2005 - intervista a R. PECCOLO

Livorno - Novembre 2005





SABRINA RICCI: Il periodo della fine degli anni ’60 inizio ’70 ha visto fiorire molte correnti artistiche; sono gli anni della rivolta giovanile, della rivoluzione sessuale, dei grandi ideali. Era il maggio ‘69 quando apre la galleria Peccolo e inizia a trattare prima arte moderna e successivamente arte contemporanea. Quale clima socio-culturale si respirava a Livorno in quegli anni?
Quali altri spazi, oltre la sua galleria, trattavano arte contemporanea?

ROBERTO PECCOLO: Sul clima socio-culturale non ti so rispondere così specificatamente , sul piano più strettamente artistico sì. In quegli anni a Livorno era dominante una pittura tardo-romantica, una sorta di lunga continuazione dello stile macchiaiolo, post-macchiaiolo, realista, ecc. Un’arte che aveva avuto il suo splendore durante la metà dell’800 ma che oramai si trascinava sempre più stancamente. E tutto questo aveva finito per condizionare il gusto del pubblico in generale e anche del collezionismo, sia privato che pubblico. Le uniche novità erano portate, qualche volta, dalla galleria Giraldi che proponeva spesso, oltre ad artisti figurativi, anche pittori astratti e non figurativi, facendo mostre un pò diverse. Inoltre c’era la Galleria Fante di Picche, diventata poi Graphis Arte dei fratelli Guastalla che proponeva, dall’apertura nella metà degli anni ’60, quel filone artistico sviluppatosi nell’ Italia del dopoguerra e che andava dal Neorealismo, alla Nuova Figurazione, alternandolo con mostre di alcuni maestri del ‘900. E occupandosi particolarmente di grafica.

SR: La galleria Guastalla è ancora attiva a Livorno?

RP: Esiste ancora adesso, ma non è più dei due fratelli, è di uno solo, l’altro ha aperto a Milano. Come Giraldi, la vecchia galleria di Bruno Giraldi non esiste più, fu chiusa dopo la sua morte; ma è risorta da qualche anno grazie al figlio che l’ha riaperta seguendo più o meno il filone del padre. Ci sono alcuni personaggi di questa città, artisti, collezionisti, che ricordano bene le mostre fatte, dalla metà degli anni ‘50 al ’65, dalla galleria Giraldi perché furono dirompenti;“formidabili” come diceva lui stesso.

SR:Giraldi ha esposto artisti livornesi moderni come Nigro, Chevrier ed altri V.Fontani, M.Landi ?

