2009 - Sempre irritati con Winfred ?

Immer Ärger mit Winfred ? con questa domanda Manfred de la Motte, nel novembre del 1979, titolava un suo scritto introduttivo al catalogo della mostra di W.G. presso la Galleria Hennemann di Bonn. Il testo era accondiscendente con le opere di Gaul esposte, ma allo stesso tempo indicava alcune incongruenze nella consequenzialità del lavoro. Uno strano titolo, eppure i due erano amicissimi da lungo tempo, si conoscevano dal 1955 e già nel 1957 Manfred de la Motte aveva scritto sulle sue opere ‘informali’ e poi nel 1962, quando era divenuto il curatore per le mostre nella Haus am Waldsee di Berlino, lo aveva invitato ad esporre i suoi quadri nella storica mostra “Gegenwart bis ’62” [Attualità fino al ’62]. Due anni dopo, in occasione della Rassegna Annuale d’Arte Tedesca da lui organizzata nel 1964, gli aveva chiesto di esporre, all’esterno dell’entrata del Museo, il suo Hommage à Berlin, un’opera di grandi dimensioni della serie Verkehrszeichen & Signale [Segnali stradali & Segnali] .
Oggi in retrospettiva, passati ormai tanti anni da quelle storie e quindi con una visione più distesa posso ben capire, anche se non le condivido, le ragioni e la scelta, da parte di Manfred de la Motte, di quel titolo [Sempre irritati con Winfred ?]. Evidentemente lo aveva scelto per difendere Gaul dalle critiche che gli venivano continuamente rivolte sulla pretesa mancanza di coerenza e di consequenza nei lavori. Ma il riferimento finiva invece per mettere in risalto proprio la reazione di sorpresa, e a volte di irritazione, che la critica e il pubblico assumeva nei confronti della radicalità della ‘poetica’, spesso polemica e intransigente, con cui W.G. affrontava le serie contigue e contemporanee, o le trasformazioni stilistiche, tra le sue opere; per questo ritenute ‘spudorate’. Escluso alcune serie di opere, la ricezione di tante altre, realizzate da Gaul nel tempo, fu costantemente sottoposta al controllo del regime sulla ‘questione della coerenza’. (1)
Giovanissimo, Gaul, aveva partecipato al “Gruppe 53” di Düsseldorf, il primo gruppo di artisti tedeschi che si era riunito sotto quel nome per svecchiare, attraverso l’’informale’, la scena artistica e pittorica nella Germania della ricostruzione, dopo l’epoca nazista e le distruzioni della seconda guerra mondiale. Facevano parte di quel gruppo molti degli artisti che poi programmeranno tutta la propria carriera sulle affermazioni e le conferme, nell’Europa intera, di questo stile di pittura.
Ma dopo alcuni anni da quella fase, Gaul, si era staccato dai compagni di strada e ne aveva cercata un’altra più consona alla sua personalità. Ripeteva e scriveva continuamente, fino agli ultimi anni della sua vita, questa frase: « Non ho deciso di fare l’artista per annoiarmi e per annoiare anche gli altri ripetendo per tutta la vita le stesse formule ».
Una volta che riteneva di aver chiuso un ciclo, Winfred, era incapace di ripetere imperterrito e di continuare a dipingere, con lo stesso stile, ancora altri quadri. Forse superava così il timore di un agire ‘effimero’, vago e la paura di produrre un’arte ‘sterile’ legata solo alla produzione di cose senz’anima, che non avrebbero sicuramente più contenuto la sua iniziale carica di energia.
Questo era per lui un fondamentale principio a cui è rigorosamente rimasto fedele per tutta la vita.
Inoltre gli piaceva troppo realizzare e sperimentare, nello stesso anno, talvolta negli stessi giorni, o a distanza di pochi mesi una dall’altra, due serie diverse, distinte o contrapposte di quadri.
Gli esempi da citare sarebbero molti, forse tanti quante sono state le serie di opere che coprono tutta la sua produzione artistica. Ma vale la pena qui di citare i due momenti più ‘esemplari’: il primo riguarda la doppia serie di quadri realizzati tra il 1959 e il 1961 quali i Wischbilder [Quadri strusciati] e i Farbmanuskripte [Manoscritti colorati]. (2)
I Wischbilder, come dichiarava già il titolo, erano quadri ‘strusciati’, cioè tele su cui un colore, non il tipico olio da pittori, ma un colore volatile, industriale usato in tipografia, veniva distribuito strusciandolo con stracci sulla tela e lasciandolo colare o raccolto in ‘nuages’, o in ammassi nebbiosi, ottenuti da differenti passaggi, fino a creare un’impressione generale di monocroma trasparenza. Mentre invece nei Farbmanuskripte la tela era ricoperta da serrati gesti scritturali e fitte matasse di scarabocchi fatti usando pastelli colorati a olio o a cera fino a che l’intera superficie non diventava una sorta di palinsesto compatto, gremito di brulicanti segni colorati.
L’altro momento clou, esempio altrettanto eclatante e ‘significativo’del suo atteggiamento artistico, esplose durante la fase della ricerca nell’ambito della Pittura Analitica (1973-1983). Partecipare a quel momento insieme con tanti altri pittori, alcuni suoi coetanei come Raimund Girke, o altri di una generazione più giovane di lui, ma che stimava, non era soltanto ribellarsi come pittore al dominio dell’Arte Concettuale, che durante quegli anni imperversava in tutto il mondo artistico occidentale; parlare di Pittura, nei dogmatici anni ’70, era considerata una bestemmia. Ma era, per lui, sopra ogni cosa, la possibilità di poter realizzare, come asseriva riflettendo su Matisse: «… dei risultati [in pittura] attraverso il metodo analitico per avvicinarsi alla perfezione tentando sempre e nuovamente di dire tutto in un’unica linea ». (3) Infatti inizia tra il 1972-73 un’ampia serie di quadri dal titolo generale di Markierungen [Marchiature]. Dopo quasi 15 anni dalla serie parallela e contemporanea dei Wischbilder e Farbmanuskripte del 1959-61, Gaul ritorna, con una doppia serie contigua e contemporanea, a sperimentare su temi primari e ‘fondamentali’, analizzando radicalmente ‘sul campo’, cioè sulla tela, il ‘disegnare’e il ‘dipingere’. E riesce a ottenerlo, per essere molto più preciso, attraverso due serie di opere distinte e contrapposte tra loro: quelle dei quadri dal sottotitolo Zeichenmarkierungen [Marchiature di Segni] e Farbmarkierungen [Marchiature di Colore]. Nella serie Zeichenmarkierungen si impegna ad analizzare esclusivamente con diversi modi il metodo di tracciare una linea su di una superficie. Per realizzare questa serie utilizza solo pastelli a gesso e carboncino, tracciando, con questi, a mano libera, linee parallele ai margini della tela naturale, sempre grezza e non lavorata, solo preparata. Mentre nei Farbmarkierungen si impegna ad analizzare le diverse possibilità di distribuire un unico colore in modo da ottenere diverse e ampie campiture, sempre parallele tra loro, sulla tela preparata con lo stesso colore diluito. Per realizzare questa nuova serie usa sempre un unico colore distribuito sulla superficie con il rullo da imbianchino. La scelta della tela grezza di lino (del Belgio) e dei gesti minimi e primari del dipingere o disegnare sono la rivelazione di una ferma volontà di ricerca della povertà e semplicità in pittura, verrebbe da dire ‘francescana’, cioè: spogliare la pittura di tutti i fasti precedenti per renderla più umile e ‘sincera’ (come il novello frate Francesco di Assisi tentò con la Chiesa, lui lo tentava sul versante della pittura; una evidente contrapposizione allo stile Scìamanico sostenuto dal contemporaneo Beuys). Scavare con umiltà e severità nelle possibilità di operare su una superficie, restando sempre all’interno della pittura ‘dipinta’, per mettere in risalto la sacralità artigianale dell’atto creativo e rendere il manuale processo pittorico una disciplina dello spirito. Questa doppia serie di opere (realizzata tra il 1973-1978) venne esibita insieme, per la prima volta, nella mostra realizzata nel 1977, in due tempi separati, nella mia galleria di Colonia. La prima serie degli Zeichenmarkierungen fu esposta dal 18 marzo al 20 aprile mentre la seconda serie Farbmarkierungen dal 22 aprile al 18 maggio. Nel catalogo uno scritto di Gaul sulle intenzioni di lavoro. Alcuni di questi quadri furono poi esposti nel giugno dello stesso anno nella sezione Pittura della “documenta 6 ” a Kassel.

Winfred diventava particolarmente polemico e reagiva con sarcasmo quando il suo operare veniva criticato senza che nessuno si sforzasse di capire la necessità che aveva come artista, di girare l’angolo per andare a vedere oltre i limiti di quello che, pittoricamente, aveva appena raggiunto. Oppure quando, come spesso facevano i critici, anche quelli amici, tanto magnificavano la sua serie di quadri appena presentati, quanto rimanevano indifferenti, o denigravano, la serie che seguiva. Anche a me, quando gli chiedevo chiarimenti, rispondeva che sentiva impellente, indispensabile, allargare l’orizzonte di quello che faceva, o che aveva fatto, e allo stesso tempo aveva il desiderio di superarlo, di cercare altro da conoscere. Mi ripeteva, in opposizione a quanto credevo io, che nell’evoluzione della specie i ‘normali’ sono quelli che si estinguono, perché si fermano, mentre gli ‘irregolari’, nell’adattarsi, sopravvivono; e i ‘normali’, per non estinguersi, imparano dagli ‘irregolari’ a trovare nuove strade. Ogni volta che, facilmente o con sforzo, riusciva a realizzare una nuova serie di opere, l’orizzonte gli si spostava lasciandogli intravedere molti nuovi territori da scoprire. Sentiva impellente il richiamo di poter indagare il più ampiamente possibile nel panorama immenso della pittura ‘astratta’. E questo era il vero motivo che scatenava la sua ‘fame di quadri’. Aggiungere la propria sperimentazione pittorica alle tante esistenti (un’immensità spalancatasi già alla fine dell’800, con gli impressionisti prima e con l’astrattismo poi e che reputava un’eredità di esperienze valide ancora oggi) e riuscire ad aggiungerla a quelle realizzate dagli artisti che lo avevano preceduto nella pittura d’astrazione e che considerava come suoi progenitori, era, per lui, come affondare le proprie radici nella storia della pittura, meglio, nel susseguirsi storico dei quadri dipinti da quei pittori che lo avevano preceduto e che erano i suoi ‘fari’. Era rendersi partecipe di un corpus unico; essere un tutt’uno e all’unisono con una Storia della Pittura che aveva faticosamente individuato e che, capiva, essere diventata la sua. E, appunto, quando le sue idee non venivano comprese o accettate lo considerava come un tradimento nei suoi confronti; evidentemente, diceva, non hanno capito bene nemmeno tutte le potenzialità che erano già insite nella serie dei quadri fatti precedentemente. Winfred non è mai stato un carattere facile né diplomatico o accondiscendente anzi, specialmente nei confronti delle persone che stimava o amava, era particolarmente ‘esigente’, e talvolta era proprio ‘irritante’; ma quelli che superavano questo stadio e non si soffermavano solo alle apparenze superficiali, avevano il piacere di scoprire una forte personalità, passionale, anche sarcastica, ma sinceramente e profondamente dedicata alla ‘Pittura’, con tutta l’anima. Come un Maestro Zen pretendeva da sé stesso la massima onestà intellettuale e la prova dell’osservanza alle regole e alle teorie che riteneva dovessero essere percorribili fino al loro estremo limite; dopodichè considerava che ogni apertura e sperimentazione era indispensabile pur di placare l’insaziabile fame di un pittore che, amando profondamente la Pittura, ne voglia scoprire il più ampiamente tutte le possibilità. Naturalmente come monaco ortodosso era rispettoso della sua religione e ogni sua sperimentazione pittorica rimaneva, quindi, sempre nell’alveo della pittura d’astrazione e della riflessione sull’umile ‘mestiere’di pittore. Ma soprattutto prestava la massima attenzione quando capiva che le ricerche avevano trovato un loro stadio finale oltre il quale era inutile andare; oltre il quale tutto sarebbe diventato accademica ripetizione. D'altronde anche la sua amata pittura era con lui ‘spietatamente esigente’; almeno questo era quello che lui stesso doveva aver ‘sentito’, circa il suo ‘ruolo’ di creatore. Infatti un giorno arrivò a definirla: “Die Malerei ist eine eifersüchtige Geliebte” [La Pittura è un’amante gelosa]. Questo è il titolo di un libro d’artista che ha pubblicato con la Eremiten Presse nel 1992; ma che fu riedito in seguito, come capitolo, in “Schnappschüsse” [Istantanee] un altro libro d’artista, da me curato nel 2001 per la Morgana Ed. di Firenze, uno dei suoi ultimi libri. Veramente, solo per rispettare la verità dei fatti, il titolo originale, non fu tradotto letteralmente, ma divenne “La Pittura è un’amante esigente” e quando, prima d’andare in stampa, mostrai la traduzione a Winfred e gli spiegai le ragioni della ‘libera’ traduzione da: ‘gelosa’ a ‘esigente’, la differenza era così evidente e ne rimase talmente soddisfatto,tanto da dirmi che, se avesse potuto, avrebbe cambiato la parola usata nella prima versione tedesca.

