazione più giovane di lui, ma che stimava, non era soltanto ribellarsi come pittore al dominio dell’Arte Concettuale, che durante quegli anni imperversava in tutto il mondo artistico occidentale; parlare di Pittura, nei dogmatici anni ’70, era considerata una bestemmia. Ma era, per lui, sopra ogni cosa, la possibilità di poter realizzare, come asseriva riflettendo su Matisse: «… dei risultati [in pittura] attraverso il metodo analitico per avvicinarsi alla perfezione tentando sempre e nuovamente di dire tutto in un’unica linea ». (3) Infatti inizia tra il 1972-73 un’ampia serie di quadri dal titolo generale di Markierungen [Marchiature]. Dopo quasi 15 anni dalla serie parallela e contemporanea dei Wischbilder e Farbmanuskripte del 1959-61, Gaul ritorna, con una doppia serie contigua e contemporanea, a sperimentare su temi primari e ‘fondamentali’, analizzando radicalmente ‘sul campo’, cioè sulla tela, il ‘disegnare’e il ‘dipingere’. E riesce a ottenerlo, per essere molto più preciso, attraverso due serie di opere distinte e contrapposte tra loro: quelle dei quadri dal sottotitolo Zeichenmarkierungen [Marchiature di Segni] e Farbmarkierungen [Marchiature di Colore]. Nella serie Zeichenmarkierungen si impegna ad analizzare esclusivamente con diversi modi il metodo di tracciare una linea su di una superficie. Per realizzare questa serie utilizza solo pastelli a gesso e carboncino, tracciando, con questi, a mano libera, linee parallele ai margini della tela naturale, sempre grezza e non lavorata, solo preparata. Mentre nei Farbmarkierungen si impegna ad analizzare le diverse possibilità di distribuire un unico colore in modo da ottenere diverse e ampie campiture, sempre parallele tra loro, sulla tela preparata con lo stesso colore diluito. Per realizzare questa nuova serie usa sempre un unico colore distribuito sulla superficie con il rullo da imbianchino. La scelta della tela grezza di lino (del Belgio) e dei gesti minimi e primari del dipingere o disegnare sono la rivelazione di una ferma volontà di ricerca della povertà e semplicità in pittura, verrebbe da dire ‘francescana’, cioè: spogliare la pittura di tutti i fasti precedenti per renderla più umile e ‘sincera’ (come il novello frate Francesco di Assisi tentò con la Chiesa, lui lo tentava sul versante della pittura; una evidente contrapposizione allo stile Scìamanico sostenuto dal contemporaneo Beuys). Scavare con umiltà e severità nelle possibilità di operare su una superficie, restando sempre all’interno della pittura ‘dipinta’, per mettere in risalto la sacralità artigianale dell’atto creativo e rendere il manuale processo pittorico una disciplina dello spirito. Questa doppia serie di opere (realizzata tra il 1973-1978) venne esibita insieme, per la prima volta, nella mostra realizzata nel 1977, in due tempi separati, nella mia galleria di Colonia. La prima serie degli Zeichenmarkierungen fu esposta dal 18 marzo al 20 aprile mentre la seconda serie Farbmarkierungen dal 22 aprile al 18 maggio. Nel catalogo uno scritto di Gaul sulle intenzioni di lavoro. Alcuni di questi quadri furono poi esposti nel giugno dello stesso anno nella sezione Pittura della “documenta 6 ” a Kassel.