RP: Non ha esposto soltanto artisti moderni livornesi, ma artisti del calibro di Rosai, Reggiani, Baj, Crippa, Bertini, Fontana. Mario Nigro aveva fatto da lui una mostra già nel 1952; ma Nigro non ha esposto solamente da Giraldi, ma anche alla Casa della Cultura. La “Casa della Cultura”, appunto, sembra come un destino di questa città, una “maledizione”, recentemente ha cessato ogni attività sia espositiva che propositiva, ma era stato un altro di quei luoghi che aveva vissuto numerosi anni, facendo mostre di qualità come quella di Nigro nel 1954 e ’65 (io vidi questa del ’65), di Vinicio Berti nel 1966, di Cagli nel 1969, e anche quella serie di mostre “Ricerche linguistiche intersoggettive” del 1967 (un’ampia panoramica, durata alcuni mesi, di artisti cinetici, gestaltici e della ricerca visiva). E altre mostre che ora non ricordo. Insomma di cose importanti ne sono passate in questa città ma, come spesso succede, o sono passate inosservate o lasciano traccia solo nei pochi frequentatori affezionati. Il Living Theatre per esempio, molti non ricordano o non lo sanno, ha fatto una performance alla Casa della Cultura nel 1968. In quegli anni il ruolo della Casa della Cultura, parlo degli anni tra il 1955 e il 1975, come luogo di esposizioni e di avvenimenti è stato molto forte e propositivo, anche se saltuario.
Negli anni successivi,dopo il ‘78/80, questo ruolo si è molto affievolito. Le manifestazioni annuali del Premio Modigliani ebbero sede lì, tra il 1956 e il 1967. E nelle due edizioni finali quelle del 1963 e del 1967, fu abbinato al Premio Modigliani, che era diventato biennale, una rassegna sull’arte contemporanea con sede alla Casa della Cultura. Nel 1963 ci fu la mostra “L’informale in Italia fino al ‘57” curata da Calvesi, molto bella e ben documentata, ampia e divulgativa. Per l’edizione del 1967 l’abbinamento fu “Serigrafie della Pop americana”, per la città un’altra esposizione memorabile. Ma allo stesso tempo, appena terminato il grosso avvenimento clou, venivano fatte delle mostre di artisti minori o locali per cui tutto ridiventava più provinciale e un po’ troppo saltuario e precario. Tanto è vero che, finito il Premio Modigliani nel ’68, chiuso per motivi di contestazione, come è stato fatto con i premi della Biennale di Venezia e con quasi tutti gli altri premi sia italiani che esteri. (La contestazione nacque tra gli operatori culturali e gli artisti per una diversa e contraria visione dell’uso che veniva fatto delle attività culturali. Gli effetti di questa diversa visione sono durati fino ai recenti anni ’90 poi, con il cosiddetto post-moderno, tutto è ricominciato). A Livorno dopo il ’70, finito quel periodo di buona attività, Casa della Cultura, ha rallentato le manifestazioni internazionali, fino a diventare il luogo espositivo in cui si privilegiavano solo mediocri artisti locali.Qualche anno dopo a Livorno è nato il Museo Progressivo d’Arte Contemporanea di Villa Maria, grazie alla spinta dell’allora Assessore alla Cultura. Infatti proprio in quegli anni fu creato un Assessorato alla Cultura autonomo, finalmente separato da quello allo Spettacolo e all’Istruzione, e vi fu nominato Vittorio Marchi, una persona che aveva un vissuto familiare di buona e aperta cultura. Era nipote del famoso architetto futurista livornese, Virgilio Marchi. (Virgilio Marchi era un architetto futurista, di famiglia livornese, mi sembra sia vissuto a Genova, molto bravo, ma purtroppo, come è stato per molti architetti futuristi, Sant’Elia, Chiattone e altri, esistono solo rari esempi di architettura costruita. Tutti loro sono riconosciuti e studiati più sulla base dei progetti che non per le opere poi realizzate). E quando sorse il Museo Progressivo fra le altre mostre ne fu organizzata una su: Virgilio Marchi architetto futurista.

SR: Si, infatti, fine 1974, nasce il Museo Progressivo di Arte Contemporanea accolto nei locali di Villa Maria. Entrambi lavoravate sul contemporaneo, ma in definitiva quali sono stati i suoi rapporti con questo Museo?

RP: Durante le inaugurazioni qui da me, qualche conversazione o incontro tra gli artisti che esponevo e l’assessore alla Cultura, o Vera Durbè, anche lei appassionata e frequentatrice delle mostre nella mia galleria, ce ne sono stati. Frasi e argomenti del tipo: “sarebbe necessario che nella città nascessero luoghi polivalenti dove far le mostre o un museo, luogo didattico, dove esporre le opere raccolte”. In quegli anni, conversazioni su argomenti simili, credo ne venissero fatte a bizzeffe nelle gallerie o durante le numerose occasioni di mostre e dappertutto, non soltanto a Livorno. La mancanza di una rete museale, dedicata all’Arte Contemporanea, efficiente e funzionante era un’esigenza sentita in molte parti del nostro paese. Che poi qui a Livorno, in seguito e fortunosamente, sia stato realizzato qualcosa, anche se di breve durata, è tutta un’altra storia. Ricordo di una particolare conversazione su questo tema specifico con M.Ballocco,allora insegnante di cromatologia all’Accademia di Brera a Milano e ricordo che, durante la sua inaugurazione, fece una lunga chiacchierata con la Durbè e con Marchi spiegando bene a loro quali potevano essero le reali possibilità e i passi necessari per riuscire a far sorgere un nuovo museo, offrendosi di parlarne con altri artisti suoi amici per coinvolgerli in questo eventuale progetto. Credo che fu lui a parlargli di Aldo Passoni, allora vicedirettore della Galleria Arte Moderna di Torino e curatore di tutta una serie di mostre importanti che il Museo torinese stava facendo in quegli anni. Infatti fu Passoni a impostare le prime idee e i primi progetti sul costituendo Museo. Purtroppo, ironia della sorte, non riuscì nemmeno a vederne l’inaugurazione: morì alcuni mesi prima in un incidente stradale. Così contattarono lui e con lui gli altri critici di fama internazionale che divennero poi curatori della collezione e delle mostre del Museo Progressivo di Livorno.

SR: Alcune opere di artisti che hanno esposto da lei fanno parte oggi della collezione del museo. E’ stato lei il tramite tra Olivieri, Zappettini e il museo?