Ma tornando al tema principale, qui annunciato, del rapporto tra il pittore e la pittura, quella sostenuta da Winfred nei confronti della sua pittura credo sia stata una lunga ed estenuante lotta tra le sue intuizioni, aspettative e prospettive di pittore-creatore e i risultati che riusciva a raggiungere attraverso la sua pittura-creatura. C’è stata una continua sfida, una battaglia senza tregua e senza esclusione di colpi da entrambe le parti. I continui rovesciamenti di campo e le innovazioni che ponevano ulteriori possibilità e differenti priorità continuavano a trascinare Winfred in un ingorgo, in certi momenti, inarrestabile sempre in bilico tra il precipitare e il riuscire a governare la barca della pittura ottenendo di non affondarla mai ma nemmeno di ormeggiarla abbandonata ad una facile, commerciabile, stanca ripetizione degli stilemi che aveva già realizzato al meglio nelle opere iniziali della serie. Un gorgo, una rotatoria, un giratoire infinito dal quale non era facile uscire né tanto meno riuscire a destreggiarsi all’interno. Se non con una rigida disciplina adattata di volta in volta, oppure con la continua rimessa in discussione dei risultati raggiunti ogni volta. Così finiva che la critica, non trovando il ‘bandolo della matassa’, continuava a non vederci chiaro e lui non si spiegava più di tanto. Su questa ‘impasse’ e sulla vecchia questione, riguardante la pretesa coerenza ‘a priori ’della consequenzialità delle opere, sopraggiunse l’interpretazione, finalmente illuminante, che Filiberto Menna diede sul suo lavoro nel presentarlo in catalogo nella mostra del 1979 alla Galleria Hennemann di Bonn: « La traccia, la scrittura, il disegno, la pittura. La pittura, il disegno, la scrittura, la traccia. La felicità del circolo, il tempo diverso dell’arte. Andata e ritorno contro il tempo lineare, unidirezionale e irreversibile della ‘cattiva infinità’ della storia e del progresso(…). Gaul (…). Con il suo temperamento analitico, autoriflessivo, rilegge e ripercorre a ritroso il proprio lavoro, ne individua le costanti al di là delle variazioni ». L’altro tra i pochi critici che, meglio di tanti altri, anche tedeschi, aveva capito la matrice sotterranea che stava all’interno di tutto l’operare di W.G. è stato Enrico Crispolti. Il titolo della sua presentazione alla mostra Antologica di Gaul alla Pinacoteca di Macerata del 1982 era: “W.Gaul: segno, disegno, traccia, pittura, memoria - (Opere su carta 1955-1982)”, ed era realmente un titolo ‘significativo’. Crispolti era suo amico di lunga data, dai tempi del soggiorno di due anni che Winfred fece a Roma (1960-61) dove aveva dipinto ed esposto, prima in una collettiva a La Tartaruga di Plinio De Martiis e poi nella personale del 1962 all’Attico di Sargentini, la serie dei quadri realizzati proprio a Roma, dai significativi titoli Oggetto Romano, Oggetto Mistico e Oggetto di Contemplazione (1961-62) (con il titolo, appunto, in lingua italiana). Questa serie è composta soltanto da circa una ventina di tele, molte delle quali tonde, dipinti monocromi, (un evidente, ulteriore sviluppo dei precedenti Wischbilder) con un segno di cerchio al centro, quasi come un bersaglio. La serie era stata esposta nell’ottobre del 1961 anche alla Galleria Blu di Milano, sempre con presentazione di Enrico Crispolti.
W.G. era nato il 9 luglio del 1928, sotto il Segno zodiacale del Cancro. (4)
Secondo quello che dichiara l’Astrologia la maggior parte dei nati sotto questo Segno sono sempre alla ricerca del grande amore a cui restano idealmente fedeli per tutta la vita, ma difficilmente mantengono ciò che conquistano: “Mutevolezza, inquietudine, inclinazione all’autoanalisi, intermittenza ed immaginazione li portano sempre altrove”. Questa ideale fedeltà alle passioni artistiche che lo avevano coinvolto sin da giovane studente, all’Accademia di Stoccarda, Winfred, se la porterà dentro, con sé, per tutta la vita pittorica. Lui confessava facilmente, non solo nelle conversazioni o negli scritti ma anche nelle sue opere, l’amore che aveva nei confronti della pittura creata da alcuni dei suoi artisti favoriti e che erano stati per lui fonte di ispirazione in gioventù, oppure momento di riflessione e conforto, a cui volgere lo sguardo, nei tempi di crisi: Monet, Turner e Matisse erano i nomi che ritornavano spesso, specie quando si faceva attento e riflessivo e intendeva parlare seriamente della sua ‘amata Pittura’.

Già i titoli di alcuni dei suoi quadri erano ‘dichiarazioni’: Incontro di Matisse e Mondrian nello studio di W. Gaul, in una tela del 1988; H. Matisse in Tangeri e Matisse in Collioure nel 2003. Oppure tutta la serie dei trittici e polittici dedicati a Monet durante il 1988: Claude Monet in Arizona; C.M. in Marokko; C.M. in Manhattan; C.M. in Cuzco; C.M. in Andalusia; e anche il bellissimo Dialog mit Henri Matisse [Dialogo con Henri Matisse]dello stesso anno.
È commovente la testimonianza da lui descritta, del lungo e costante amore per la pittura di Claude Monet, specialmente quando nella biografia (5) confessa il suo primo viaggio a Parigi nel 1953, da giovane studente d’Accademia, a vedere il ciclo delle “Nymphéas” di Monet, le grandi tele esposte all’Orangerie. E come dal ricordo di quelle opere, riconobbe, siano nati in seguito, quadri quali Abschied von Rembrandt [Addio a Rembrandt] 1956-57 nella collezione del Museo di Saarbrücken; e Pracht der Zerstörung [Sfarzo della Distruzione] 1957 oggi nella collezione della Kunsthalle di Mannheim e alcune tele della serie Couleur et Signification [Colore e Significato] 1958-59.
Il suo amore e la sua dedizione alla Pittura è stata totale e inarrestabile. Ne sono dimostrazione gli innumerevoli e bellissimi quadri da lui realizzati in 50 anni di carriera; e in una maniera più privata, ne sono testimonianza anch’io con l’aneddoto a cui ho personalmente ‘assistito’ da lontano.
Già ricoverato per neoplasia polmonare in una Clinica di Kaiserswerth per fare continue analisi ed estenuanti cicli di chemioterapia, lontana solo un centinaio di metri dalla sua abitazione, così mi scriveva in una lettera datata alcuni giorni prima della morte:
« 18.11.2003, Caro Roberto, nonostante tutti gli inconvenienti della Chemio sono riuscito, tornando in studio all’insaputa di tutti, a fare in 5 notti seguenti una serie di 50 fogli di formato 24x29 cm. Che tutti insieme farebbero un bel libro. Si tratta di soggettive interpretazioni, meno di un paesaggio che non di un ricordo delle sensazioni di luce e colori. Come titolo provvisorio ho scelto “Omaggio alle Langhe”, vedi anche altre varianti. Pensavo di aggiungere qualche testo di Cesare Pavese, che per quanto ne so è nato nelle Langhe (…) e con il permesso dell’editore potremmo (….). Speriamo che resisto ancora un pò. Ciao, Winfred».
Nel 1967 lo avevo contattato la prima volta scrivendogli una lettera, un paio d’anni prima di aprire la galleria, durante la fase in cui cercavo artisti con cui programmare una serie di mostre. Avevo visto delle immagini dei suoi quadri sfogliando cataloghi di mostre collettive degli anni 1959/64, sul tema Informale, lì avevo trovato pubblicati alcuni quadri dal tipico stile Informale ma che sembravano già avviati verso una pittura più monocroma. Infatti con questi quadri era presente nella mostra e nel catalogo della “documenta II” di Kassel del 1959; e con un Farbmanuskripte nel 1962 partecipò alla mostra “Schrift und Bild” allo Stedelijk Museum di Amsterdam, mostra che allora fece ‘epoca’. Invece nei cataloghi delle mostre “Alternative Attuali I” e “II” organizzate da Enrico Crispolti a L’Aquila, tra il 1962-64; e alla “I° Biennale di San Marino”, c’erano già, ben in risalto, le sue opere denominate Pop e facenti parte della sua serie dei Segnali stradali & Segnali. Così gli inviai una lettera esprimendo il mio entusiasmo per il suo lavoro e offrendogli la mia disponibilità a fare una sua mostra con quelle opere, una volta che avessi aperto il mio spazio. Pungente e ironico, com’era nel suo carattere, mi rispose incoraggiandomi e allo stesso tempo punzecchiandomi sul fatto che avevo l’intenzione di aprire una galleria d’avanguardia in una zona, a suo parere, da considerare ‘depressa’ e in più l’avevo scritta su una carta da lettere intestata “Antiquariato”(e scritta con caratteri gotici -sic!-). Negli anni che seguirono, su questa storia, ci siamo fatti un sacco di risate. Nel rispondermi fu comunque gentile e disponibile e promise di passare da Livorno a trovarmi durante il suo futuro viaggio a Roma, (6) dove aveva esposto e aveva amici, chiedendomi però di spedirgli i cataloghi delle mostre che avessi realizzato nel frattempo, per ‘controllare’ le concrete realizzazioni delle mie ‘utopie’(scrisse proprio così). Venne nell’estate del 1970, un anno dopo che avevo aperto la galleria, portandomi a far vedere 3-4 quadri che stava facendo quell’anno.


Il nostro fu un incontro che da subito diede inizio ad un’amicizia fraterna, che è durata fino alla sua morte, e per quanto mi riguarda dura ancora oggi. Quando l’ho conosciuto lui era già stato famoso per le sue opere della serie Segnali stradali & Segnali, le aveva esposte nei Musei più importanti e alcuni di questi lavori erano entrati nelle più prestigiose collezioni tedesche dell’epoca (quella di Ludwig, per esempio). Nel 1970 era stato segnalato, al 25° posto, nella speciale classifica sull’arte mondiale redatta per la rivista tedesca Capital, all’epoca la rivista europea più ‘in’, nell’articolo: “KunstKompass, Die 100 Großen”; articolo estratto da una specie di bollettino ciclostilato che circolava, per abbonamento, tra collezionisti, direttori di museo, critici d’arte e galleristi.
Il giornalista-critico d’arte, di Colonia, Willi Bongard stilava ogni anno una classifica dei 100 artisti più interessanti e progressivi sulla base: delle mostre svolte nei Musei più prestigiosi e nelle gallerie private più qualificate; delle acquisizioni nelle collezioni private o dei Musei in cui entravano le loro opere; delle riviste e giornali in cui venivano recensite le mostre o dei libri di Storia dell’Arte Moderna in cui venivano nominati i lavori. L’elenco di questa classifica era tenuto talmente in considerazione dagli addetti ai lavori che fu persino pubblicato in Italia a chiusura, come postfazione, nel libro di Gillo Dorfles: “Ultime tendenze dell’arte oggi ”, edito da Feltrinelli nel 1973. Persino Gerhard Richter, in una intervista di pochi anni dopo che era emigrato, dalla Germania dell’Est, a Düsseldorf affermava di aver guardato ai suoi quadri e di aver dipinto alcune opere simili a quelle di Winfred. (7)
Avere redatto questo mio dovuto ‘Omaggio a Winfred Gaul’; all’uomo, all’artista e alla sua pittura, non è stato, per me, senza emozione. Ripescare nella memoria i ricordi del caro amico di tante occasioni e serate passate insieme a parlare d’arte e pittura. Ripercorrere i numerosi incontri e l’amicizia che ci ha legato per tutti gli anni nei quali abbiamo lavorato insieme, collaborando e condividendo, di volta in volta, esaltazioni o delusioni, ma sempre nel rispetto reciproco.
Far riaffiorare frasi, avvenimenti e comportamenti che stavano lì da oltre 30 anni ad attendere di essere rivissuti e raccontati, spero sia servito, quantomeno per fornire, a chi non lo ha conosciuto, un’occasione per avvicinarsi a Winfred Gaul e alla sua pittura e, per chi lo ha conosciuto e stimato, l’opportunità di un ulteriore tributo d’ammirazione. (8)Infine a chiudere questa mia accorata ricostruzione degli eventi che hanno riguardato la sua vita, le sue opere e la sua personalità, mi piace molto inserire questa citazione dal tono sottilmente raffinato e sarcastico, che Manfred de la Motte aveva tratto da una pagina di James Joyce e usata come apertura del suo scritto per un catalogo di W.G. del 1957. Una ‘frase’ che considero, ancora oggi, fortemente inerente e significativa sullo ‘spirito’ del lavoro di Winfred o dei pochi artisti come lui. Basterebbe da sola a illuminarne, di una particolare luce, tutta l’opera. Ed è anche per questo che trovo giusto inserirla come finale:

« L’artista sta, come il Dio della creazione
dentro o dietro, al di là o al di sopra della
sua opera, è invisibile, raffinato, indifferente,
…e si pulisce le unghie.»