Winfred diventava particolarmente polemico e reagiva con sarcasmo quando il suo operare veniva criticato senza che nessuno si sforzasse di capire la necessità che aveva come artista, di girare l’angolo per andare a vedere oltre i limiti di quello che, pittoricamente, aveva appena raggiunto. Oppure quando, come spesso facevano i critici, anche quelli amici, tanto magnificavano la sua serie di quadri appena presentati, quanto rimanevano indifferenti, o denigravano, la serie che seguiva. Anche a me, quando gli chiedevo chiarimenti, rispondeva che sentiva impellente, indispensabile, allargare l’orizzonte di quello che faceva, o che aveva fatto, e allo stesso tempo aveva il desiderio di superarlo, di cercare altro da conoscere. Mi ripeteva, in opposizione a quanto credevo io, che nell’evoluzione della specie i ‘normali’ sono quelli che si estinguono, perché si fermano, mentre gli ‘irregolari’, nell’adattarsi, sopravvivono; e i ‘normali’, per non estinguersi, imparano dagli ‘irregolari’ a trovare nuove strade. Ogni volta che, facilmente o con sforzo, riusciva a realizzare una nuova serie di opere, l’orizzonte gli si spostava lasciandogli intravedere molti nuovi territori da scoprire. Sentiva impellente il richiamo di poter indagare il più ampiamente possibile nel panorama immenso della pittura ‘astratta’. E questo era il vero motivo che scatenava la sua ‘fame di quadri’. Aggiungere la propria sperimentazione pittorica alle tante esistenti (un’immensità spalancatasi già alla fine dell’800, con gli impressionisti prima e con l’astrattismo poi e che reputava un’eredità di esperienze valide ancora oggi) e riuscire ad aggiungerla a quelle realizzate dagli artisti che lo avevano preceduto nella pittura d’astrazione e che considerava come suoi progenitori, era, per lui, come affondare le proprie radici nella storia della pittura, meglio, nel susseguirsi storico dei quadri dipinti da quei pittori che lo avevano preceduto e che erano i suoi ‘fari’. Era rendersi partecipe di un corpus unico; essere un tutt’uno e all’unisono con una Storia della Pittura che aveva faticosamente individuato e che, capiva, essere diventata la sua. E, appunto, quando le sue idee non venivano comprese o accettate lo considerava come un tradimento nei suoi confronti; evidentemente, diceva, non hanno capito bene nemmeno tutte le potenzialità che erano già insite nella serie dei quadri fatti precedentemente. Winfred non è mai stato un carattere facile né diplomatico o accondiscendente anzi, specialmente nei confronti delle persone che stimava o amava, era particolarmente ‘esigente’, e talvolta era proprio ‘irritante’; ma quelli che superavano questo stadio e non si soffermavano solo alle apparenze superficiali, avevano il piacere di scoprire una forte personalità, passionale, anche sarcastica, ma sinceramente e profondamente dedicata alla ‘Pittura’, con tutta l’anima. Come un Maestro Zen pretendeva da sé stesso la massima onestà intellettuale e la prova dell’osservanza alle regole e alle teorie che riteneva dovessero essere percorribili fino al loro estremo limite; dopodichè considerava che ogni apertura e sperimentazione era indispensabile pur di placare l’insaziabile fame di un pittore che, amando profondamente la Pittura, ne voglia scoprire il più ampiamente tutte le possibilità. Naturalmente come monaco ortodosso era rispettoso della sua religione e ogni sua sperimentazione pittorica rimaneva, quindi, sempre nell’alveo della pittura d’astrazione e della riflessione sull’umile ‘mestiere’di pittore. Ma soprattutto prestava la massima attenzione quando capiva che le ricerche avevano trovato un loro stadio finale oltre il quale era inutile andare; oltre il quale tutto sarebbe diventato accademica ripetizione. D'altronde anche la sua amata pittura era con lui ‘spietatamente esigente’; almeno questo era quello che lui stesso doveva aver ‘sentito’, circa il suo ‘ruolo’ di creatore. Infatti un giorno arrivò a definirla: “Die Malerei ist eine eifersüchtige Geliebte” [La Pittura è un’amante gelosa]. Questo è il titolo di un libro d’artista che ha pubblicato con la Eremiten Presse nel 1992; ma che fu riedito in seguito, come capitolo, in “Schnappschüsse” [Istantanee] un altro libro d’artista, da me curato nel 2001 per la Morgana Ed. di Firenze, uno dei suoi ultimi libri. Veramente, solo per rispettare la verità dei fatti, il titolo originale, non fu tradotto letteralmente, ma divenne “La Pittura è un’amante esigente” e quando, prima d’andare in stampa, mostrai la traduzione a Winfred e gli spiegai le ragioni della ‘libera’ traduzione da: ‘gelosa’ a ‘esigente’, la differenza era così evidente e ne rimase talmente soddisfatto,tanto da dirmi che, se avesse potuto, avrebbe cambiato la parola usata nella prima versione tedesca.