RP: No, perché fu costituita una Commissione di critici (Aldo Passoni, Zeno Birolli, Vittorio Fagone e Lara Vinca Masini) che fu incaricata di individuare le linee di ricerca artistica che dovevano delineare la base portante della collezione (a formare il carattere, la specificità, del Museo) dopodichè, tra le altre linee di ricerca ne fu individuata una sul tema della Pittura analitica, e, a quel punto, furono sentiti gli artisti -quelli tra loro che erano disponibili a donare un’opera ad un prezzo simbolico- affinchè il Museo potesse aprire con una collezione di opere di nomi ben conosciuti amalgamati ad opere di artisti, allora, emergenti. Io, durante questa fase, feci solo da tramite per gli artisti che conoscevo e che erano stati invitati a partecipare al progetto. Prima di tutto questo però fu deciso, intelligentemente, di recuperare tutte le opere acquisite dall’Amministrazione durante il periodo del famoso Premio Modigliani. Cosa che non fu di poco conto. Per molti anni, attraverso i premi, non avevano acquisito molti capolavori, sembravano più acquisti fatti per assecondare gli artisti della zona; ma nelle edizioni degli anni tra il ’63, e ’67 erano state acquistate opere molto importanti, basilari, ancora oggi da ritenere dei veri capolavori.Vedi ad esempio lo Spazio totale X di Nigro, Hiroshima n.2 di Tancredi e il magnifico Grande rettile di Pascali. Queste acquisizioni, come tutte le opere che furono poi semidonate dagli artisti prescelti formarono la Collezione Permanente e con queste fu aperto il Museo. All’apertura non fu edito un catalogo, ma oggi le opere sono tutte documentate nel catalogo della mostra “Il grande rettile e gli altri”, mostra che si è svolta nell’estate 1999 a Livorno nei locali del Museo Fattori di Villa Mimbelli, e nelle cui pagine sono state riprodotte la maggior parte delle opere della collezione che costituivano la Collezione dell’ex Museo Progressivo di Villa Maria. Tutte queste opere oggi fanno parte delle Civiche Raccolte della città, ma, attualmente, non sono esposte in permanenza. Sono nei depositi in attesa di una collocazione che abbia un senso.Le recenti amministrazioni non hanno il coraggio di riconoscere l’errore, fatto all’epoca, nel chiudere il Museo Progressivo di Villa Maria riaprendone un altro o quantomeno rifondando un luogo polivalente dove possono essere esposte al pubblico le opere della collezione e dove al contempo si organizzino mostre e manifestazioni sul contemporaneo. Recentemente hanno fatto una mostra riassuntiva di tutti i Premi Modigliani e dei relativi acquisti. Lì si è potuto vedere chiaramente come non sia difficile mutare il gusto nelle acquisizioni durante gli anni. Nelle prime edizioni, anni ’55 in poi,premiarono e acquisirono Cavicchioni, Frunzo,Frasnedi, Sassu, Pizzinato. Dal ’63 in poi c’è stata una vera mutazione nelle acquisizioni, cosa che è sicuramente dovuta al cambiamento della commissione critica addetta alle premiazioni. Sostituita quella troppo provinciale, che faceva le scelte per le acquisizioni guardando ad autori cittadini o dei dintorni, con una commissione più caratterizzata in ambito nazionale, gli autori acquistati cominciavano ad avere un’altra risonanza. Il primo premio, dato dall’Amministrazione Comunale era un premio acquisto, quindi erano opere che rimanevano di proprietà della città. Probabilmente c’era già, consciamente o inconsciamente non so, l’ipotesi di far sorgere, un giorno, qualcosa. In realtà però questo non è mai stato dichiarato apertamente, programmaticamente, hanno sempre acquisito così, tanto per acquisire patrimonio culturale, come impegno dell’Amministrazione della città nei confronti della cultura moderna regionale e nazionale. Non si vedeva ancora una visione prospettica di qualcosa che dovesse nascere. Però, dal 1973/74 in poi, quando sorge l’Assessorato alla Cultura con Vittorio Marchi, primo Assessore alla Cultura della nostra città, questo diventa un impegno propositivo per i 4 anni dell’incarico. E infatti Marchi è arrivato alla fine del suo mandato riuscendo ad aprire il museo e a farlo partire. Però poi alla fine, anche questa esperienza, è durata soltanto una quindicina d’anni. Come dicevo, sembra appunto un destino che incombe su questa città. O forse, più probabilmente, le forze contrarie ad una seria, internazionale, attività museale sono, in questa città, troppo preponderanti. Anche se criticato da molte parti, nei primi dieci anni il Museo ha funzionato, ha fatto un’attività continua; poi cominciò a rallentare anche perché, a sentire quello che dicevano la Durbè o altri, continuavano a mancare i soldi. Ma tutta questa storia è ben spiegata nel catalogo della recente mostra "Il Grande rettile e gli altri". Una esperienza entusiasmante purtroppo finita male. Anzi, forse, proprio per come è finita potrebbe essere una vicenda esemplare, da studiare, per i molti altri Musei che sorgono sui momentanei entusiasmi di un’Amministrazione, comunale o privinciale o regionale, o di qualche Fondazione privata e che dopo gli iniziali entusiasmi vengono abbandonati come giocattoli inutili e destinati alla chiusura oppure rimangono atrofizzati dai debiti e abbandonati a sopravvivere come possono,senza prospettive.