(James Joyce)

R.P. febbraio 2009


Note:
1- Oggi questa è una ‘questione’ inesistente, completamente fuori luogo. Da quando il post-moderno prima e il terzo millennio poi, ci hanno abituati ad entrare nella personale di un artista, specialmente se giovane, e trovare contemporaneamente esposto, sulle pareti e nelle stanze della galleria, le cose più disparate: foto, disegni, luci, oggetti, sculture, video, light-box, cibachrome, grandi o piccoli dipinti, figurativi e astratti. Vediamo una installazione multimediale prodotta negli stessi momenti e proposta tutta insieme, magari con una ambientazione apparentemente casuale e, come tale, la accettiamo. Nessuno chiederà mai di sottoporre l’autore al test sulla ‘coerenza’, casomai in alcuni casi, viste le immagini presenti sulle opere, al test anti-doping. Il mondo odierno ci ha ormai definitivamente vaccinati e allontanati dalla ricerca a tutti i costi del valore della coerenza in arte. Come avviene da tempo nel mondo della musica leggera, così è oggi nelle arti figurative: perfino le ‘cover’ quando sono riproposte, anche senza alcuna modifica o alterazione, vengono tacitamente accettate e, addirittura, ne attribuiamo la gloria e il merito a colui che le ha ri-presentate.

2- Rolf Lauter analizzando le opere di W.G. di questo periodo (1959-61) intitolava il suo scritto “W.G. o l’inizio della Pittura Analitica”. In: W.G. opere degli anni 1953-1961, Edizioni Roberto Peccolo, Livorno n.2, febbraio 1987


3- W.G. Parlando di Matisse in “Dialog mit Claude Monet” (Dialogo con Claude Monet -opere 1982-88)
Catalogo Galerie Mühlenbusch, Düsseldorf, 1989.

4- Elisabetta Longari, “W.G. Ritratto Umorale” capitolo: Il Cancro e l’amore, in “Con Amore”, Ritratti Monografici, Edizioni Roberto Peccolo, Livorno, giugno 1992. Riedito in: “W.G. Werkverzeichnis Band II -Gemälde 1962-1983 (Catalogo Generale Vol.II –Dipinti 1962-1983). Concept Verlag, Düsseldorf 1993.

5- W.G. “Dialog mit Claude Monet”. Op.cit.

6- W.G. amava molto l’Italia dove veniva, appena gli era possibile, per mostre e vacanze. Ha anche vissuto per lunghi periodi in Italia dove ha affittato casa: negli anni ’60 per 2 anni a Roma, in Liguria a Genova-Boccadasse per oltre 1 anno, e a S.Andrea di Rovereto vicino a Chiavari, per oltre 6 anni. Ne sono esemplari queste due lettere dal tono e dall’umore completamente contrapposte. Il 30.11.2002 in occasione della mostra: “La Galleria del Deposito” al Museo di Villa Croce di Genova aveva inviato questa dichiarazione, ora pubblicata nel catalogo della mostra: « Il mio legame con l'Italia risale ad un lontano passato. Non fu però la tradizionale nostalgia del ceto colto tedesco per le testimonianze dell'antichità a spingermi nel "paese dove fioriscono i limoni", ma il fatto che già all'inizio della mia carriera di pittore trovai critici, galleristi, collezionisti a Milano, Roma, più tardi – poi – a Genova, Livorno, Firenze e Torino che trovavano i miei quadri abbastanza interessanti da esporli ed acquistarli. Il primo passo lo fece il leggendario pioniere dell'avanguardia in Italia, Guido Le Noci, con una mostra personale alla Galleria Apollinaire di Milano nel 1957. Avevo lasciato l'Accademia d'Arte solo due anni prima. In quell'occasione feci anche la conoscenza di Panza di Biumo e della sua grandiosa collezione dei grandi Action-Painters americani. In seguito ebbi molti contatti facendo amicizie, quindi per tanti anni passai spesso più tempo in Italia che non nel mio paese. Così m'invitarono anche a Genova-Boccadasse,(dove ho vissuto per 2 anni) e dove Eugenio Carmi e Paolo Minetti dirigevano la Galleria del Deposito e contemporaneamente un laboratorio ed un'edizione per grafica originale che collaboravano con molti artisti. Tutti erano allora spronati dallo slancio idealistico che l'arte non doveva più essere un privilegio per pochi fortunati, bensì accessibile per chiunque. Mancavano ancora alcuni anni al 1968: non una rivoluzione, ma almeno un pensiero rivoluzionario ». Soltanto negli ultimi tempi era sempre più deluso dal nostro paese e non solo dall’ambiente artistico. Tono e umore totalmente diversi nella lettera che mi scriveva nell’agosto 2003: « …..Dopo questa esperienza con un Museo italiano devo dirti che il mio progetto di lasciare alcune opere a Musei italiani è cancellato per sempre…. So benissimo cosa mi rispondi: reagisco esagerato e senza conoscenza della realtà italiana. Lo so, ma non mi frega un c…. della burocrazia borbonica italiana. Tu sai benissimo quanto forte era il mio legame con l’Italia una volta e per tanti anni. In Italia avevo i miei primi successi artistici. Amavo l’Italia: il paese, la cucina, i testimoni di una grande storia, i grandi pittori da Giotto a Piero della Francesca, da Mantenga a Tiziano. Italia era per me la prima scoperta oltre confine, una terra sconosciuta, un’altra lingua, un altro ritmo di vivere, un’altra mentalità. Ma stranamente mi sentivo a mio agio. Oggi come oggi mi domando se quell’Italia che amavo avrebbe (sic!) mai esistito oppure esisteva solo nella mia fantasia ?.... ».

7- Gerhard Richter, “La pratica quotidiana della pittura” Ed. Postmedia Books, pp.15-16.

8- Rileggendo l’ultima stesura di queste pagine mi sono reso conto del fatto che attraverso le pratiche informazioni inerenti a date di mostre, titoli di quadri, descrizione di avvenimenti e incontri nell’ambiente dell’arte, insieme agli aneddoti sulla vita privata di W.G., ho, forse, fornito al lettore una maggiore informazione per comprenderne la personalità e il lavoro; ma mi sono accorto anche di aver ripetutamente insistito sui temi delle sue intenzioni artistiche, delle sue ossessioni sul ‘dipingere’ e sulle sue fobie riguardanti la ricezione delle opere realizzate. Forse ho pedantemente rischiato una fraseologia ossessionante ma avevo solo questa possibilità per ricostruire un ‘clima’, i timori, i ‘fantasmi’, le ossessioni, appunto, che permangono nello studio di ogni artista, prima, durante e dopo che ha compiuto il suo lavoro. Come cantava la splendida voce di Billie Holiday in ‘Body & Soul’: “senza uno, l’altro non sopravvive e l’altro, senza l’uno, non esiste”; così, parafrasando la canzone, dopo la scomparsa di un artista, se è l’insieme dei quadri lasciati, che siano appesi nei Musei o sulle nostre pareti oppure seppelliti in un qualche deposito, l’unica cosa ‘tangibile’a formare, alla fin fine, il ‘Body’[il Corpo] di tutta la sua Opera. Sarà però il ‘Soul’[l’Anima] l’unica cosa ‘reale’, palpitante, senza la quale non riusciremo a ‘comprendere’ pienamente l’intera portata di quella ‘energia’ che da secoli l’uomo definisce Arte. Le opere restano là, appese o meno, e il loro ‘Soul’ ci accompagna ovunque. È la memoria di chi resta che perpetua le idee degli scomparsi. Perciò non sono mai stato ‘irritato’ con Winfred, ed ecco perchè ho deciso di non modificare o ‘alleggerire’ questo scritto.

Maggio 2009 - Omaggio a Winfred Gaul




a WINFRED GAUL

in ricordo di un amico


a MICHAEL GOLBERG


dicembre 2007

(Questo scritto è la riedizione, riveduta, ampliata e corretta, di un mio testo apparso nel numero 22 della rivista Cahiers d'Art del sett.-ott. 1997. La rivista aveva dedicato in quel numero un ampio servizio a Michael Goldberg)