Ma tornando al tema principale, qui annunciato, del rapporto tra il pittore e la pittura, quella sostenuta da Winfred nei confronti della sua pittura credo sia stata una lunga ed estenuante lotta tra le sue intuizioni, aspettative e prospettive di pittore-creatore e i risultati che riusciva a raggiungere attraverso la sua pittura-creatura. C’è stata una continua sfida, una battaglia senza tregua e senza esclusione di colpi da entrambe le parti. I continui rovesciamenti di campo e le innovazioni che ponevano ulteriori possibilità e differenti priorità continuavano a trascinare Winfred in un ingorgo, in certi momenti, inarrestabile sempre in bilico tra il precipitare e il riuscire a governare la barca della pittura ottenendo di non affondarla mai ma nemmeno di ormeggiarla abbandonata ad una facile, commerciabile, stanca ripetizione degli stilemi che aveva già realizzato al meglio nelle opere iniziali della serie. Un gorgo, una rotatoria, un giratoire infinito dal quale non era facile uscire né tanto meno riuscire a destreggiarsi all’interno. Se non con una rigida disciplina adattata di volta in volta, oppure con la continua rimessa in discussione dei risultati raggiunti ogni volta. Così finiva che la critica, non trovando il ‘bandolo della matassa’, continuava a non vederci chiaro e lui non si spiegava più di tanto. Su questa ‘impasse’ e sulla vecchia questione, riguardante la pretesa coerenza ‘a priori ’della consequenzialità delle opere, sopraggiunse l’interpretazione, finalmente illuminante, che Filiberto Menna diede sul suo lavoro nel presentarlo in catalogo nella mostra del 1979 alla Galleria Hennemann di Bonn: « La traccia, la scrittura, il disegno, la pittura. La pittura, il disegno, la scrittura, la traccia. La felicità del circolo, il tempo diverso dell’arte. Andata e ritorno contro il tempo lineare, unidirezionale e irreversibile della ‘cattiva infinità’ della storia e del progresso(…). Gaul (…). Con il suo temperamento analitico, autoriflessivo, rilegge e ripercorre a ritroso il proprio lavoro, ne individua le costanti al di là delle variazioni ». L’altro tra i pochi critici che, meglio di tanti altri, anche tedeschi, aveva capito la matrice sotterranea che stava all’interno di tutto l’operare di W.G. è stato Enrico Crispolti. Il titolo della sua presentazione alla mostra Antologica di Gaul alla Pinacoteca di Macerata del 1982 era: “W.Gaul: segno, disegno, traccia, pittura, memoria - (Opere su carta 1955-1982)”, ed era realmente un titolo ‘significativo’. Crispolti era suo amico di lunga data, dai tempi del soggiorno di due anni che Winfred fece a Roma (1960-61) dove aveva dipinto ed esposto, prima in una collettiva a La Tartaruga di Plinio De Martiis e poi nella personale del 1962 all’Attico di Sargentini, la serie dei quadri realizzati proprio a Roma, dai significativi titoli Oggetto Romano, Oggetto Mistico e Oggetto di Contemplazione (1961-62) (con il titolo, appunto, in lingua italiana). Questa serie è composta soltanto da circa una ventina di tele, molte delle quali tonde, dipinti monocromi, (un evidente, ulteriore sviluppo dei precedenti Wischbilder) con un segno di cerchio al centro, quasi come un bersaglio. La serie era stata esposta nell’ottobre del 1961 anche alla Galleria Blu di Milano, sempre con presentazione di Enrico Crispolti.
W.G. era nato il 9 luglio del 1928, sotto il Segno zodiacale del Cancro. (4)
Secondo quello che dichiara l’Astrologia la maggior parte dei nati sotto questo Segno sono sempre alla ricerca del grande amore a cui restano idealmente fedeli per tutta la vita, ma difficilmente mantengono ciò che conquistano: “Mutevolezza, inquietudine, inclinazione all’autoanalisi, intermittenza ed immaginazione li portano sempre altrove”. Questa ideale fedeltà alle passioni artistiche che lo avevano coinvolto sin da giovane studente, all’Accademia di Stoccarda, Winfred, se la porterà dentro, con sé, per tutta la vita pittorica. Lui confessava facilmente, non solo nelle conversazioni o negli scritti ma anche nelle sue opere, l’amore che aveva nei confronti della pittura creata da alcuni dei suoi artisti favoriti e che erano stati per lui fonte di ispirazione in gioventù, oppure momento di riflessione e conforto, a cui volgere lo sguardo, nei tempi di crisi: Monet, Turner e Matisse erano i nomi che ritornavano spesso, specie quando si faceva attento e riflessivo e intendeva parlare seriamente della sua ‘amata Pittura’.

