Sulle tracce di un artista

Michel MACREAU


La prime opere che ho visto di Michel Macréau sono stati due grandi quadri che misuravano cm. 195x130 “La Femme du Monde 1961” e “La faune humaine” del 1962, erano nella cantina del prestigioso collezionista e artista Guglielmo Achille Cavellini, nella sua villa di via Bonomelli a Brescia. Aveva venduto la villa e doveva renderla libera per trasferirsi in un piccolo e per lui più comodo appartamento in centro; nel frattempo aveva già liquidato la maggior parte della sua famosa e prestigiosa collezione, cominciando dalle opere più importanti. La sua era stata una collezione che aveva fatto epoca e che aveva ricevuto molti onori ed esposta nei maggiori e più prestigiosi Musei Europei sino dagli anni ’60. L’aveva formata girando l’Europa e raccogliendo oltre un migliaio di capolavori internazionali dell’arte moderna e contemporanea che coprivano l’intero arco di tempo: dall’iniziale Gruppo degli Otto e gli Informali del dopoguerra (tra i quali grandi lavori di Burri, Fontana, Rauschenberg, ecc.), su fino ai protagonisti dell’Arte Concettuale e Fluxus che in quegli anni erano in grande “auge”. Aveva preso quella drastica decisione economica  per ottenere un capitale utile a sostenerlo e potersi liberamente concentrare sulla sua sincera passione d’artista e nell’ideale in cui credeva: la  propria “Autostoricizzazione”. Questo gli avrebbe permesso di realizzare, senza impellenze  un'ampia produzione di opere e di realizzare gli indispensabili libri, cataloghi e monografie utili alla diffusione del suo ideale. 
Dunque nel settembre del 1983 ci eravamo sentiti al telefono e mi aveva invitato a vedere se tra le opere  ancora disponibili rimaste nella cantina che doveva sgomberare, ci fossero dei quadri che potevano interessarmi, utili per le mostre che facevo in quegli anni.
Fu in quella occasione che insieme con i due Macreau vidi anche 7-8 grandi quadri della serie dei “palimpsesti” degli anni ’60 di Georges Noël e una diecina tra carte e tele di Phillip Martin, oltre ad alcuni piccoli quadri di altri autori in quel momento fuori mercato. Così decidemmo di fare tutto un blocco d’insieme e mi portai le opere a Livorno. Sui tre artisti Cavellini mi aveva dato ampie informazioni dicendomi dove e come li aveva incontrati, durante quei primi anni ‘60 in cui girava per le gallerie parigine, e da chi aveva comprato quei quadri. Perciò, con l’idea di fare mostre con quegli autori e le loro opere, da allora cominciai a fare ricerche sugli artisti che in quel momento qui in Italia quasi nessuno ricordava. Di Georges Noël ricevetti presto notizie e informazioni anche da Paul Facchetti (storico gallerista parigino di origine bergamasca –si deve alla sua galleria, lo Studio Facchetti che aveva aperto a Parigi nel 1951, la prima mostra nel 1952 di Jackson Pollock in Europa). Così potei prendere contatto con Noël e cominciare a collaborare con lui direttamente esponendo in diverse mostre i quadri che avevo e in seguito anche le sue opere recenti, cosa che abbiamo continuato a fare fino alla sua scomparsa nel 2011.
Di Phillip Martin, il Cavellini mi aveva dato ampie informazioni e una serie di articoli che aveva scritto su di lui in libri e riviste, ma non sapeva darmi notizie più attuali. Ricevevo invece sporadiche notizie dai vari galleristi italiani e francesi dove era passato ed aveva esposto: Venezia, Firenze, Milano, Parigi. Ma ognuno alla fine non sapeva dirmi dove era andato a stabilirsi. Soltanto Rudolf Stadler, lo storico gallerista di Rue de Seine a Parigi, ricordandosi che era passato da lui recentemente, mi procurò gentilmente un indirizzo in Australia dicendomi che l’artista, pare, fosse andato a vivere là per ritirarsi completamente dalla scena artistica internazionale di cui si era stancato. Anche con Phillip Martin ho intrapreso una relazione epistolare invitandolo più volte a venire in Toscana per esporre da me, ma alla fine, purtroppo, non siamo mai riusciti a realizzare la nostra collaborazione e il mio progetto.