Incontrai la prima volta Michael Goldberg nel 1979 a Parigi durante una afosa mattinata di fine luglio. Aveva portato con sé, tra carte e piccole tele, una trentina di lavori tra i quali dovevamo sceglierne alcuni da utilizzare per la sua mostra da me. Avevo già fatto una pre-scelta attraverso delle diapositive che mi aveva inviato un paio di mesi prima e avevamo concordato di incontrarci dalle parti della Bastille nello studio prestatogli per l'occasione da un suo amico scultore.Quasi tutti i lavori appartenevano alla serie Codex che aveva iniziato in quegli anni e di cui non esistevano ancora molte grandi tele, cosa che mi facilitava nell'organizzare la sua mostra. Dopo i primi convenevoli, aveva sparpagliato le opere sul pavimento in ordine sparso e cominciammo così a scegliere i lavori da esporre; apparentemente di comune accordo, ma percepivo come per lui non facesse una grande differenza sceglierne uno od un altro, in fondo erano tutti “suoi lavori”. Addirittura non reagiva minimamente se cercavo di dare una spiegazione (una “lettura colta” in chiave estetico-cultural-fìlosofico) delle opere che sceglievo; si limitava ad annuire, sembrava in attesa di scoprire quale fosse il vero feeling che avevo col suo lavoro. Infatti si entusiasmò e cominciammo finalmente a dialogare su un terreno più cordiale quando gli svelai che sceglievo quel tale lavoro perché mi piaceva molto il modo in cui “quella striscia gialla finiva ad incastrarsi là in alto, nel mezzo tra la larga macchia blu e la densa pennellata rossa che gli stava accanto”. Alla fine il ghiaccio si era sciolto e Mike decise di stappare la bottiglia di Chablis che attendeva lì vicino nel secchiello. E brindammo al successo della mostra e all'inizio della nostra amicizia.Quella dei Codex era una serie che, già nelle diapositive, mi era piaciuta molto perché sulla superficie di ogni lavoro si strutturavano, accostandosi o contrapponendosi liberamente tra loro, forme e campi astratti di vario tipo e colore trattenuti insieme, legati e interagiti dalla presenza di barre o bande colorate e strisciate e slittamenti sottili del colore che, delimitando i confini e i movimenti tra le varie forme, funzionavano al contempo da impalcatura o da vettore al tutto. Un insieme di precari equilibri e continui contrasti per ottenere un'immagine di precisa e solida unità. Oppure il tutto che poteva essere anche completamente ribaltato. Questi lavori erano ormai completamente diversi ma, per alcuni particolari, richiamavano ancora alla mente la serie di quadri da lui dipinti tra il 1960 e 1963 e definiti da Klaus Kertess: «Architecting Paint». Fu questa la prima ma fondamentale “fascinazione” che recepii quel giorno dalla pittura di Mike e che costantemente ho ritrovato poi in tutti i suoi lavori o nei cicli di opere che seguirono negli anni futuri.Infatti, ancora oggi, ciò che mi affascina della sua pittura è quell’insieme di forme e colori apparentemente messi in disordine ma formanti un’unità autosufficiente; e mi intriga anche quella strana sensazione labirintica di poterne ribaltare e modificare in continuazione l’angolo di lettura.A mio avviso la pittura nei suoi quadri non cerca mai di provocare effetti sulla rètina dell'osservatore né, tanto meno, reazioni cerebrali razionali riguardanti il contenuto dell'opera d'arte che, come afferma lui stesso (parafrasando a modo suo Adorno), «Non sarà mai la somma dell'intelletto che vi viene pompato dentro a determinare il contenuto di un quadro»;(1) ma si insinua con nonchalance negli strati profondi della nostra emotività, costringendoci ad affrontare -confrontare tra loro- le differenti sensazioni di ordine e/o caos, di equilibrio o disequilibrio che riceviamo dal quadro sollecitando la nostra, personale e vitale attitudine all'ascolto dell'opera e l'intima disponibilità a lasciarci più o meno coinvolgere da essa.Quel giorno, con mia sorpresa, insistette molto perché prendessi, da inserire nella mostra, anche due o tre lavori di alcuni anni prima e molto diversi dall'unità e contemporaneità che scaturiva dall'insieme dei Codex. I lavori precedenti mi sembravano più “sperimentali”: la superficie di carta grezza, quasi non dipinta, era martoriata, seviziata da strappetti, abrasioni e fori come provocati da bruciature di mozziconi di sigaretta, il tutto amalgamato da un colore leggero, diluito, acquarelloso e trasparente, come “slavato”.Proprio non riuscivo a coglierne la continuità, a ritroso, con i Codex. Fu soltanto qualche mese dopo, nel montare le opere sulla parete della mostra che mi accorsi del perché Mike aveva voluto inserire quei lavori più anziani: tutte le azioni da lui svolte sulla carta erano state concentrate in una forma che vagamente ricordava un arco, una volta architettonica a forma di imperfetto semicerchio, oppure (come istintivamente immaginai, essendo toscano) dalla familiare, vaga, forma collinare.E questo è un altro costante aspetto che riguarda la sua pittura che in quel momento non avevo tenuto nella giusta considerazione, ma che è riaffiorato e ho trovato confermato, sempre di più recentemente, dopo che ho visto i quadri nati durante i soggiorni di lavoro nella sua casa tra le colline senesi negli anni tra il 1982 e il 1990.Avevo già visto riproduzioni di sue opere in un catalogo del 1959(2) sulla pittura americana e per essere un pittore dagli inizi Action painting che operava nella magica scena artistica della New York degli anni '50, appartenente alla generazione di pochi anni più giovane di quella “eroica” dei Pollock, Gorky, de Kooning, Rothko e F. Kline e quindi proveniente dalla patria in cui si esaltava, sia in pittura che in arte, il SUBLIME e il MINIMAL, non mi aspettavo che arrivasse a produrre una pittura così completamente diversa dagli stilemi newyorkesi cui eravamo abituati a vedere qui da noi, in Europa, verso la metà degli anni '70. Vista nel panorama di allora la pittura che faceva in quel tempo Michael Goldberg sembrava trasformata, trasfigurata. Intanto era diventata molto “inattuale” (già il solo fatto di “dipingere” era considerato in quegli anni inattuale - anche se molti continuavano a farlo nel silenzio dei propri studi), certamente “insolita”, non tanto per il contrasto di sensazioni tra equilibrio e disequilibrio o per quel fantasmatico paesaggio, che io continuavo (e continuo ancora oggi) a “sentirci”; ma perché, frequentata più da vicino e osservata con attenzione, si intravedeva che in questa pittura qualcosa era accaduto durante il suo divenire, la si sentiva come una pittura tipicamente da tempi di crisi: scarnificata, densa, pastosa e carica di tensioni allo stesso tempo. E volutamente “insolente”. Pittura che rendeva palpabile una sorta di disagio, come se una dolorosa memoria fosse ancora presente, l'insieme creava così una atmosfera che in musica verrebbe definita blues; ed era proprio questo aspetto che stranamente mi colpiva nella sua pittura e nei suoi quadri. Forse perché era proprio tutta il contrario della piacevole, astratta, eclatante Pittura Americana dei Color Fields, allora di gran moda e imperante perché ingenuamente ritenuta l'erede naturale, la continuazione dell'Espressionismo Astratto. E niente a che vedere neppure con l'ascetica, secca, mentale pittura minimale dei Fundamental Painting(3) come Ryman o Frank Stella. (Ma anche Stella, dopo aver abbandonato i quadri minimali e geometrici con cui era diventato famoso, sarebbe giunto solo alla fine degli anni settanta a ricerche simili con i suoi paintings relief in metallo dipinto).Forse il disagio che, malgrado tutto, traspariva dalle pennellate era basato sui suoi ricordi, sulla memoria di fatti della propria storia personale o probabilmente sulla nostalgia per un'epoca ormai tramontata e di come era stato bello poterla vivere, in quegli inizi degli anni Cinquanta, attraverso l'avventura della pittura. In quel momento magico ed esaltante quella sorta di “Eldorado” a qualcuno, che si era allineato alle regole, aveva fruttato fama e successo di mercato mentre per altri, nel giro di pochi anni, le cose erano mutate e si erano ritrovati espulsi dall'Eden. (Esemplare è, in questo senso, il succedersi delle alterne fortune, sia di critica che di mercato, della pittura di Philip Guston).Ma probabilmente il disagio gli proveniva anche dalla determinazione di voler continuare a dipingere “a modo suo” e a dispetto di tutto quello che stava accadendogli intorno; cercando con caparbietà e ostinazione di esprimere soltanto una pittura tutta “sua”.Nei quadri dipinti all'epoca dai pittori rimasti in ombra, in modo più evidente in quelli degli americani che in quelli degli europei, si potevano ancora distinguere, sotto la pelle della pittura, tutte le cicatrici dei “pestaggi” subiti durante le eclatanti affermazioni internazionali della Pop Art, della Minimal, dell'Arte Povera e della Arte Concettuale, un insieme di trend che si alternarono tra il '60 e '70 sul palcoscenico, ma che non avevano molto a che fare con le idee con cui questi pittori portavano avanti le loro opere.La pianificazione di interpretazioni unilaterali messe in atto durante tutti gli anni '70 dagli opinionmakers dell'epoca: la critica, le riviste e le mostre organizzate nei Musei, dovevano per forza aver provocato nella pittura di Michael Goldberg, come in quella di alcuni della sua stessa generazione (come in quella che ho visto di tanti altri pittori “non allineati”) non poche “mutuazioni” ed aver costretto tutti loro a faticose trasformazioni, relegandoli in una situazione di costante disagio. Indubbiamente per giungere con il proprio “dipingere” ai risultati e alle fioriture della piena maturità odierna, dei passaggi forzati sono stati necessari, per lui come per gli altri, e alcuni ostacoli durante il percorso di una vita si incontrano e devono pur sempre essere affrontati e rimossi. Anzi, pare, che sia proprio un tale processo, da considerare necessario, a far ottenere una piena maturazione al proprio “fare”.Ma tutto questo è sempre così indispensabile? Prima o poi nell'ambito dell'arte, ivi compresi la Storia e il Mercato, vengono riconosciuti i ritardi e gli errori di valutazione commessi nel passato; in quel momento dovrà esser dato a Mike ciò che gli è dovuto. Se non altro tutto il rispetto e la considerazione per il valore, la costanza, la forza e la profondità con cui ha portato avanti il suo percorso artistico. Finalmente, in questi ultimi decenni e in particolar modo nella sua pittura recente tutto appare molto più disteso, rilassato: un dipingere quasi “gioioso”, che musicalmente si definirebbe “cantabile”.Le serie di quadri si susseguono l'una dopo l'altra con rinnovata forza coloristica ed espressiva, in alcune ha recuperato persino l'originario interesse per il paesaggio astratto come metafora. Invitato la prima volta nel 1980/81 da Carmengloria Morales nella sua casa di Sermugnano a passare un'estate, insieme con la moglie Lynn Umlauf, di vacanza e pittura, si è affezionato all'Italia e in seguito alla Toscana dove, dal 1987, soggiorna per lunghi periodi dell'anno nel rustico di campagna che ha affittato tra le colline senesi, alternandosi con N.Y.C, dove continua a insegnare e dipingere. In questo suo nuovo studio, lavorando su piccole e grandi dimensioni sta dipingendo quadri nei quali il suo antico amore per il paesaggio urbano astratto si coniuga e si confronta con le influenze della pittura dei Maestri rinascimentali italiani e del Manierismo fiorentino e senese. Come confessa lui stesso in un suo scritto del settembre 1997 sul n. 22 della rivista Cahiers d'Art: «Essendo il tipo di persona che veramente non apprezza la natura - ne sono quasi allergico - mi sorprende ancora la mia decisione di trascorrere cinque mesi all'anno sepolto nel paesaggio toscano. Sicuramente sto qui per il senso di estraniazione, per l'assenza di interruzioni, per la necessità di poter trascorrere lunghi periodi di tempo con le dita nel naso a dedicare profondi pensieri all'arte e alla vita. Che lusso! La pittura classica è per me linfa vitale. La fede intensa e il virtuosismo di Tiziano, la folle luminosità di Grunewald, la voluttà onesta e semplice di Rubens, l'occhio e la mano sapienti di Giotto e Simone Martini, la luce lancinante di Piero Della Francesca sono una droga di mia scelta e farne esperienza diretta in loco è infinitamente eccitante».In questi lunghi anni trascorsi, la nostra amicizia si è consolidata sempre di più e io continuo ad esporre ogni due, tre anni i quadri delle sue nuove serie che dipinge qui in Toscana. La mostra che abbiamo fatto recentemente era la sua decima personale a Livorno nella mia galleria.Oggi, in tutta questa storia, la cosa che più solletica la mia vanità è l'idea (fantasiosa?) di aver sottratto un albero trascurato che rischiava di finir soffocato dal frenetico traffico metropolitano di Manhattan ed averlo aiutato a trapiantarsi tra gli ulivi e le vigne del Chianti dove ho osservato la sua rinascita, l'ho visto crescere rigoglioso e rifiorire con frutti dai colori sempre più meravigliosi. Certo tutto questo non sarà stato la realizzazione del sogno utopico della mia vita, né l'affermazione del mio successo personale più strepitoso ma, visti i tristi tempi che ci circondano, trovo che in fondo è soltanto un'altra tra le semplici ricette utili per sopravvivere e continuare ad assaporare dalla vita quel poco di buono che ancora possiamo trame. La stessa riflessione che mi capita la mattina al bar per il cappuccino: con una spruzzata di polvere di cacao sopra prende un altro sapore; senza, trovo che ha un sapore più ordinario. Così lui continua a dipingere come gli pare e io continuo ancora oggi a guardare Mike di profilo e a godermi i colori dei suoi affascinanti quadri, appesi sulle pareti della mia galleria.
E ogni tanto prendiamo un bicchiere di Chablis insieme.

Roberto Peccolo, novembre 2003

ph. R.Formenti - 2006

(Questo scritto è la riedizione, riveduta, ampliata e corretta, di un mio testo apparso nel numero 22 della rivista Cahiers d'Art del sett.-ott. 1997. La rivista aveva dedicato in quel numero un ampio servizio a Michael Goldberg)

(1) Da una conferenza di M. G. 1991. Ripubblicata in M.G., Anima/Soul, Collana “Pittura e Memoria”, Morgana Edizioni, Firenze 2002.

(2) Catalogo “Arte Nova” Torino, 1959. Mostra organizzata da M. Tapié e L. Pistoi al Circolo degli artisti a Torino (rassegna di artisti Informali europei, pittori americani dell'Action painting americani e artisti giapponesi del Gruppo Gutai).
(3) Titolo della mostra “Fundamental Painting” tenutasi allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1975 a cura di R. Dippel.

2004 - dialogo tra MENEGUZZO e PECCOLO

Intervista tratta dal catalogo della mostra
Raccolti & Differenziati

Corrado BONOMI
Raffaella FORMENTI
Albano MORANDI
Giordano POZZI
Paola RISOLI
Tyrome TRIPOLI

Qualche considerazione
e un dialogo sulla “flànerie” dell’artista
(e del gallerista)

di Marco Meneguzzo

Ci sono parole che da sole evocano l’idea che le ha prodotte, e che anzi aggiungono a quell’idea -in virtù della loro forza intrinseca, che va oltre la semplice trasposizione fonetica, comunicabile, del concetto- una sorta di valore aggiunto: in questo nostro caso la parola è “flàneur”. Non appena Roberto (Peccolo) ha pronunciato questa parola per descrivere la sua idea di mostra -e in realtà la sua idea di arte- sono affiorate visioni, immagini, evocazioni, con la stessa immediatezza di una illuminazione (altra parola correlata…), istantaneamente, con la stessa rapidità con cui la bocca la stava articolando.

Ora, si presume -si spera- che il lettore viva questa stessa sensazione, questa stessa illuminazione… In tal caso, il lavoro del critico, nella specifica situazione del suo essere “compagno di strada”, sarebbe finito prima ancora di cominciare: inutile cercare di costruire, o di decostruire, qualcosa che nasce già compiuto, pieno, maturo.
E’ lì, ostentato, esposto, sicuro: non resta che viverne le emozioni evocate.
Ma al godimento di una sensazione si può arrivare anche per via deduttiva, e in tal caso il critico riprende il suo antico ruolo didattico di “traduttore”, di interprete accreditato, che spreme la parola per farne uscire tutto il succo, anche a costo di rovinarne la forma.