Già i titoli di alcuni dei suoi quadri erano ‘dichiarazioni’: Incontro di Matisse e Mondrian nello studio di W. Gaul, in una tela del 1988; H. Matisse in Tangeri e Matisse in Collioure nel 2003. Oppure tutta la serie dei trittici e polittici dedicati a Monet durante il 1988: Claude Monet in Arizona; C.M. in Marokko; C.M. in Manhattan; C.M. in Cuzco; C.M. in Andalusia; e anche il bellissimo Dialog mit Henri Matisse [Dialogo con Henri Matisse]dello stesso anno.
È commovente la testimonianza da lui descritta, del lungo e costante amore per la pittura di Claude Monet, specialmente quando nella biografia (5) confessa il suo primo viaggio a Parigi nel 1953, da giovane studente d’Accademia, a vedere il ciclo delle “Nymphéas” di Monet, le grandi tele esposte all’Orangerie. E come dal ricordo di quelle opere, riconobbe, siano nati in seguito, quadri quali Abschied von Rembrandt [Addio a Rembrandt] 1956-57 nella collezione del Museo di Saarbrücken; e Pracht der Zerstörung [Sfarzo della Distruzione] 1957 oggi nella collezione della Kunsthalle di Mannheim e alcune tele della serie Couleur et Signification [Colore e Significato] 1958-59.
Il suo amore e la sua dedizione alla Pittura è stata totale e inarrestabile. Ne sono dimostrazione gli innumerevoli e bellissimi quadri da lui realizzati in 50 anni di carriera; e in una maniera più privata, ne sono testimonianza anch’io con l’aneddoto a cui ho personalmente ‘assistito’ da lontano.
Già ricoverato per neoplasia polmonare in una Clinica di Kaiserswerth per fare continue analisi ed estenuanti cicli di chemioterapia, lontana solo un centinaio di metri dalla sua abitazione, così mi scriveva in una lettera datata alcuni giorni prima della morte:
« 18.11.2003, Caro Roberto, nonostante tutti gli inconvenienti della Chemio sono riuscito, tornando in studio all’insaputa di tutti, a fare in 5 notti seguenti una serie di 50 fogli di formato 24x29 cm. Che tutti insieme farebbero un bel libro. Si tratta di soggettive interpretazioni, meno di un paesaggio che non di un ricordo delle sensazioni di luce e colori. Come titolo provvisorio ho scelto “Omaggio alle Langhe”, vedi anche altre varianti. Pensavo di aggiungere qualche testo di Cesare Pavese, che per quanto ne so è nato nelle Langhe (…) e con il permesso dell’editore potremmo (….). Speriamo che resisto ancora un pò. Ciao, Winfred».
Nel 1967 lo avevo contattato la prima volta scrivendogli una lettera, un paio d’anni prima di aprire la galleria, durante la fase in cui cercavo artisti con cui programmare una serie di mostre. Avevo visto delle immagini dei suoi quadri sfogliando cataloghi di mostre collettive degli anni 1959/64, sul tema Informale, lì avevo trovato pubblicati alcuni quadri dal tipico stile Informale ma che sembravano già avviati verso una pittura più monocroma. Infatti con questi quadri era presente nella mostra e nel catalogo della “documenta II” di Kassel del 1959; e con un Farbmanuskripte nel 1962 partecipò alla mostra “Schrift und Bild” allo Stedelijk Museum di Amsterdam, mostra che allora fece ‘epoca’. Invece nei cataloghi delle mostre “Alternative Attuali I” e “II” organizzate da Enrico Crispolti a L’Aquila, tra il 1962-64; e alla “I° Biennale di San Marino”, c’erano già, ben in risalto, le sue opere denominate Pop e facenti parte della sua serie dei Segnali stradali & Segnali. Così gli inviai una lettera esprimendo il mio entusiasmo per il suo lavoro e offrendogli la mia disponibilità a fare una sua mostra con quelle opere, una volta che avessi aperto il mio spazio. Pungente e ironico, com’era nel suo carattere, mi rispose incoraggiandomi e allo stesso tempo punzecchiandomi sul fatto che avevo l’intenzione di aprire una galleria d’avanguardia in una zona, a suo parere, da considerare ‘depressa’ e in più l’avevo scritta su una carta da lettere intestata “Antiquariato”(e scritta con caratteri gotici -sic!-). Negli anni che seguirono, su questa storia, ci siamo fatti un sacco di risate. Nel rispondermi fu comunque gentile e disponibile e promise di passare da Livorno a trovarmi durante il suo futuro viaggio a Roma, (6) dove aveva esposto e aveva amici, chiedendomi però di spedirgli i cataloghi delle mostre che avessi realizzato nel frattempo, per ‘controllare’ le concrete realizzazioni delle mie ‘utopie’(scrisse proprio così). Venne nell’estate del 1970, un anno dopo che avevo aperto la galleria, portandomi a far vedere 3-4 quadri che stava facendo quell’anno.