Mi rimanevano soltanto i due misteriosi quadri, dipinti con forte espressività quasi primitiva e dalla figurazione selvaggia che mi ricordavano, per certi particolari, gli artisti “outsider” dell’ Art Brut. Così cominciai a fare domande soprattutto tra i galleristi parigini e qualcosa si schiarì quando qualcuno mi disse di rivolgermi a M.me Cerez Franco che aveva una galleria, “L’oeil-de-boeuf” in Rue Quincampoix , vicino al Centre Pompidou, dove esponeva artisti sud americani e dell’Art Brut, pare che avesse fatto un paio di mostre a lui nel 1967 e 1974.
Quando entrando in galleria chiesi alla gentile signora di mezza età che era dietro al banco notizie di Macréau, la signora Franco si illuminò dicendomi subito che lo stimava come uno dei grandi artisti della giovane scena artistica parigina dei primi anni ’60, ma che poi lo aveva perso di vista perché si era stabilito nel centro della Francia in un paesino e non si era fatto più vedere da anni; ma gentilmente mi regalò tutta una serie di dépliant e cataloghini di personali o collettive dove erano riprodotti quadri di Macréau. Non era molto, ma finalmente una traccia da seguire. Fu solo qualche tempo dopo, girando per le vetrine di antiquari e gallerie di Rue Guenegaud (una parallela di Rue de Seine, nel quartiere latino) in attesa di andare ad una inaugurazione, mentre stavo ammirando la vetrina di un antiquario dove c’erano esposti dei bellissimi vetri Gallé e Daum, che intravidi appeso ad una parete un quadro che a prima vista mi ricordava le opere che avevo di Macréau, così entrai e dal fondo avanzò una anziana signora dall’aspetto molto signorile che mi chiese cosa mi interessasse. Gli domandai se quel quadro appeso era un’opera di Macréau e lei si meravigliò molto perché non si aspettava che conoscessi il nome dell’artista, e soprattutto che mi interessassi a lui in quanto gallerista straniero. Finimmo per parlare di Macréau, ma mi disse subito che non voleva vendere quell’opera a cui era molto affezionata, comunque mi mostrò 4-5 lavori su carta degli anni ’60 che gli erano rimasti e che acquistai facilmente per il prezzo sin troppo ragionevole. Quella gentile signora si chiamava Henriette Legendre e aveva avuto una galleria che aveva fatto storia nella Parigi degli anni ‘50/60 e proprio in quegli anni aveva esposto Macréau. Ma aveva anche tenuto a battesimo con le loro prime personali, alcuni dei futuri protagonisti del Novo-Realismo parigino. E fu proprio lei, visto l’entusiasmo con cui parlavo delle opere di Macréau, che mi dette un indirizzo e un numero di telefono. Fu così che un anno dopo andai a trovare, nel cuore della Francia, Michel e Claudie Macréau che con i loro tre giovani figli abitavano in campagna ai limiti di una folta boscaglia, in una vecchia casa di contadini riadattata da un vecchio fienile, nel quale era stato ricavato lo studio di Michel Macréau. Nel frattempo Georg Nothelfer un prestigioso gallerista internazionale di Berlino, anche lui appassionato di arte dalla forte connotazione espressionista, aveva comprato i miei due quadri ed aveva fatto nella sua sede di Berlino una buona mostra di Macreau con un bel catalogo. E un’altra galleria di Parigi, la Barbier-Belz, aveva cominciato a lavorare con lui e lo aveva esposto sia in galleria che alla prestigiosa fiera d’arte FIAC del 1989.
