Un segno, una macchia arancione e poi...

febbraio 1997 - Cahiers d'Art

La grandezza e la forza espressiva della pittura americana del secondo dopoguerra, definita Espressionismo Astratto, è stata caratterizzata dalla ricerca di un linguaggio simbolico universale. Formata dalle opere di molti artisti operanti negli anni della guerra e per tutti gli anni cinquanta a New York, questa corrente pittorica verrà riconosciuta come marcatamente americana. Si cominciò a parlare allora, per la prima volta, di un’arte “americana” che si era finalmente affrancata dalla storia e dalle tradizioni artistiche europee e le opere di molti degli artisti della prima generazione “eroica” dell’epoca –basterebbe citare per tutti Pollock, Franz Kline e Rothko- offriranno a questa teoria, volutamente o non, il valido supporto.
Ma allo stesso tempo l’estenuante e forzata ricerca di un linguaggio simbolico universale ”americano” rivelerà anche la sua facile caducità in stilemi e nell’edonismo accademico che alla fine svuoterà le opere di ogni potenza creativa -stesso destino accadrà, in quegli anni, in Europa durante l’informale-. Ancora una volta uno stile sottraeva energia alla creatività. Ma il gigantismo culturale che fu messo in moto per sostenere e propagandare questa pittura finalmente “Americana”, nascondeva i piedi d’argilla e soffocava ogni dubbio. Fu la generazione che seguì in ordine di tempo, la cosiddetta “seconda” generazione della Scuola di New York, che, cercando di proseguire nella ricerca pittorica iniziata dalla precedente, cominciò ad accorgersene e dovette farsi carico delle conseguenze per trovare uno sviluppo alla propria strada. Come è potuta passare in silenzio la svolta decisiva di Phillip Guston, tra il 1959 e il 1960, dopo un viaggio in Italia -in Umbria a vedere gli affreschi di Luca Signorelli-, quando smise di dipingere quadri tipicamente “espressionismo astratto” (con i quali era diventato famoso) per approdare ad una pittura figurativa dal forte accento fumettistico e autobiografico ? Si trattava del tradimento di un eroe della prima generazione da tenere nel privato oppure del segnale eclatante di una crisi in atto che non conveniva e sarebbe stato meglio non pubblicizzare ?
Ė possibile che il solo Frank O’Hara -scrittore, critico d’arte e poeta- nel suo articolo del 1962 sulla rivista Art News, si fosse accorto della vera ragione della svolta di Guston ? Una crisi dei valori che anche Kimber Smith acutamente riconosceva in un’intervista pubblicata nel 1975 su Art Press. Smith, altro protagonista della seconda generazione, dal suo esilio a Parigi aveva la fortuna di poter guardare con più distanza e freddezza al problema: «...C’era a New York un movimento cosiddetto storico, l’Espressionismo Astratto, si cominciava un quadro senza un’idea precisa... unicamente un segno... una macchia arancione... e poi il pittore aggiunge, aggiunge, aggiunge fino a che non giudichi che è finito... e il risultato, il quadro, è una specie di storia “come si fa un quadro”... ossia l’arte di fare un quadro leggibile come un libro... In quell’epoca tutti dipingevano più o meno in questa maniera... c’erano quelli che riuscivano meglio degli altri, ma tutti i pittori erano influenzati dall’ Abstract Expressionism... poi arriva la Pop Art e molti pittori hanno cambiato per fare la Pop Art subito... altri hanno aspettato un pò per ritrovarsi più tardi nella Op Art... ma erano talmente tanti quelli che lavoravano sullo stile dell’Abstract Expressionism... e mi pare che si sia fermato tutto troppo presto e che non si sia mai sfruttato il massimo di questo metodo... ».
Esemplificativa del desiderio di libertà da schemi e della volontà di riallacciarsi alla Storia e ai tradizionali temi della pittura di sempre -la luce, il colore, lo spazio, il gesto, la rappresentazione, ecc. ecc.- è l’opera di altri due artisti newyorkesi degli anni cinquanta, non casualmente fraterni amici di O’Hara: Michael Goldberg e Norman Bluhm.
Proprio nelle opere sviluppate dalla fine degli anni settanta fino ad oggi da Mike Goldberg che, scegliendo di vivere, oltre che a New York, metà dell’anno nella sua casa-studio tra le colline senesi, arriva a dipingere quadri di impianto astratto sulla cui superficie si combinano una pittura gestuale di segno ancora “action-painting”, con evidenti memorie degli affreschi trecenteschi della Scuola Senese o dalle atmosfere pittoriche dei maestri del Manierismo rinascimentale fiorentino. Oppure, ancora più eclatante, nei giganteschi dipinti di Norman Bluhm che, dopo un periodo di produzione di quadri in tipico stile “Espressionismo Astratto”, rifugge ogni accademismo per giungere, negli ultimi due decenni a dipingere quadri dall’impianto coloristico e formale fortemente barocco. In gioventù aveva attentamente osservato e studiato le colorate vetrate delle Cattedrali francesi di Chartres e Notre Dame di Parigi, ma è stato l’incontro a Venezia con il ciclo degli affreschi del Tiepolo che hanno fatto riaffiorare nella sua fantasia le lontane origini russo-georgiane.
Una mistura che ha dato origine ai numerosi, incredibili, coloratissimi dipinti da lui realizzati durante gli anni ottanta.
Due tra gli innumerevoli artisti che continuano, lontani dal clamore della mondanità e della cronaca, a lavorare sui valori fondamentali della pittura e delle sue tormentate, storiche e intricate radici.
Norman e Mike e i loro dipinti « inesorabili prodotti del mio tempo », come li avrebbe definiti ancora oggi il loro amico Frank, se i giorni per lui non fossero andati via troppo veloci.
R.P.
(Testo pubblicato nella rivista Cahiers d’Art Italia n.19, gennaio-febbraio 1997)