Il nostro fu un incontro che da subito diede inizio ad un’amicizia fraterna, che è durata fino alla sua morte, e per quanto mi riguarda dura ancora oggi. Quando l’ho conosciuto lui era già stato famoso per le sue opere della serie Segnali stradali & Segnali, le aveva esposte nei Musei più importanti e alcuni di questi lavori erano entrati nelle più prestigiose collezioni tedesche dell’epoca (quella di Ludwig, per esempio). Nel 1970 era stato segnalato, al 25° posto, nella speciale classifica sull’arte mondiale redatta per la rivista tedesca Capital, all’epoca la rivista europea più ‘in’, nell’articolo: “KunstKompass, Die 100 Großen”; articolo estratto da una specie di bollettino ciclostilato che circolava, per abbonamento, tra collezionisti, direttori di museo, critici d’arte e galleristi.
Il giornalista-critico d’arte, di Colonia, Willi Bongard stilava ogni anno una classifica dei 100 artisti più interessanti e progressivi sulla base: delle mostre svolte nei Musei più prestigiosi e nelle gallerie private più qualificate; delle acquisizioni nelle collezioni private o dei Musei in cui entravano le loro opere; delle riviste e giornali in cui venivano recensite le mostre o dei libri di Storia dell’Arte Moderna in cui venivano nominati i lavori. L’elenco di questa classifica era tenuto talmente in considerazione dagli addetti ai lavori che fu persino pubblicato in Italia a chiusura, come postfazione, nel libro di Gillo Dorfles: “Ultime tendenze dell’arte oggi ”, edito da Feltrinelli nel 1973. Persino Gerhard Richter, in una intervista di pochi anni dopo che era emigrato, dalla Germania dell’Est, a Düsseldorf affermava di aver guardato ai suoi quadri e di aver dipinto alcune opere simili a quelle di Winfred. (7)
Avere redatto questo mio dovuto ‘Omaggio a Winfred Gaul’; all’uomo, all’artista e alla sua pittura, non è stato, per me, senza emozione. Ripescare nella memoria i ricordi del caro amico di tante occasioni e serate passate insieme a parlare d’arte e pittura. Ripercorrere i numerosi incontri e l’amicizia che ci ha legato per tutti gli anni nei quali abbiamo lavorato insieme, collaborando e condividendo, di volta in volta, esaltazioni o delusioni, ma sempre nel rispetto reciproco.
Far riaffiorare frasi, avvenimenti e comportamenti che stavano lì da oltre 30 anni ad attendere di essere rivissuti e raccontati, spero sia servito, quantomeno per fornire, a chi non lo ha conosciuto, un’occasione per avvicinarsi a Winfred Gaul e alla sua pittura e, per chi lo ha conosciuto e stimato, l’opportunità di un ulteriore tributo d’ammirazione. (8)Infine a chiudere questa mia accorata ricostruzione degli eventi che hanno riguardato la sua vita, le sue opere e la sua personalità, mi piace molto inserire questa citazione dal tono sottilmente raffinato e sarcastico, che Manfred de la Motte aveva tratto da una pagina di James Joyce e usata come apertura del suo scritto per un catalogo di W.G. del 1957. Una ‘frase’ che considero, ancora oggi, fortemente inerente e significativa sullo ‘spirito’ del lavoro di Winfred o dei pochi artisti come lui. Basterebbe da sola a illuminarne, di una particolare luce, tutta l’opera. Ed è anche per questo che trovo giusto inserirla come finale:

« L’artista sta, come il Dio della creazione
dentro o dietro, al di là o al di sopra della
sua opera, è invisibile, raffinato, indifferente,
…e si pulisce le unghie.»

(James Joyce)

R.P. febbraio 2009


Note:
1- Oggi questa è una ‘questione’ inesistente, completamente fuori luogo. Da quando il post-moderno prima e il terzo millennio poi, ci hanno abituati ad entrare nella personale di un artista, specialmente se giovane, e trovare contemporaneamente esposto, sulle pareti e nelle stanze della galleria, le cose più disparate: foto, disegni, luci, oggetti, sculture, video, light-box, cibachrome, grandi o piccoli dipinti, figurativi e astratti. Vediamo una installazione multimediale prodotta negli stessi momenti e proposta tutta insieme, magari con una ambientazione apparentemente casuale e, come tale, la accettiamo. Nessuno chiederà mai di sottoporre l’autore al test sulla ‘coerenza’, casomai in alcuni casi, viste le immagini presenti sulle opere, al test anti-doping. Il mondo odierno ci ha ormai definitivamente vaccinati e allontanati dalla ricerca a tutti i costi del valore della coerenza in arte. Come avviene da tempo nel mondo della musica leggera, così è oggi nelle arti figurative: perfino le ‘cover’ quando sono riproposte, anche senza alcuna modifica o alterazione, vengono tacitamente accettate e, addirittura, ne attribuiamo la gloria e il merito a colui che le ha ri-presentate.

2- Rolf Lauter analizzando le opere di W.G. di questo periodo (1959-61) intitolava il suo scritto “W.G. o l’inizio della Pittura Analitica”. In: W.G. opere degli anni 1953-1961, Edizioni Roberto Peccolo, Livorno n.2, febbraio 1987


3- W.G. Parlando di Matisse in “Dialog mit Claude Monet” (Dialogo con Claude Monet -opere 1982-88)
Catalogo Galerie Mühlenbusch, Düsseldorf, 1989.

4- Elisabetta Longari, “W.G. Ritratto Umorale” capitolo: Il Cancro e l’amore, in “Con Amore”, Ritratti Monografici, Edizioni Roberto Peccolo, Livorno, giugno 1992. Riedito in: “W.G. Werkverzeichnis Band II -Gemälde 1962-1983 (Catalogo Generale Vol.II –Dipinti 1962-1983). Concept Verlag, Düsseldorf 1993.

5- W.G. “Dialog mit Claude Monet”. Op.cit.