SR: Qual’ è il filo conduttore, se così si può dire, che ha seguito la galleria Peccolo in tutti questi anni di attività?

R.P.:Il filo conduttore, forse non sono sempre riuscito a renderlo evidente, ma nella mia mente è sempre stato chiarissimo: una riflessione sull’arte contemporanea e sulla ricerca degli artisti, italiani e no, che è andata sviluppandosi dal futurismo ad oggi (fino ad oggi, proprio no, perché oramai siamo nel 2005, ma almeno fino agli anni ’80/’90, si) e tutto questo entusiasmo, come pure la mia visione personale che ho sull’arte, mi resta ancora intatta e spero che mi resterà così chiara fino a quando la Galleria rimarrà aperta.Parlando con Meneguzzo, durante un’intervista da pubblicare per un catalogo, gli spiegavo la mia “visione” del mondo dell’arte,usando come paragone al nostro ambiente quello di una foresta (avrei dovuto dire “di una jungla”) dominata e piena di grandi e maestosi alberi; gli facevo notare come lì esistono e vi si trovano fiori e piante dai colori bellissimi e piccoli arbusti dalle forme più fini, più belle, soprattutto: più “a portata di mano”. Come nel bosco anche nel mondo dell’arte ci sono forme e colori bellissimi, dipende da quello che uno vede o cerca…. Anch’io quando vado per boschi ammiro, come fanno tutti, le grandi querce e gli abeti giganti, che sono magari proprio quelli che danno il nome al bosco, ma poi mi soffermo a gustare le fragole e i mirtilli che, guarda caso, sono le piante più piccole e nascoste del sottobosco. E questo è il live-motive (o filo conduttore) che accompagna, fin dagli inizi, la mia attività e che ogni tanto riesco a rendere evidente e dichiarato. Come quando ho organizzato tre serate di 3 incontri con critici d’arte –uno per ogni serata- che chiamai La riflessione della critica. Chiesi ai tre critici, che all’epoca stimavo: Bonito Oliva, Menna e Celant di parlare delle loro metodologie di lettura dell’opera e degli avvenimenti artistici, cosa che loro fecero rivelandosi quei seri ricercatori che conoscevo.Quando ho seguito la Pittura degli anni ’70 ho sempre dimostrato un più forte interesse verso i pittori più analitici che non per quelli più lirici.Ancora recentemente ho organizzato due giornate di incontri e conferenze sul tema Lettrismo e Situazionismo con conferenze, opere esposte, filmati, ecc., affinché scaturisse dagli incontri, tra il pubblico e i relatori, una chiara visione di cosa è stato il Lettrismo e, in modo particolare,cosa è stato il Situazionismo,di cui -recentemente- tanto si parla e poco si conosce. Fino ad oggi, con le mostre fatte in galleria ho cercato di seguire tappa per tappa quegli avvenimenti artistici che si sono susseguiti nella storia dell’Arte Contemporanea, dando una mia preferenza per quelli che sono stati, a mio parere, i più essenziali -quelli cioè che avevano prodotto delle opere con una più forte mutazione in confronto ai lavori dei loro contemporanei-. In questa ottica se all’epoca avessi potuto (avessi avuto i mezzi economici e le relazioni adatte) avrei cominciato con il “dadaismo”. Infatti, come asseriva, allora Hugo Ball –uno dei fondatori- la parola “dada” riprendeva in forma onematopeica il primo balbettìo di un bambino; per reagire alla grande abbuffata del post-impressionismo imborghesito e delle opere ormai accademizzate delle avanguardie cubiste del primo 900, avevano cercato di creare un nuovo “punto zero” da cui ripartire. Anch’io, allora, cominciando a costruire qualcosa di diverso avrei voluto partire da zero; proprio come avevano fatto loro sessant’anni prima. Ma non potendo, per questioni economiche e di organizzazione, iniziai con quello che avevo più a portata di mano, che era anche più facile riuscire a realizzare. In quegli anni era calata un pò d’ombra sul futurismo; vuoi perché nel dopoguerra erano stati quasi tutti