Claudie e Michel Macréau vennero a Livorno per l’inaugurazione della mostra personale che finalmente ero riuscito a realizzare nell’ottobre del 1989, e per me, come per loro, fu una bella festa di vernissage. E quando nel settembre del 1994 organizzai nel Palazzo Martinengo a Brescia la mostra “Un certain regard, il ritorno di una grande pittura francese fuori corrente” avevo predisposto che la sala con i suoi quadri fosse a diretto confronto con quella contenente le opere di Robert Combas, proprio per evidenziare l’affinità brutale tra le due opere ma anche il contrasto sia generazionale esistente tra i due (Combas è del 1957 e Macréau del 1935), che gli intenti di lavoro. Mentre il brutalismo di Combas, a mio avviso, proveniva dal mondo dei comics, dai graffiti delle strade, dalla horror vacui della  fitta decorazione a tappeto utile e riempitiva degli spazi e dei personaggi descritti nel quadro, quello di Macréau, secondo me, proveniva inizialmente dagli incubi provocati dall’abbruttimento causato da una “vita difficile”, dall’abuso di alcool o droghe che poi in seguito lui decantò nella narrazione di avvenimenti del quotidiano, di riferimenti alle favole popolari e alle fantasticherie di vita agreste, rustica. Ma era evidente che la sua pittura era impregnata di cultura visiva europea, francese; in particolare dal “segno” delle ceramiche e delle incisioni di Picasso e dal “colore” di Matisse. La narrazione in lui era sempre favolistica e fantasmagorica, inscenata si, su una superficie ma mai piattamente decorativa, nei suoi quadri c’era sempre, leggibile, una storia di vita vissuta o immaginata tale. In Macréau c’era la “coscienza” di essere artista e la volontà di esprimere nell’opera i suoi sentimenti siano essi stati brutali o euforici. Questo particolare determina la fondamentale differenza e distanza della sua opera nei confronti degli artisti dell’Art Brut che tanto piacevano a Dubuffet. 
Come pure con gli artisti metropolitani newyorkesi  più recenti. Il riferimento e il confronto visivo e formale con le opere milionarie di Basquiat sarebbe qui fin troppo facile ma altrettanto inutile. I loro due mondi, due visioni dell’opera e della narrazione artistica, credo, che siano diametralmente opposti. L’uno ha sempre esaltato l’immagine del degrado metropolitano e della brutalità di quartieri newyorkesi quali il Bronx e il Queen, ma anche le insegne di Broadway e le mille luci colorate di Times Square e la rapida ascesa del suo successo di mercato era dovuto alla frequentazione della cerchia di Andy Warhol ma anche dagli abili brokers, che stavano dietro l’angolo, a Wall Street, sempre rapidi nel cercare investimenti redditizi. Macréau, invece si manterrà volutamente il semplice narratore di favole e di sentimenti rustici e naturali  sinceramente legati alla madre terra. Le sue opere, in Francia, saranno troppo spesso incluse nella cerchia degli artisti della “Figurazione” o dell’”Art Brut”. E la mancanza di successo delle sue opere sul mercato ritengo sia dovuto allo scellerato sistema, autoreferenziale, del mercato d’arte parigino, di cui perfino Pierre Restany, a metà degli anni ‘60 si lamentava, quando scrisse: “La Galerie de France, un nome predestinato, vendeva, a due passi dalla boutique di Hermès, sul Faubourg St. Honoré l’articolo di Parigi, in pittura, di cui aveva il marchio depositato. Insomma l’arte della "Êcole de Paris", infischiandosene altamente di quello che succedeva a New York, o altrove, se la passava bene. Un po’ troppo bene. Così non si avvidero dei colpi di mano in serie. Di tutta una serie di colpi di mano che poco dopo avrebbero disturbato quella atmosfera euforica e soddisfatta..”. Infatti, a mio avviso, la mancata affermazione e il successo dell’arte di Macréau sta subendo gli stessi ostacoli che per anni hanno intralciato la carriera di un altro artista francese “grande isolato”: Gaston Chaissac, del quale, finalmente oggi, 50 anni dopo la morte, nessuno più dubita. Credo che, in Francia e in Europa, sia ormai arrivato il momento giusto nel quale chi fino ad ora ha preteso onori e gloria per l’Opera di Michael Basquiat riconosca onori e gloria anche per l’Opera di Michel Macréau.
Per alcuni anni dopo gli avvenimenti sopra descritti, le nostre strade hanno preso sentieri diversi e non ci siamo più incrociati. Purtroppo lui è mancato nel 1995, ma io ho continuato a seguire il suo lavoro attraverso le mostre e le opere che incontravo sia in gallerie che nei Musei.
Ultimamente, dopo venti anni dalla sua scomparsa ho deciso che era giunto il momento di riproporre all’attenzione del mio pubblico e della critica le sue opere con questa succinta mostra. Che niente pretende se non di rendere omaggio ad un artista e ad un uomo che ha vissuto la sua vita nel pieno della sua arte. Ringrazio qui per il sostegno a questo mio progetto Claudie e Ludo Macréau, i sigg. Monique e Jacques Latournerie e Yan Ciret che ha scritto con la sua solita attenzione la prefazione a questo catalogo.   Roberto Peccolo, ottobre 2016