Così, “flàneur” e “flànerie” diventano parole da smontare, da scomporre in infinite frasi, ognuna delle quali possiede un po’ della forza di quella parola. Dunque, l’artista come vagabondo, come “flàneur”… E’ un vagabondo di città, innanzi tutto, è un vagabondo di matrice ottocentesca, e magari francese (non solo per la parola stessa, che lo è, ma per tutta la letteratura “maudit” che ne ha fatto la fortuna, da Baudelaire a Mallarmé…), libero come lo può essere un emarginato sociale che non vede riconosciuto neppure il suo ruolo di “emarginato”, appunto (al contrario, nel medioevo, il vagabondo aveva un ruolo, vicino a quello del pellegrino e, talora, allo “scemo del villaggio”, funzioni entrambe codificate e accettate nel consesso sociale.

Il “flàneur” è l’altra faccia del “borghese”, in un’epoca in cui di proletariato ancora si parlava poco, e in cui contava più l’atteggiamento nei confronti della vita e del mondo che l’appartenenza ad una classe; è un osservatore incantato e disincantato al tempo stesso: incantato dalla varietà della vita, anche nei suoi aspetti più sordidi (il “demi monde” è un’altra invenzione del tempo…), assolutamente disincantato nei confronti del potere. Insomma, la versione cittadina e “moderna” -alla Baudelaire-
del romantico. Ma se il flàneur è “l’antiborghese”, l’artista di oggi può essere considerato tale ?

Meneguzzo: Perché l’artista dovrebbe essere un flàneur, o per lo meno assumerne l’atteggiamento ?
Peccolo: Per sopravvivere all’ambiente divenuto asfittico. Per irridere tutti i filoni dell’arte oggi vigenti che, a mio avviso, si riducono grosso modo a tre correnti:
quello dell’ennesima, ultima possibilità della pittura, quello della figurazione ritrovata attraverso la fotografia, e quello della gestione del sistema dell’arte come gestione di un sistema commerciale. Al contrario di tutto ciò penso che ci sia bisogno di un nuovo atteggiamento dadaista, di un nuovo “balbettìo” dell’arte, magari pronunciato da una generazione di artisti meno imprenditoriale, più “romantica”.
Amo questo atteggiamento anche al di sopra degli artisti: vorrei che essi avessero la possibilità percorrere ancora un’ultima ”passeggiata”, non nella natura –come cercava, ad esempio, Celant tra le origini dell’ Arte Povera-, ma nella città. In questo senso scelgo Schwitters e non Beuys…

M.: L’artista deve –e sottolineo la parola “dovere”, che qui indica una precisa volontà del soggetto- essere sempre un emarginato ?
P.: Non sempre, anzi…Vediamo che la gran parte di loro infine ha scelto la società e i suoi sistemi. Per certi versi è inevitabile, ma l’atteggiamento nei confronti del mondo è ancora importante, e questo atteggiamento vagabondo non appartiene al sistema. Per questo ci fa riflettere.

M.: Tuttavia tu sei un gallerista, e questi lavori vengono esposti in una galleria, che del sistema dell’arte è parte integrante…
P.: Alla fine l’arte sempre lì sta… Ma credo che siano un controsenso e un compromesso ancora accettabile, rispetto a chi progetta per una richiesta di mercato. Accetto i luoghi del sistema, che sono inevitabili, ma non digerisco che si creino, in arte, bisogni indotti.

M.: Perché questi sei artisti ?
P.: Per il loro atteggiamento individuale, che assomiglia molto a quello che cerco in arte. Vedo in loro, al di là delle differenze, qualcosa che li accomuna ai Novorealisti, in specie quelli più “generosi”, come Spoerri o Tinguely, o anche Villeglè. Amo negli artisti la volontà di “prendersi una vacanza” anche dal loro ruolo di artisti, la voglia di disubbidire, di “marinare la scuola”. In questi giovani mi aspetto di trovare dietro l’angolo, con sorpresa, la stessa passione e al contempo lo stesso “disinteresse” di quegli illustri antecedenti.

M.: Allora l’arte è, di fatto, la “vacanza dell’arte”, intendendo con “vacanza” il duplice significato di “assenza” e di “svago” o “licenza” ?
P.: Ti rispondo dicendoti che amo l’Art Brut, in cui il momento “naturale”, fisico, è molto più importante di quello culturale (come aveva intuito con lungimiranza Dubuffet).
E’ vero poi che la foresta -la jungla- dell’arte è piena e dominata dai grandi alberi, ma vi si trovano anche fiori e piccoli arbusti, più fini, più belli e più… “a portata di mano”. Quando vado per boschi anch’io ammiro le grandi querce e gli abeti giganti (che sono proprio quelli che marcano il bosco); ma poi mi soffermo a gustare le fragole e i mirtilli, che non a caso sono le piante più piccole e nascoste del sottobosco. Dipende da quello che uno cerca…
Per fare un esempio più attinente: tra Guttuso e Turcato, vissuti nella stessa città e nello stesso periodo del dopoguerra, a mio parere il primo illustra il mondo, il secondo costruisce il linguaggio. Dei due la mia preferenza è per il secondo, e con lui per tutti coloro che “entrano” nel problema….

MICHAEL GOLDBERG

Giugno 2007 - Articolo di Sebastiano Grasso per MICHAEL GOLBERG sul Corriere della Sera

2007 - A proposito dei Nouveaux Réalistes al Grand Palais

Elegìa di Pierre Restany e commenti sui Nouveaux Réalistes

Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi:
navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
e ho visto i raggi Beta balenare nel buio vicino alle porte di
Tannhäuser…. e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo
come lacrime nella pioggia

(il replicante androide in “Bladerunner” di Ridley Scott )



Il 27 ottobre del 1960 durante una riunione, promossa da Pierre Restany, in casa di Yves Klein, veniva firmata, dagli artisti presenti Y. Klein, Arman, M. Raysse, F. Dufrêne, J.Villeglé, R.Hains, D.Spoerri e Tinguely, il manifesto, o meglio, la dichiarazione costitutiva del gruppo artistico che si definiva “Nouveaux Réalistes”. Il testo redatto da Pierre Restany così dichiarava:
« I Nuovi Realisti hanno preso coscienza della loro singolarità collettiva.
Nuovo Realismo = Nuovi approcci percettivi del reale.
» [Naturalmente in francese nell’originale]
L’avvenimento faceva seguito ad una serie di mostre che ne avevano messo a fuoco le tematiche, il lavoro e le intenzioni. Come quella dell’aprile dello stesso anno organizzata alla Galleria Apollinaire di Milano che fu intitolata appunto “Les Nouveaux Réalistes”. Pierre Restany allora giovane critico lavorava alla redazione milanese della rivista Domus e aveva una buona relazione professionale e di amicizia sia con Guido Le Noci della Galleria Apollinaire che con la Galleria Schwarz di Arturo Schwarz e proprio in questa ultima furono organizzate, in quegli stessi anni collettive di alcuni artisti del gruppo, fino a quella, del febbraio 1966, dal titolo significativo “Movimento DADA ieri,oggi,domani “ nella quale parteciparono: Arman, Raysse, Spoerri, Dufrêne, Rotella e Villeglé. Una mostra che, dichiaratamente, tendeva a enfatizzare la continuità esistente tra l’allora emergente, giovane generazione dei NovoRealisti con il gruppo storico dadaista di Zurigo e Berlino.
Il manifesto redatto e qui sopra trascritto, un testo di soltanto due righe, firmato dai partecipanti alla riunione ed in seguito condiviso e sottoscritto dagli artisti che, suggeriti dello stesso Restany, si sono poi aggiunti: César, Christo, Deschamps, Rotella e Niki St.Phalle. Questo alla fine divenne il nucleo originario che costituirà l’intero gruppo artistico europeo d’avanguardia più innovativo del secondo dopoguerra. L’unico raggruppamento artistico del secondo dopoguerra che ha avuto un forte impatto sul pubblico dell’epoca e vissuto una storia semplice ma complessa e agitata allo stesso tempo. Un esempio che vale per tanti altri: il gruppo si è dato una data di fondazione e quindi di nascita, per poi festeggiare, soltanto 10 anni dopo, la data della sua morte come movimento artistico [e quindi la libertà per ognuno degli artisti componenti il gruppo, di proseguire per la propria personale strada]. Ancora una volta fu Milano la città dove, nel 1970, venne organizzata la manifestazione con cui sarà celebrata e festeggiata, attraverso un grande happening in vari spazi della città, con interventi artistici, tra cui alcuni con opere create appositamente per l’occasione, la data della morte del NovoRealismo quale gruppo artistico costituito. Evento enfatizzato e reso chiaro nella grafica-manifesto realizzato per l’occasione da Spoerri: “Ultima Cena -banchetto funebre del Nouveau Realisme-”.
Per afferrare meglio il valore e la portata di questo “movimento” artistico è doveroso considerarlo nella panoramica del momento e nella fase storico-artistica che circondava, all’epoca, questi artisti e solo in seguito approfondire con attenzione i “concetti/contenuti” di cui erano portatori i NovoRealisti con le loro azioni e con le loro opere. Questo è indispensabile proprio per tenere separate e distinguere attentamente la forza e la vitalità dell’impatto delle loro prime opere e delle azioni iniziali svolte da questi artisti e per non rimanere fuorviati, specialmente nell’interpretazione del lavoro, da quell’enorme massa di opere di bassa qualità prodotte, da alcuni di loro, durante il proseguo della carriera quando, sopraffatti dalle richieste del mercato, hanno invaso sia il mercato che le gallerie. Opere di cui ognuno di noi ha potuto constatare la scadente qualità e delle quali, in questi ultimi dieci anni, ha potuto assistere al riempirsi delle gallerie, delle fiere d’arte e delle televendite. Ed è facile qui il riferimento ai bronzi o ai quadri “pennellati” di Arman; come pure alle bambolone di vetroresina o di ceramica, definite “Nanà”, di Niki St.Phalle; o anche ai César con le sue compressioni d’auto e alle “espansioni”. Per non parlare di M.Raysse che, abbandonato il periodo di ricerca NovoRealista, dalla forte impronta che anticipava la Pop, ha cominciato a dipingere quadri dal sapore anacronistico e dal gusto tardo-romantico.
Tutta un’altra atmosfera si respira, invece, davanti alle opere “vintage” create da questi artisti, intorno alla fine degli anni cinquanta, quando ognuno di loro esponeva e lavorava partecipando già pienamente allo spirito del tempo. In quegli anni tutti i giovani artisti cercavano con ogni mezzo e con tutte le sperimentazioni possibili di superare e di sfuggire all’asfissiante atmosfera Informale, dovuta specialmente a quel post-informale sclerotizzato, divenuto oramai una sterile accademia del segno o della materia o del gesto. In quegli stessi anni, in un altro versante, altri giovani affrontavano la diffusa atmosfera che si diffondeva per tutta Europa: un’intera generazione era alla ricerca di una sorta di “tabula rasa” o nuova “verginità”; cercava di recuperare un “grado zero”, desiderosa di azzerare per ricostruire e ricominciare poi su nuove “basi” (tale ricerca era più o meno teorica e/o concettuale oppure più o meno pittorica e riflessiva e in alcuni casi persino “monòcroma”) . Forte era il desiderio di una piattaforma da cui poter ripartire dopo la svolta degli anni ‘60. Il riferimento è qui ai tedeschi del gruppo “Zero” o agli olandesi del gruppo “Nul”; come pure al nostro gruppo milanese “Azimuth” creato da Manzoni, Castellani a cui partecipava in qualità di critico, teorico e artistico Vincenzo Agnetti.
Ma contemporaneamente era anche in atto, in Europa come negli Stati Uniti, un’azione di recupero sia storica che artistica, attraverso mostre retrospettive e antologiche, del Dada che in quegli anni era in via di rivalutazione -erano ormai passati 50 anni dalle serate del Cabaret Voltaire di Zurigo e dalle mostre e serate dadaiste nei cabaret berlinesi-. Infatti proprio negli anni 1958-1963 numerose mostre o gruppi artistici, al di qua e al di là dell’oceano, si definivano di volta in volta: “new-dada”, “Funky-art”, ecc.
I NovoRealisti in questo partecipavano pienamente e attivamente allo spirito del tempo grazie alla loro speciale interpretazione del “tabula rasa”; ma nelle soluzioni di lavoro dei suoi protagonisti e soprattutto nella lettura che ne faceva Restany, ribaltavano completamente, di 180 gradi [non a caso una mostra da lui organizzata a Parigi nel 1961 ebbe come titolo “A 40° gradi al di sopra del Dada”], l’utilizzo dell’”objet-trouvé”, dell’oggetto trovato, secondo la storica concezione di stampo dadaista. Ma innanzitutto ancora più lontano era l’eventuale riferimento al Realismo. Il Realismo dei Novorealisti non aveva proprio niente a che fare con il vecchio concetto di realismo nel quale la natura o la “realtà” veniva ancora considerata con uno sguardo frontale: essa sta davanti a noi e noi possiamo osservarla per capirla, analizzarla, interpretarla, esprimerla, ecc. A proposito di un simile argomento qualcuno aveva scritto, pochi anni prima, questa lapidaria frase circa le opere di Pollock: « Pollock è il primo ad avere abbandonato il cavalletto, una volta posta la tela per terra, per cogliere il quadro da “dentro”e dall’alto. Era, per lui, come osservare un paesaggio visto dal dentro e dall’alto al medesimo tempo; mentre molta della contemporanea pittura europea appare ancora come tanti differenti paesaggi visti sfilare allineati attraverso il finestrino di un treno ». Frase che liquidava così, in due parole, molta della produzione pittorica europea di quegli anni.
Lo sguardo che i NovoRealisti posavano sugli oggetti che incontravano nelle strade o cercavano nei mercatini dell’usato o nelle discariche urbane, che essi frequentavano, appunto intorno alla fine degli anni ’50 e quindi in piena epoca “esistenzialista”, non era solo determinato da una reazione all’Informale ma era al contempo lo sguardo di un abitante metropolitano che ri-trovava il “vecchio”, l’usato, il “rifiuto” (tanti oggetti carichi di un vissuto e di una loro storia, forse povera ma ancora densa di sapore che poteva essere riutilizzata e reinserita o accomodata o accumulata in una rinnovata “mise en scène” proprio grazie a quel particolare colore, a quella strana forma o a quel sapore di storie antiche. Paradossalmente oggetti scartati come inutili rivivevano, grazie allo sguardo e all’azione dell’artista, il pieno della loro rappresentazione mostrandosi su un’opera d’arte – e che veniva definita “accumulazione”-). Era la reazione di uomini e artisti che avvertiva urgente la necessità di ribellarsi, di essere “contro” alla società che degenerava il proprio habitat nelle tappe forzate di una continua trasformazione, dove ogni oggetto usato e non più utile, considerato già vecchio, doveva essere gettato e sostituito dall’ultimo modello, in una foga di rinnovazione a tutti i costi; il tutto provocato da una società dei consumi in continua, esasperante espansione e che allora appariva inarrestabile. Per loro un impegno quantomeno doveroso quello di denunciare un società cosiffatta che rischiava di gettar via il bambino insieme con l’acqua sporca, come recita il famoso proverbio.
Ogni cittadino passando posava il suo sguardo sui muri tappezzati dalle pubblicità sui quali campeggiavano, sempre di più, nuovi e scintillanti, i riti e i falsi miti del consumismo, ne rimaneva affascinato, ipnotizzato rischiando l’assuefazione e il conformismo. I NovoRealisti, e gli affichisti in particolare, invece definirono tutto questo la “pelle”viva di una città in continua trasformazione e se ne appropriarono, strappandola dai muri con attaccata tutta la sua storia individuale, per ricollocarla e renderla a nuova vita, utilizzandola secondo la propria idea e accumulandola anche insieme con altrettanti oggetti suoi simili.