tacciati di simpatie verso il regime fascista -esponevano spesso in mostre vicine all’ideologia fascista-; vuoi perché qualcuno di loro lo era stato veramente -e per questo automaticamente messo in ombra-; vuoi perché nel dopoguerra erano sorte altre tendenze radicalmente opposte al futurismo e che si focalizzavano in tutt’altre direzioni come il Neorealismo, l’Espressionismo Esistenziale,la Nuova Figurazione e (poco dopo) la Pop art. Quello che era futurismo sembrava una cosa ormai lontana, del passato e questo, paradossalmente, facilitava le cose per organizzare le loro mostre. Come aveva facilitato, pochi anni prima, le mostre e l’acquisizione di importanti opere futuriste da parte delle prestigiose collezioni private e Museali americane. Ricordo che andavo a trovare degli artisti, oppure in alcuni casi i loro eredi, che ormai avevano 70/80 anni e che vivevano un pò appartati; erano molto felici di trovare qualcuno che, dopo tanti anni, li esponeva in una città di provincia (perchè a Milano o a Roma qualche galleria che faceva ancora una loro mostra c’era, però non erano sicuramente tornati sugli altari, come si dice, e come, finalmente, lo sono, di nuovo, e giustamente, da qualche anno in qua). Andai a Perugia a trovare Dottori, che era ancora vivo, aveva 90 anni e tutto contento mi caricò la macchina di quadri promettendomi che sarebbe venuto a vedere la sua mostra. Cinque-sei giorni dopo l’inaugurazione, apparve qui in galleria, aveva preso un taxi che lo aveva accompagnato da Perugia a Livorno per vedere la sua mostra. La tappa conseguenziale successiva alle mostre sui futuristi è stata per me la generazione dell’astrattismo geometrico (o concretista, come dicono gli svizzeri) ma comunque una pittura di stampo geometrico ed erede del Costruttivismo russo degli anni ‘10. Automaticamente nel giro di due-tre anni ( perché facendo, come ancora oggi faccio, una media di sei-sette mostre all’anno), avevo realizzato quelle cinque, sei mostre sul gruppo dei futuristi (quelli che ero riuscito facilmente ad esporre, poiché Boccioni era irreperibile e Severini già troppo caro. E gli altri ancora vivi erano già della seconda-terza generazione futurista e mi interessavano meno). Poi con le mostre degli astrattisti geometrici di Milano, Como e dei Concretisti svizzeri, in tutti erano una diecina, ho coperto un anno e mezzo di attività, (in una stagione riuscivo a esporre quasi tutti gli autori di un certo movimento). Dopo circa tre anni, dall’apertura, ho fatto mostre a qualcuno degli artisti della Optical art, e ad autori dell’allora denominata “ricerca visiva”.Queste mostre erano come un passo obbligato, consequenziale alle mostre precedenti. Contemporaneamente però avevo visto, da Sperone a Torino, delle cose che mi avevano affascinato molto ossia le opere di Sol Lewitt, Judd, una mostra di Flavin ed altre opere “Minimal”. Mi apparivano così “essenziali”, Zen, meditative. Fu grazie a Sperone che riuscì ad organizzare da me la mostra degli Incomplete open Cubes di Sol Lewitt e di Kosuth con le opere Art as idea, as idea. Quasi nello stesso anno avevo incontrato e cominciavo a vedere pittori che facevano quadri completamente bianchi, o completamente neri, oppure dai colori tenui, mezzo-tono, ma con pochissime cose che si muovevano sulla superficie, piccole pennellate o piccoli segni, ma proprio quasi invisibili. Infatti organizzai una collettiva alla Casa della Cultura, era una mostra troppo ampia per lo spazio della mia galleria, dal titolo significativo Tempi di Percezione. Era la pittura che nasceva in quegli anni, nella stessa epoca in cui era sorta e veniva esposta la Minimal art e l’arte concettuale e trovai che questi lavori arano più vicini tra loro di quanto non sembrasse; avevano lo stesso contenuto mentale, autoriflessivo, minimale e contemplativo. E