6- W.G. amava molto l’Italia dove veniva, appena gli era possibile, per mostre e vacanze. Ha anche vissuto per lunghi periodi in Italia dove ha affittato casa: negli anni ’60 per 2 anni a Roma, in Liguria a Genova-Boccadasse per oltre 1 anno, e a S.Andrea di Rovereto vicino a Chiavari, per oltre 6 anni. Ne sono esemplari queste due lettere dal tono e dall’umore completamente contrapposte. Il 30.11.2002 in occasione della mostra: “La Galleria del Deposito” al Museo di Villa Croce di Genova aveva inviato questa dichiarazione, ora pubblicata nel catalogo della mostra: « Il mio legame con l'Italia risale ad un lontano passato. Non fu però la tradizionale nostalgia del ceto colto tedesco per le testimonianze dell'antichità a spingermi nel "paese dove fioriscono i limoni", ma il fatto che già all'inizio della mia carriera di pittore trovai critici, galleristi, collezionisti a Milano, Roma, più tardi – poi – a Genova, Livorno, Firenze e Torino che trovavano i miei quadri abbastanza interessanti da esporli ed acquistarli. Il primo passo lo fece il leggendario pioniere dell'avanguardia in Italia, Guido Le Noci, con una mostra personale alla Galleria Apollinaire di Milano nel 1957. Avevo lasciato l'Accademia d'Arte solo due anni prima. In quell'occasione feci anche la conoscenza di Panza di Biumo e della sua grandiosa collezione dei grandi Action-Painters americani. In seguito ebbi molti contatti facendo amicizie, quindi per tanti anni passai spesso più tempo in Italia che non nel mio paese. Così m'invitarono anche a Genova-Boccadasse,(dove ho vissuto per 2 anni) e dove Eugenio Carmi e Paolo Minetti dirigevano la Galleria del Deposito e contemporaneamente un laboratorio ed un'edizione per grafica originale che collaboravano con molti artisti. Tutti erano allora spronati dallo slancio idealistico che l'arte non doveva più essere un privilegio per pochi fortunati, bensì accessibile per chiunque. Mancavano ancora alcuni anni al 1968: non una rivoluzione, ma almeno un pensiero rivoluzionario ». Soltanto negli ultimi tempi era sempre più deluso dal nostro paese e non solo dall’ambiente artistico. Tono e umore totalmente diversi nella lettera che mi scriveva nell’agosto 2003: « …..Dopo questa esperienza con un Museo italiano devo dirti che il mio progetto di lasciare alcune opere a Musei italiani è cancellato per sempre…. So benissimo cosa mi rispondi: reagisco esagerato e senza conoscenza della realtà italiana. Lo so, ma non mi frega un c…. della burocrazia borbonica italiana. Tu sai benissimo quanto forte era il mio legame con l’Italia una volta e per tanti anni. In Italia avevo i miei primi successi artistici. Amavo l’Italia: il paese, la cucina, i testimoni di una grande storia, i grandi pittori da Giotto a Piero della Francesca, da Mantenga a Tiziano. Italia era per me la prima scoperta oltre confine, una terra sconosciuta, un’altra lingua, un altro ritmo di vivere, un’altra mentalità. Ma stranamente mi sentivo a mio agio. Oggi come oggi mi domando se quell’Italia che amavo avrebbe (sic!) mai esistito oppure esisteva solo nella mia fantasia ?.... ».

7- Gerhard Richter, “La pratica quotidiana della pittura” Ed. Postmedia Books, pp.15-16.

8- Rileggendo l’ultima stesura di queste pagine mi sono reso conto del fatto che attraverso le pratiche informazioni inerenti a date di mostre, titoli di quadri, descrizione di avvenimenti e incontri nell’ambiente dell’arte, insieme agli aneddoti sulla vita privata di W.G., ho, forse, fornito al lettore una maggiore informazione per comprenderne la personalità e il lavoro; ma mi sono accorto anche di aver ripetutamente insistito sui temi delle sue intenzioni artistiche, delle sue ossessioni sul ‘dipingere’ e sulle sue fobie riguardanti la ricezione delle opere realizzate. Forse ho pedantemente rischiato una fraseologia ossessionante ma avevo solo questa possibilità per ricostruire un ‘clima’, i timori, i ‘fantasmi’, le ossessioni, appunto, che permangono nello studio di ogni artista, prima, durante e dopo che ha compiuto il suo lavoro. Come cantava la splendida voce di Billie Holiday in ‘Body & Soul’: “senza uno, l’altro non sopravvive e l’altro, senza l’uno, non esiste”; così, parafrasando la canzone, dopo la scomparsa di un artista, se è l’insieme dei quadri lasciati, che siano appesi nei Musei o sulle nostre pareti oppure seppelliti in un qualche deposito, l’unica cosa ‘tangibile’a formare, alla fin fine, il ‘Body’[il Corpo] di tutta la sua Opera. Sarà però il ‘Soul’[l’Anima] l’unica cosa ‘reale’, palpitante, senza la quale non riusciremo a ‘comprendere’ pienamente l’intera portata di quella ‘energia’ che da secoli l’uomo definisce Arte. Le opere restano là, appese o meno, e il loro ‘Soul’ ci accompagna ovunque. È la memoria di chi resta che perpetua le idee degli scomparsi. Perciò non sono mai stato ‘irritato’ con Winfred, ed ecco perchè ho deciso di non modificare o ‘alleggerire’ questo scritto.