Ma le migliori parole per rivivere e comprendere gli avvenimenti di quegli anni e il contemporaneo lavoro dei NovoRealisti, le avevo lette in un articolo di Pierre Restany su un numero della rivista italiana Domus della fine degli anni ’60, scritto stranamente in francese -senza traduzione- di cui ho purtroppo perso le tracce. Di quell’articolo mi sono rimasti solo degli appunti sparsi e trascritti a mano riguardanti una stentata traduzione che all’epoca tentai di fare di quell’articolo, per meglio comprenderlo. Questi appunti sono ritornati alla luce recentemente quando sono andato a ricercare le fonti originali per scrivere sul tema di questa mostra. Oggi non ne sono più certo ma sicuramente molte delle frasi da me trascritte sono appunti sulla traduzione e alcune parti sono magari mie aggiunte per meglio ricordare o ricostruire i concetti e le “nuance” contenute nell’articolo di Restany; quindi c’è il possibile rischio che questo scritto, che poco sotto riporto come citazione, sia in realtà una sorta di fantasioso misto tra lo scritto esistente di Restany, i miei appunti di allora per la traduzione e il mio intendere odierno.[Insomma quello che qui propongo può risultare una sorta di stravagante “collage”. Ma in ogni caso si tratterà sempre di una nostalgica operazione di recupero archeologico di un’epoca, dell’ambiente che l’ha determinata e della fauna che l’ha vissuta. Della cui legittimità sarà lecito dubitare, ma della sua utilità no!].

« All’inizio del 1960 le personalità dominanti nella cerchia dei miei amici artisti si chiamavano Yves Klein, Raymond Hains, Jean Tinguely. Tre militanti della metamorfosi del quotidiano, della vita nella metropoli. Dopo numerosi anni di preparazione e d’attesa erano passati all’attacco, moltiplicando le prese di posizione e i gesti-eclatanti, i colpi di forza che erano dei colpi di rottura manifesta con le idee e le cose che circolavano nell’ambiente dell’arte. Parigi di quegli anni si gongolava soddisfatta di scoprire sul proprio territorio, e tutti insieme, Kandinsky, Mathieu e Vasarely. In quei giorni la grande domanda all’ordine del giorno era di sapere se la quinta Repubblica avrebbe adottato l’ informale come stile ufficiale. In breve, la moda era per quella che si definiva l’ astratti-ismo più o meno lirico o geometrico, più o meno caldo o freddo. Non erano ancora venuti i tempi belli per Denise René ma i suoi jolly di punta del circolo “ forme semplici e colori puri “ riprendevano speranza e anche i giovani proseliti del Gruppo di Ricerche d’Arte Visuale scalpitavano simpaticamente. Nel versante “tachisme” si navigava in pieno lirismo. Michel Tapié credeva, in buona fede, d’aver ormai fissato il “divenire” dell’art autre per i prossimi trenta anni. E il gallerista Stadler si considerava già il Maeght del futuro. La Galerie de France, un nome predestinato, vendeva, a due passi dalla boutique di Hermès, sul Faubourg St. Honoré l’articolo di Parigi, in pittura, di cui aveva il marchio depositato. Insomma l’arte dell’Êcole de Paris, infischiandosene altamente di quello che succedeva a New York, se la passava bene. Un po’ troppo bene. Così non si avvidero dei colpi di mano in serie. Di tutta una serie di colpi di mano che vennero a disturbare quella atmosfera euforica e soddisfatta. Nel 1958 Yves Klein convoca tutta Parigi alla vernice presso la Galerie di Iris Clert a vedere i muri bianchi e nudi della galleria: il “Vuoto” creato dalla presenza e dall’accecante tutto-bianco dello spazio “sensibilizzato” dalla sua pittura monòcroma. Una pittura monocromatica, che diverrà in seguito blu, il “Bleu-Klein”. Yves [artista che conosceva lo Zen e praticava Judo e Yoga] esprimeva là, per la prima volta, il postulato dell’appropriazione energetica: il “vuoto” come spazio tangibile dell’energia cosmica quale veicolo di tutte le emozioni. L’artista che si appropria dell’energia cosmica raggiunge il senso e l’essenza del linguaggio. Niente andrà così lontano, in quella direzione, dopo questo avvenimento……….. Un anno e mezzo più tardi Arman mette la “firma”, sempre presso la Galleria di Iris Clert sull’aspetto più eclatante del suo stile, l’accumulazione: riempire, di oggetti provenienti da ogni parte, l’intero spazio della galleria fino a strabordare fuori dalla porta,[e impedendo al pubblico di poter entrare nella galleria] realizzando così con il “Pieno” il polo contrapposto, dialettico e teorico, al “Vuoto”di Yves Klein.
L’opera di Klein aveva fortemente colpito Tinguely, loro erano amici ed avevano anche collaborato su alcune opere fatte in comune come “Vitesse pure & Stabilitè Monochrome” con cui fecero la mostra. In seguito Tinguely era riuscito a realizzare l’autonomia espressiva della macchina arrivando a costruire nel 1959 le sue “Métamatic”, le macchine che autonomamente e automaticamente dipingono e disegnano composizioni astratte usando dei bracci meccanici variabili. Con un gettone [dal valore odierno di un euro] ognuno si può far dipingere, dalla macchina, il suo Pollock o Hartung o Mathieu. [Oggi una “Métamatic” è esposta in permanenza nel Museo Tinguely di Basilea e i visitatori possono lì, con un gettone, realizzarsi il proprio quadro].