così dopo la metà degli anni ‘70 ho fatto tutta una serie di mostre dei giovani pittori (all’epoca quarantenni) come Cecchini, Zappettini, Morales, Griffa. Trovavo la loro pittura molto vicina alle opere “minimal”; una pittura minimalista, meditativa e autoriflessiva. In contemporanea con loro esponevo altri pittori, sempre astratti e riflessivi, ma più lirici, che sentivo meno vicini al minimalismo perché, pur facendo in quegli stessi anni anche questi una loro personale, riflessione sulla pittura (come Olivieri, Verna, Vago,Guarneri) il risultato, nei loro quadri, prendeva però un carattere diverso, più naturalistico e lirico. Oppure come in Gastini che dopo quegli anni ha continuato per la sua personale strada, più vicina all’Arte Povera . Nel catalogo che recentemente ho edito per i 35 anni della galleria ci sono specificate, stagione dopo stagione e mostra dopo mostra, tutte le esposizioni che ho portato a Livorno. Decisi in seguito di dedicare una o due stagioni di mostre agli artisti del gruppo “Forma 1”. Un gruppo che a mio parere aveva dato, agli inizi degli anni ’50, una svolta determinante sia alla cultura che alla pittura italiana del dopoguerra: Dorazio Accardi, Sanfilippo,Perilli, Consagra, ecc…. Ho sempre scelto guardando all’interno della situazione, diciamo così, del non figurativo, però sempre attraverso gruppi o situazioni che hanno insistito, che hanno avuto una loro forza di mutazione nella cultura italiana e che si erano affermati grazie a questo. Non andavo certo a caso ho sempre mantenuto una relazione, quando facevo delle scelte, con una situazione conosciuta, che era esistita, che aveva operato o si era costituita come parte integrante, oppure alternativa, nell’ambito delle proposte artistiche sue contemporanee.Probabilmente questa mia voglia continua di fare è stata una reazione alla situazione stagnante locale che è stata anche la ragione principale per cui decisi di aprire la galleria. Decisi di iniziare la serie di mostre come gallerista perchè in realtà ero già aperto: avevo il negozio di mio padre, antiquario, dove avevo un mio spazio, quello dove ora c’è questo ufficio e dove io esponevo dei quadri moderni facendoli vedere alle persone che venivano a comprare i mobili (suscitando molte perplessità in loro e in mio padre).Solo un anno dopo le prime mostre ho rinnovato i locali e aperto ufficialmente la Galleria Peccolo. Ho sempre creduto che in questa città sono esistite molte cose di non poca importanza ma che sono sempre state ignorate. Ad esempio Peruzzi, un pittore futurista di Livorno era completamente sconosciuto ed isolato qui, addirittura le persone forse non sapevano nemmeno che fosse esistito il futurismo e se lo conoscevano, persavano fosse una cosa lontana, passata. Ecco questa è stata, probabilmente la causa del mio modo di confrontarmi con la realtà che mi circondava, tener sempre presente le vicende artistiche e la storia che era successa e portare a Livorno i personaggi che di questa storia avevano fatto parte e che erano da vedere, da guardare, da studiare. Ho sempre invitato oltre al pubblico anche gli artisti locali a venire a vedere le mostre che facevo qui; solo, sai, gli artisti…vengono, guardano quello che gli interessa oppure non guardano affato perché non gli interessa. Loro sentono la loro arte. Invece secondo me sarebbe una funzione utile della galleria veramente da sfruttare, da approfittarne e da parte di tutti: pubblico, artisti, curiosi, perché le opere stanno lì sul muro, fanno il loro dovere “si mostrano” e vogliono essere guardate, discusse, confrontate. Allora, la galleria, acquista un senso come luogo di eventi, altrimenti il suo ruolo non si differenzia da quello di un negozio dove, ad esempio, si vendono lampadari. Secondo me c’è un valore aggiunto in una galleria che è questo.

SR: Si, infatti la galleria è stata anche sede di incontri e dibattiti

RP: Si, oltre alle manifestazioni a cui accennavo prima, per l’occasione della centesima mostra della galleria, nel giugno 1981, ho organizzato una “Festa-Festival 100° mostra” che è durata più di un mese e durante il quale in ogni serata c’era una mostra, una installazione, o performance, o danza, proiezioni di film, concerti jazz e azioni teatrali.In due diverse serate ci furono le azioni teatrali di due tra i gruppi teatrali di ricerca più conosciuti del momento: Il Marchingegno (di Giancarlo Cauteruccio) e La Gaia Scienza (di Giorgio Barberio Corsetti e Marco Solari) oggi scioltosi. Poi per l’intera stagione che seguii ho alternato mostre di pittura a performance, azioni e conferenze. Mi piaceva molto l’idea di galleria come spazio aperto ad ogni forma di avvenimento. Durante questo tipo di serate a volte getti dei semi, come diceva la famosa parabola, che, a seconda dei casi, a volte finiscono da una parte, seccano e non fanno nascere niente, in altri punti invece, inaspettatamente, vedi germogliare il grano.

SR: I quattro artisti che sono andata a trovare nei loro studi, Cecchini, Morales, Olivieri e Zappettini, hanno in comune, oltre al fatto di aver esposto nella galleria negli anni ’70, l’appartenenza ad un certo tipo di pittura, la pittura-pittura, o pittura riflessiva o, per alcuni di loro, al versante più estremo della pittura analitica. La galleria è stato sicuramente un punto di riferimento importante per la nascita sia della pittura riflessiva che della più radicale analitica. In particolare che cosa la affascinava di questi artisti, del loro modo di dipingere?

RP: Si, ho fatto una serie di mostre che riguardavano più in generale la pittura-pittura in cui esponevano anche questi quattro artisti. Successivamente ho seguito più da vicino, perché mi affascinava di più il loro lavoro, quelli che secondo me erano più analitici o radicali. Qualche anno dopo, agli inizi degli anni ‘80, nascevano a New York delle manifestazioni e degli incontri e conversazioni tra pittori,tenuti nello studio di Marcia Hafif che terminarono con una mostra che si intitolava Radical Painting .A quegli incontri hanno preso parte alcuni degli artisti che io avevo esposto, come Gunter Umberg, Marcia Hafif, Raimund Girke, Carmengloria Morales ed altri.Ho sempre fatto mostre che riguardavano più la pittura che non la scultura e all’interno della pittura ho sempre scelto una pittura non figurativa. Mi interessava il fatto che il pittore avesse in testa, mentre dipingeva, il senso con cui costruiva il suo quadro, che si concentrasse sul “farsi” della pittura nel momento stesso in cui la faceva. Non quando erano fisime da pittore intellettuale, ma quando da pittore si poneva quei problemi, autoreferenti, basilari del suo stesso modo di lavorare. Una specie di analisi, anche introspettiva se vuoi, come direbbe uno psicanalista, sul suo modo di comportarsi, della sua condizione, del suo atteggiamento sul lavoro, nei confronti degli strumenti che usa e della tela che ha di fronte. E non è un’analisi così sui generis, quale può essere fatta da tutti, anche dal pittore che dipinge un paesaggio, il quale arriva alla fin fine a fare un’analisi di questo tipo, ma nel pittore analitico di quegli anni quella analisi provocava qualcosa in più, per esempio una tela monocroma, scarna o poco dipinta, oppure come nei “Support Surfaces” francesi, che a mio parere negli stessi annio facevano un’operazione parallela e ancora più radicale –indagavano sulla trama e l’ordito della tela o del telaio, ecc.- e soprattutto modificavano il modo di installare le tele sulla parete e le possibuilità di relazione e di interpretazione dei dipinti fatti. Qualcuno era arrivato a non dipingere con il pennello ma ad immergere la tela stessa nel colore. Tanto è vero che ho sempre portato come esempio,per la comprensione di questi metodi operativi, il famoso film di Federico Fellini 8 e 1/2. In questo film si vede non solo il capolavoro filmico che è, ma anche un aspetto, che io chiamo, analitico, come per la pittura, perché Fellini in realtà costruisce un film in cui fa tutta una spiegazione di come lui vorrebbe o potrebbe fare un film. Lui non fa il film con una storia, ma si racconta e ci racconta e ci fa vedere il suo progetto: una sua fantasia che gli scatta pensando ad una storia per fare il film. Da lì gli viene in mente che potrebbe fare una scena così, poi un’altra scena…e tu intanto vedi le scene che gli vengono in mente. Dopo vedi che parla con il tizio e si accorge che la scena era troppo difficile da realizzare allora parlando con lui viene fuori che la scena si potrebbe fare in un altro modo. E lì nel frattempo le scene continuano e si sviluppano in quel modo. E’ un film che parla di come un regista avrebbe voglia di fare un film, delle sue fantasie e di come forse riuscirà a farlo quando lo farà; ma il film, nella fiction viene dopo, se mai verrà. In realtà il film è già stato fatto. Quando appare la parola FINE il film è già stato fatto. Ho sempre pensato che in questo capolavoro di Fellini ci fosse la spiegazione “visibile” –la cartina di tornasole- di tutto questo modo di lavorare autoriflessivo (auto-analitico).Anche se il mezzo usato era diverso, a mio modo di vedere, in alcuni tra i pittori analitici c’era un simile atteggiamento di fondo, molto vicino a quello espresso nel film da Fellini. E recentemente, per uno strano caso del destino, ho esposto le opere di M. Lemaitre, un Lettrista francese, che oltre ad opere dipinte, grafiche e libri ha realizzato alcuni film sperimentali, divenuti poi famosi, uno dei quali, del 1951 –guardacaso- si intitola Il Film è gia cominciato ?. Questo lo dico perché alcuni di loro, i pittori intendo, riuscivano ad esprimersi con parole, o testi, che mi chiarivano molto, ma molto lucidamente questa loro concezione sulla pittura, mentre qualcun altro invece riusciva a spiegarsi meno con le parole ma più lucidamente attraverso il dipinto.