Yves Klein, già prima e in parallelo con la mostra del “vuoto” da Iris Clert, Klein dipingeva quadri ricoperti completamente da un colore Blu intenso, elettrico. Una tela o un pannello che diveniva uno spazio aperto alla meditazione. Più tardi al colore Blu sostituì una lancia termica di fuoco, usata come un pennello con il quale assaliva la superficie del quadro. Ma negli stessi anni organizzava anche performance artistiche in teatri e Musei dove, accompagnate dal ritmo ossessivo di un’orchestra d’archi, alcune ragazze completamente nude, ma preventivamente da lui colorate in Blu o rosso, venivano fatte rotolare o pressate sulla tela dove rimaneva impressa l’impronta del loro corpo.
Raymond Hains, poeta dallo sguardo ironico e sarcastico si appropria di intere transenne di tavole di legno o di metallo ancora rugginose e sporche, ricoperte di sgraffi, scritte, brandelli di manifesti o altro: palizzate con cui erano protetti i cantieri di lavoro nelle facciate delle case, e le espone così come trovate. “Pelle” dei muri di una metropoli e sostegni di poesie desunte dalla casualità e sgorgate in modo non naturale nella città. Camminatore insieme con gli amici Villeglé e Dufrêne, sempre alla ricerca di brandelli e strappi di realtà e di colori che tappezzavano le strade percorse.
Jacques Villeglé, raccoglie e strappa dai manifesti messaggi di scritture, parole o lettere che poi gratta e recide a formare reliquie scritte e riscritte, palinsesti dell’azione, del tempo e della memoria del vissuto. Non a caso le sue opere, dalla più grande alla minuscola, portano nel titolo la data del giorno e il nome della via da cui proviene.
François Dufrêne, anche lui raccoglie brandelli di manifesti (pelle di muri trasudati) nei quali, rovesciandoli e osservandone il retro, ritrova le delicatezze e le tenui colorazioni della pittura astratta. Un romantico poeta, anticipatore della poesia fonetica, elettosi continuatore dei Grands Rethoriqueurs, -poeti del 1200/1500 francese, ancora oggi misconosciuti- ma anche innamorato delle macchie colorate e delle superfici lisce, stinte e slavate del retro dei manifesti strappati con cui nel 1959, invitato alla Prima Biennale dei Giovani Artisti di Parigi, tappezzerà il soffitto e tutte le pareti del suo spazio espositivo.
Christo, nel 1962, con una parete alta 2 metri formata di bidoni di benzina messi in traverso, blocca tutta la piccola strada Rue Visconti, di fianco alla galleria J, dove nella mostra personale espone i suoi primi oggetti impacchettati. E da quel momento partiranno i suoi faraonici progetti di impacchettare valli, ponti, monumenti, ecc. che in seguito realizzerà.
Daniel Spoerri, ha la prima personale da Schwarz a Milano dove espone insieme ai suoi tipici “Tableaux-Pièges”,“quadri-trappola”, che produceva già dalla fine degli anni ’50 (pannelli quadrati o rettangolari in cui sono “bloccati” e sospesi sulla parete gli oggetti e i resti di una tavola sulla quale è stato consumato un pasto) opere e assemblaggi di oggetti trovati con cui ricopre le pareti della galleria in un’ambientazione dal sapore metafisico che distorce la visione al visitatore e lo costringe a inclinare la testa per poterne osservare la composizione o ricomporne l’immagine iniziale.
Gérard Dechamps, ricopre le sue prime tele del ‘58-59, come panoplìe, di indumenti intimi e corsetteria femminile usata, quindi con evidenti tracce di “umori” corporali. Intitola la sua mostra personale del 1962 alla Galerie J di Parigi “La Vie en rose”. Intorno a queste opere non mancheranno polemiche e censure. La più famosa delle quali accadde in occasione della sua mostra personale a Milano nella Galleria Apollinaire, situata nella centrale via Brera. Le Noci aveva messo in vetrina della galleria un’opera abbastanza “osé” per attirare l’attenzione e lo scandalo dei passanti. Ma proprio la domenica seguente all’inaugurazione passò da quella strada la Processione del Corpus Domini e l’Arcivescovo di Milano dell’epoca, divenuto in seguito Papa Montini, alla vista di quella vetrina ne denunciò alle autorità l’oscenità e le autorità fecero chiudere la vetrina confiscando l’opera.
César, era già uno scultore affermato quando aderì e decise di unirsi al gruppo dei NovoRealisti, in quegli anni costruiva sculture in bronzo o ferro con “cascami” di fonderia e ferri vecchi realizzando figure emblematiche e animali preistorici. Dopo la sua adesione al gruppo si moltiplicarono gli interventi con le “compressioni” di carcasse di auto realizzate dagli sfasciacarrozze e con numerose azioni di costruzione istantanea di opere dette “espansioni” in cui faceva colare da un contenitore una schiuma di poliesteri colorata che appena tracimava dal contenitore, raffreddandosi, prendeva la sua propria forma, non programmata, ma cercata e “aiutata” dall’autore durante la colata.
Martial Raysse, negli anni iniziali della sua adesione al gruppo dei N.R. produceva opere o pannelli e oggetti in cui inseriva immagini di corpi o visi femminili in ambientazioni d’interni sui quali incollava parti di oggetti o di utensili e casalinghi o fiori, sempre in plastica colorata a cui aggiungeva neon o lampadine che si accendevano a intermittenze varie. Una sorta di Pala d’altare in cui era messo in risalto il grigiore e lo squallore della quotidianità.
Jean Tinguely, dopo una serie di rilievi cinetici mossi da motorini elettrici che facevano muovere e ruotare le forme in superficie, opere con le quali fece i suoi esordi appena arrivato a Parigi dalla Svizzera, comincerà a costruire, usando rottami rugginosi di motori e camion, resti di carrozzerie e altri ingranaggi, delle sculture ferrose in movimento; una sorta di “macchine inutili” dalla meccanica complessa ma dall’aspetto ludico con cui i visitatori potevano giocare o mettere in movimento.
Niki de St.Phalle, le sue opere più eclatanti e scandalose sono le “Tableaux-tirs” (quadri su cui sparare). Pannelli con forme, a volte di Polittico, su cui incollati e ammassati oggetti di ogni tipo, di preferenza vecchie bambole, trattenuti insieme da ingessature fatte di garza o di teli dai quali spuntano fuori gli oggetti più svariati. In mostra, appesi sull’opera, numerosi palloncini riempiti di diversi colori a cui il pubblico visitatore è invitato a sparare con una carabina ad aria per far esplodere il palloncino e colorare così l’opera che a quel punto sarà considerata terminata. In seguito si concentrerà sulla produzione di figure femminili dal corpo enorme e sproporzionato che chiamerà “Nanà”.La più famosa delle quali sarà quella gigantesca realizzata con Tinguely per la mostra “Hon” al Museo di Stoccolma nel 1966: una “Nanà” dalle dimensioni gigantesche sdraiata per terra con le gambe spalancate e nella quale il pubblico poteva infilarsi dentro per poi uscire dalla parte della testa. All’interno del corpo un’esposizione dei disegni e dei progetti per realizzarla.
Mimmo Rotella, per ultimo ma non per questo meno importante, l’unico italiano tra i cugini francesi, che Restany stimava molto considerandolo il suo pupillo e proteggendolo dalle insinuazioni e dagli attacchi portati dai due bretoni del gruppo, Hains e Villeglé, che vantavano, a loro favore, la priorità nell’uso del manifesto strappato avendo realizzato, insieme a quattro mani nel lontano 1949, l’opera “Ach Alma Manetro” [ora nella collezione permanente del Centre Pompidou], opera dove, per la prima volta, furono utilizzati manifesti strappati dai muri e attaccati poi sulla tela.
Era naturale che lavorando anch’essi sullo strappo del manifesto dal muro non vedevano di buon occhio questo furbo italiano che strappava anche lui manifesti ma utilizzando quelli dove c’erano le immagini più accattivanti delle star del cinema o dei personaggi dello spettacolo cosa che ne determinava il facile successo sia nel pubblico che nella critica. E in questo senso, all’interno dei NovoRealisti, Mimmo Rotella, con questi suoi strappi sui manifesti del cinema, è quello che si avvicinava di più, insieme con M. Raysse, al gusto Pop. Malgrado però la pretesa priorità della prima opera con manifesti strappati, Hains e Villeglé esposero le loro “affiches lacerées” soltanto nel 1957 presso la Galerie Allendy di Parigi, in una mostra personale a due; mentre Rotella già nel 1955-56 esponeva i suoi manifesti strappati a Roma e nelle sue personali al Naviglio, Milano e al Cavallino,Venezia. [Questa precisazione, dovuta, è solo per chiarire quella sterile controversia sulla priorità che si trascina da anni e che recentemente si è rinnovata nel catalogo della mostra “Gli affichistes tra Milano e Bretagna” tenutasi al Palazzo delle Stelline di Milano]

……….In tre anni (tra il 1959-1962) i Nuovo Realisti avevano liquidato l’informale e fatto cadere il mito anacronistico dell’ Êcole de Paris, ristabilito i legami vitali con le avanguardie americane, fissato un ruolo importante e non subalterno di Parigi e dell’arte francese nel panorama del contemporaneo. Negli anni che seguirono ci furono molte mostre e manifestazioni che si esaltarono a quello spirito di ricerca. Un Festival del N.R., che farà scalpore, si terrà a Nizza nel luglio 1961 che fu ripetuto a Monaco di Baviera nel febbraio del 1963. Molti dei Novo Realisti vennero invitati ad esporre nella mostra “Art of Assemblage” al MOMA di New York (1961); alla Biennale di S.Marino “Oltre l’informale” (1963) e nel proseguo degli anni sono state dedicate mostre personali nei più prestigiosi Musei ad ognuno di questi artisti. In quegli anni la comunità di intenti e di idee tra gli artisti americani, quali Rauschenberg, Jasper Johns, Stankiewicz, Chamberlain e altri new-dada americani di quegli anni, era evidente e corrisposta. Essi venivano ad esporre a Parigi e tenevano in massima considerazione le opere e le “sperimentazioni”, a volte eclatanti dei N.R. [come l’azione “Hommage à New York” (1960) di Tinguely, durante la quale una sua “Métamatic” si autodistruggeva tra scoppi di petardi e con il fuoco nel piazzale antistante il Museum of Modern Art, alla presenza di un pubblico formato da artisti, critici e direttori di Museo, cosa che influenzò enormemente A.Kaprow].
Restany stesso aveva facilitato questi contatti organizzando mostre, in varie gallerie di Parigi, e creando continue occasioni di incontro e confronto tra gli americani e i parigini. Un’idea che fu ripresa da Sidney Janis, all’epoca il decano dei galleristi di New York, nel 1962 con la mostra “The New Realists” nella quale rendeva omaggio agli artisti del gruppo francese. Esistono molte foto dei pittori J.Johns, Rauschenberg, o del gallerista Castelli, ripresi nelle gallerie parigine dell’epoca dove espongono opere oppure, come quelle più significative del 1961 dove si vede Rauschenberg , Johns e Castelli a Parigi che, durante la mostra di Niki St.Phalle, “Fuoco a volontà”, “sparano” con la carabina messa a disposizione per il pubblico, ai palloncini pieni di colore collocati sulle opere appese alla parete, in modo che l’esplosione del palloncino faccia colare il colore sull’opera e lo “sparatore” avrà così contribuito a completare l’opera.

Oggi finalmente al Grand Palais di Parigi (patrocinata dal Centre Pompidou) nella primavera-estate del 2007 e da settembre 2007 al gennaio 2008 allo Sprengel Museum di Hannover in Germania si tiene la prima grande retrospettiva del gruppo. La mostra che dovrebbe finalmente consacrare e far riconoscere a livello internazionale, quantomeno europeo, l’importanza di questo gruppo di uomini che, anche se rissosi, polemici e “cocasse”, “strampalati”, è stato pur sempre una “brigata” di artisti geniali e dalla forte carica creativa, che hanno lasciato in eredità alle generazioni future un patrimonio di opere e di comportamento. Un insegnamento che in futuro non sarà facilmente dimenticato né tanto meno rimarrà inosservato.
Questa è in effetti la prima grande e importante mostra riassuntiva del gruppo in un prestigioso spazio museale parigino dopo l’unica tenutasi nel lontano 1986 al Musée de la Ville de Paris e non è stato certo un caso se lo Sprengel Museum di Hannover che ha sede in Kurt-Schwitters Platz e ospita nelle sue sale, oltre ad una nutrita serie di opere degli altri dadaisti, l’importante donazione di opere che Kurt Schwitters ha fatto alla sua città natale e anche la ricostruzione del suo monumentale -mai terminato- Merzbau, riconosce oggi l’importanza delle opere di questo gruppo recependo e collaborando all’organizzazione di questa mostra.

Una facile e ironica conclusione, ora che sono passati oramai più di 40 anni dagli avvenimenti qui narrati, viene dalla constatazione del fatto che dagli artisti -e proprio da quelli più ostinatamente
anti-creativi e contestatori, che precedettero di poco i Situazionisti e il maggio parigino del ’68- da quegli artisti cioè che sono stati alla continua ricerca di distruggere il gusto e la “forma” dell’opera e del contesto dell’arte, come fecero, appunto, a suo tempo, i dadaisti, ora i NovoRealisti, e in seguito alcuni dell’Arte Povera, ecc.. sia nel contempo sorta, seppur nuova, ancora e sempre, un’opera e quindi un’arte. Cioè da intere generazioni che hanno declamato e sistematicamente attuato, nella realizzazione dei propri lavori, la destrutturazione dell’aura dell’opera d’arte, proclamando, a seconda dei casi, la fine dell’arte e cercando di estremizzare la produzione di opere mettendone perfino in discussione la necessità, l’esistenza e sottoponendole ai limiti della rappresentabilità. Oggi tutte queste opere mantengono invece miracolosamente ancora intatta tutta la loro dirompente forza e la genuina vitalità. Come pure, nell’osservarle, ci trascinano addosso tutta quella carica innovativa e quell’energia che ci proponevano all’epoca della loro nascita. A differenza di tanta arte propostaci in quegli stessi anni da artisti, sia singolarmente che da gruppi, che propugnavano e si dichiaravano creatori e portatori di un’arte nuova e rinnovatrice, sia nelle forme che nei contenuti. Da queste opere oggi, passati alcuni anni, riceviamo solo un’impressione di stanchezza, le sentiamo come standardizzate in un gusto desueto, sfinite e oramai prive di quella forza innovativa di cui tanto si facevano vanto negli anni ‘50/70 gli artisti che ce le proponevano.

R.Peccolo - settembre 2007

2006 - RifiutINarte

Negli ultimi dieci anni sono state fatte molte mostre d’arte moderna, anche museali, concentrate sul tema del rifiuto urbano e del come molti artisti moderni riutilizzino questi “cascami”; ( con una società contemporanea quale la nostra, sempre più incanalata verso il consumismo e quindi costretta quotidianamente a praticare il rigetto degli avanzi, la materia prima per gli artisti abbonda ! ).Le mostre più famose, tra le tante, furono “Trash: quando i rifiuti diventano arte” curata da Lea Vergine per il MART di Rovereto e quella a Palazzo Forti di Verona ”Dadaismo Dadaismi” in cui il curatore Giorgio Cortenova ricostruiva un percorso storico sul tema.L’anno scorso io stesso ho organizzato, con la collaborazione dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Brescia e il sostegno della Comunità Montana di Valle Sabbia, nelle cittadine della provincia bresciana Vobarno, Roè Volciano, Odolo e Gavardo, in quattro immensi spazi tutte ex-fabbriche della zona ( cotonifici e acciaierie restaurate e recuperate all’uso per eventi culturali -e anche questo fatto aveva creato un significativo legame tra le opere esposte e il loro contenitore- ), una rassegna sul tema di un’arte costruita attraverso il ri-uso, il riciclaggio degli oggetti trovati di cui gli artisti si appropriano per poi riutilizzarli nelle proprie opere. Già il titolo della mostra pretendeva di essere indicativo “Rifiuto Riusato ad arte”. Una rapida panoramica in cui avevo riunito opere di artisti più anziani, già operativi negli anni tra il 1950 e 1960, insieme, e quindi anche a confronto, con le opere di altri artisti di una o due generazioni più giovani. E nell’Antico Mulino di Gavardo avevo esposto una sezione di fotografi che durante gli anni ‘60/70 avevano scelto come tema delle loro foto le discariche urbane.Come abbiamo visto un modo di lavorare che nell’Arte Contemporanea viene da lontano e i cui progenitori storici riconosciuti sono stati gli artisti “Dada” ( operanti negli anni del primo dopoguerra, tra il 1912 e 1930 ). Allora si trattava di oggetti accumulati e riassemblati con intenzioni dissacratorie contro la stessa idea, ancora romantica, di ”Arte” e quindi oggetti che volevano costringere lo spettatore ad una reazione. E, come previsto, questa era, appunto, spesso di ripulsa o di negazione. Eppure l’introdurre in una Galleria o Museo una ruota di bicicletta o un attaccapanni o, nel caso ancora più estremo ed eclatante, un orinatoio da cesso ( intitolandolo “R. Mutt”-fontana- ), costringeva il pubblico dell’arte ad interrogarsi sul concetto di “Arte”; sulla stessa funzione e ricezione di un’opera d’arte nella società e sul suo funzionamento in quanto “oggetto” carico di simbologie e di significati. Nella mia rassegna avevo scelto artisti che utilizzavano pur sempre oggetti accumulati e riassemblati però con un metodo di lavoro più vicino al Dadaismo di Schwitters che non a quello di Duchanp. Nel senso che gli oggetti prescelti e riutilizzati non si arrestavano sulla soglia della semplice ricollocazione e dello spiazzamento atto a suscitare interrogazioni sulla funzione dell’opera d’arte, ma entravano nell’ambito dell’opera e gli stessi oggetti erano scelti e utilizzati per il loro colore o perché forme già pronte che sostituivano, o depistavano, altre troppo riconoscibili. Infatti si vede, nelle opere di questi artisti a noi più vicini, una relazione che discende dai lontani progenitori Dadaisti ma poi subito dopo, come padri da poco ripudiati, si sente ancora la stretta relazione con le opere dei Nouveaux Realistes francesi degli anni ’60 (artisti come Arman, Cèsar, Tinguely, Rotella, ecc.). Negli oggetti trovati e ricreati i Novorealisti avevano modificato molte cose in confronto all’uso che ne facevano i Dadaisti, sia riguardo alla realizzazione dell’opera che nell’atteggiamento di fondo. C’è una frase di Arman che mi aveva colpito molto e che chiarisce bene la differenza: “un bullone dà di se un’immagine, cinquecento bulloni messi dentro una scatola trasparente tutti assemblati insieme, un po’ alla rinfusa, me ne danno un’altra; anzi l’insieme esalta forme o figure che non avevo nemmeno previsto, ma che ritrovo nel momento in cui le vedo”.Oggi le nuove generazioni aggiungono qualcosa di nuovo, di più contemporaneo, aprendo un lato inatteso negli accostamenti. La recente generazione, nelle opere o negli assemblaggi che realizza, non usa più soltanto degli oggetti, piantati lì, accomodati o accumulati alla rinfusa, ma ne modifica e varia l’insieme, fa fare alle cose assemblate dei percorsi, spesso ne reinventa lo stesso immaginario. Giocando tranquillamente e ironicamente sull’insieme, con uno sguardo più attuale e disincantato, ormai lontano dal feticismo dissacrante del Dadaista e dalla contemplazione esistenziale, parigina dei Novorealisti. Questo rende il loro lavoro particolarmente coinvolgente e fruibile al pubblico. E’ pur sempre lo sguardo inedito degli artisti sulle cose che ci aiuta a vedere in modo diverso il mondo che ci circonda.Perciò è stato con vero entusiasmo che ho accettato, quando l’amico Davide Scarabelli mi ha invitato a collaborare con lui per l’iniziativa che stava organizzando del 1. Simposio Internazionale d’Arte con Materiali di Riciclo “rifiutINarte”, per il Comune di Prignano sulla Secchia, ed ho invitato gli artisti italiani e stranieri che conoscevo e il cui lavoro trovavo inerente al tema proposto dalla rassegna.Tutte le opere degli artisti invitati erano categoricamente su questo tema: il riutilizzo dei rifiuti urbani, o industriali, nelle loro opere e ognuno di loro ha lavorato riutilizzando molti materiali che provenivano dal circondario. I risultati di questi lavori, le opere da loro create, si sono integrate nell’arredo urbano del paese e del paesaggio e fanno ormai parte del patrimonio della cittadinanza. Sperando che stimolino nell’osservatore il suo senso estetico oppure la sua reazione critica; avranno in ogni modo assolto alla loro funzione principale.A conclusione di questa mia introduzione e divagando un po’ sul tema mi ritorna in mente un paradossale esempio dell’utilità del “ciclo sociale del riciclo in una società” e come questo sia così ben descritto nell’antico detto popolare francese che, grosso modo, recitava: “erano gli avanzi della tavola del Principe che sfamavano i poveri della sua corte e i contadini delle sue terre, ma era la cacca dei poveri e dei contadini che concimava rendendo rigogliosi i frutti per la tavola del Principe”. Solletica enormemente la mia auto-ironia, data la professione che svolgo, l’idea di ritovarmi un giorno nelle sale di una prestigiosa casa d’aste di Londra o Parigi a comprare lo sportello del vecchio armadio di mia zia Arduina, che gettammo dopo la scomparsa, pagandolo fior di milioni di dollari per il solo fatto che uno degli artisti Pop più famoso lo ha riutilizzato in una sua opera.Un esilirante modello di ironia della sorte; ma anche un’esemplare insegnamento che la vita continua a fornirci, proprio nelle piccole cose quotidiane, e su cui varrebbe la pena di soffermarci più spesso a meditare.
E in questo compito gli artisti ci sono di grande aiuto, se non per altro.

Roberto Peccolo 3 agosto 2006

INTERVISTA A ROBERTO PECCOLO a cura di Alberto Zanchetta


Zanchetta - Lo scorso anno hai spento le trentacinque candeline che commemoravano l’attività di galleria e a breve ti appresterai a varcare la soglia delle trecento mostre (sono cifre invidiabili, decisamente lungimiranti). Vediamo di ricapitolare: nel 1969 esordivi con il futurismo, seguirono poi l’astrazione geometrica, l’arte concreta, l’optical, il concettuale, la pittura analitica, l’informale, l’espressionismo astratto, Fluxus, Nouveau réalisme, l’art brut. Il gusto cambia ma non si rinnega?

Peccolo - Giusto! Il gusto cambia, si rinnova, attraversa travagliati percorsi o sorridenti successi (ma bisogna sempre stare all'erta con questi ultimi), si modifica e poi rispunta fuori inaspettatamente diverso da come lo prevedevi oppure, meglio, lo riscopri in cose, opere, persone dove non avresti mai previsto di ritrovarlo. Insomma è la meravigliosa avventura del gusto e le ragioni delle sue mutazioni che ci spinge sempre in avanti, "fuori dalla caverna". E l'unica certezza che resta sempre inalterata è riconoscere la qualità, anche quando questa è situata in cose o persone che senti al tuo contrario.Non ho mai visto alternative. Forse quando festeggerò i miei quaranta anni di attività magari ti risponderò diversamente. Spero senza rinnegare niente.             

Zanchetta - Hai sempre cercato di dare un taglio internazionale alla tua attività intessendo rapporti con l’estero, in particolare con l’Olanda, il Belgio, la Francia e la Germania. A Köln avevi persino aperto una galleria...
Nel 1999 hai presentato la personale di Hans Hofmann; di lui Greenberg scrisse che, nonostante l’indubbio valore, è «forse l’artista più difficile da afferrare e da apprezzare». Credo che in questa affermazione si riassuma la tua inclinazione per un’arte di ricerca ma non facilmente assimilata dalla critica, tanto meno dal mercato.

Peccolo - Perchè sono proprio gli artisti "più difficili da afferrare e da apprezzare" che ti impongono una maggiore concentrazione e quindi una riflessione sulle tue potenzialità di comprensione e di assimilazione del loro lavoro.Ti impegnano per poterli aiutare e allo stesso tempo ti aiutano a migliorare le tue conoscenze e i tuoi metodi.Qualcosa di molto simile a quello che ti succede con un proprio figlio difficile o disadattato.E alla fine, quando riesci nei tuoi intenti, la soddisfazione che ne ricevi è enormemente più forte, anche economicamente.Per entrare nello specifico ho fatto al mostra di H. Hofmann perchè venivo da una serie di mostre su artisti newyorkesi degli anni '50/60 "action-painting" (Goldberg, Bluhm, Parker) e mi sono detto che non potevo non far vedere il lavoro di quello che era stato l'insegnante di molti di loro. Tanta della pittura americana degli anni 50 era sgorgata dall'atelier di N.Y. (la stessa moglie di Pollock, Lee Krasner era stata sua allieva) dove questo vecchio bavarese insegnava ma, parlando ai suoi allievi in uno strano "slang" tedesco/americano, non sempre capito, era costretto a spiegarsi mostrandogli il "farsi" della pittura con esempi diretti. Ecco, da qui la sua produzione di numerosi fogli di pittura su carta di piccolo formato (dal costo basso e dalla bellezza compositiva intatta, ancora 40 anni dopo).      

Zanchetta - Quando ci conoscemmo un forte legante fu l’interesse per la riscoperta di artisti ingiustamente dimenticati oppure considerati, a torto, dei “minori”. Nel tuo caso ti sei industriato nella riscoperta di figure atipiche quali Gabriele Gabrielli e Francesco Di Cocco, organizzato mostre postume di Alfano, Agnetti, Costa, Romagnoni, un compito che dovrebbe essere demandato ai musei visto che comporta più oneri – monetari! come molti mi rimproverano – che onori.

Peccolo - Appunto quando i Musei, o meglio chi ne organizza le loro manifestazioni, se la prendono comoda e, come fossero in vacanza, inseguono solo il facile successo delle mostre "alla moda" o che fanno tendenza, o utili solo alla loro carriera, qualcuno dovrà pur sentirsi in dovere di prendere il testimone e lavorare affinchè artisti di tutto rispetto internazionale, lo siano di nuovo. E i quattro nomi che hai detto, fra i tanti altri che si potevano citare, sono in questo senso "eclatanti": tutti e quattro sono stati artisti che hanno significato alcuni dei momenti più forti della vicenda artistica italiana degli anni '60 e '70. Credo che non ci sia qui bisogno di spiegare tra noi le ragioni e il perchè della loro momentanea assenza dagli "onori". Ma, appunto, qualcuno deve pur segnalarlo ai responsabili del settore.       

Zanchetta - Nel corso degli anni hai stretto amicizie e instaurato moltissimi sodalizi con gli artisti, sia tra gli storici che tra i giovani. Vorrei ne ricordassi almeno tre, quelli con Winfred Gaul, Lucio Pozzi e Albano Morandi.

Peccolo - Winfred Gaul è stato il primo artista tedesco con cui ho collaborato ma con lui la collaborazione, con il passare degli anni, è diventata amicizia fraterna.Cercavamo di affrontare insieme soluzioni a problemi comuni, sia in campo economico che in campo artistico.Esempio presentarci a vicenda collezionisti, interessati a comprare; direttori di Musei, interessati ai temi della pittura che a noi piaceva (quella più analitica e autoreferente) ai quali proporre mostre su questo tema.Fu lui che, invitandomi e ospitandomi nel mio primo viaggio in Germania (1971), mi aiutò a sprovincializzarmi ed a capire meglio il ruolo che la mia professione aveva nel complesso della scena artistica internazionale, di quegli anni. Grazie a lui e a quel viaggio, riuscii a togliermi di dosso la polvere della provincia che rischiava di fossilizzarmi. E' stato in quegli anni che apriì la Galleria Peccolo a Koln (che poi è durata solo 3 anni).Durante tutti questi anni ho fatto numerose sue mostre nella mia Galleria a Livorno e ne ho organizzate altrettante in spazi pubblici e gallerie private; ed ho intenzione di continuare in seguito anche se ora lui non può più venire al vernissage. E' mancato 2 anni fa.  
Con Lucio Pozzi ci siamo incontrati nel 1977 e da allora siamo ottimi amici e ci stimiamo enormemente, anche se di lui, in tutti questi anni, ho fatto solo 3 mostre personali.Ho inserito i suoi lavori in molte collettive a tema ed ho già edito sul suo lavoro alcuni bei libri esplicativi del suo modo di lavorare, dei quali siamo entrambi orgogliosi. Invece con Albano Morandi, come con Corrado Bonomi o Raffaella Formenti e altri ancora, che sono di una generazione più giovane, cerco più un rapporto da compagno di strada: lavorare insieme su progetti di mostre, organizzare collettive, articoli o altro sui temi che li coinvolgono. Insomma tutta la normale routine di lavoro che chiunque pensi di voler fare seriamente questa professione deve cercar di produrre per gli artisti con cui collabora.