SR: Una galleria di stampo internazionale che si è proiettata oltre la città di Livorno. Agli inizi degli anni ‘70 ha avuto rapporti con musei della Germania aprendo una sede anche là. Che cosa mi racconta di questa sua esperienza?

RP: In questa scelta che io feci sui pittori di un certo tipo, della pittura analitica o più radicali che erano poi alla fin fine quei quattro o cinque che ho seguito più da vicino, ci fu un momento in cui trovammo facili consensi in Germania. Perché in Germania c’erano musei con direttori aperti verso la pittura e che esponevano spesso arte Minimalista; perché c’erano anche molti pittori analitici che erano vicini alle cose che facevano gli italiani; perché in Germania c’erano una serie di musei ben organizzati che avevano soldi e disponibilità per organizzare mostre tematiche ampie e ben organizzate.A quel punto decidemmo, anche gli artisti dettero una mano dal punto di vista organizzativo, di aprire uno spazio dove poter mostrare le loro opere, per poterle mostratre dal vivo e non andare in giro con foto o cataloghi. Erano gli anni in cui andare in Germania era qualcosa di un po’ avventuroso. Si sapeva che gli italiani andavano in Germania come operai a lavorare alla Volkswagen, era una cosa da immigrati. Però in realtà là il mondo della cultura e specialmente dell’arte contemporanea era molto disponibile, curioso, aperto. E c’erano già le tracce di rapporti tra le gallerie, Sperone di Torino con K. Fischer di Dusseldorf e Paul Maenz di Colonia che esponevano e si passavano le mostre di arte concettuale, minimale e già anche qualcuno dell’arte povera. Infatti Germano Celant viaggiava continuamente tra l’Italia e la Germania per propagandare le opere degli artisti che seguiva e organizzargli le mostre, ma all’epoca non erano ancora molti quelli dell’arte povera ma erano di più gli americani dell’arte concettuale e minimale. La Germania in quegli anni attraversava un momento di grande boom non solo economico, ma anche culturale. Si erano riaperti e rifunzionavano i musei, finalmente era finito l’isolamento della Germania che fino agli inizi degli anni ’60 era stata bloccata dall’eredità derivata dal nazismo e dalle distruzioni della guerra; si stava finalmente liberando era diventata una Repubblica Federale. E il federalismo lì ha funzionato, cioè, le regioni –i Landers- hanno funzionato poiché hanno iniziato a supportare i loro musei affinchè ospitassero le novità che venivano dagli altri paesi dell’Europa e dall’America.Ma non solo per le arti visive, ha funzionato anche nella musica, nei conservatori,nei teatri. Mi ricordo come all’epoca Dario Fo fosse più famoso in Germania che non in Italia, era incredibile. Ho visto passare intere tournee dal teatro di Dario Fo al teatro dell’avanguardia italiana.In quegli anni erano il famoso “Carrozzone”, o la “Gaia Scienza” che hanno fatto numerose tournee in Germania mentre qui in Italia erano costretti in iniziative saltuarie di Festival o relegati nelle fumose cantine romane. Io stesso ho dato una mano, fino a che ho potuto non essendo quello il mio settore, al gruppo della “Gaia Scienza” nell’aprigli la strada verso i teatri di ricerca tedeschi organizzandogli una tournee in tre musei che in quegli anni ospitavano performance e azioni teatrali: Folkwang Museum di Essen, il KunstMuseum di Dusseldorf e al Museo di Wuppertal. Infatti alcuni anni dopo il gruppo fece una tournee nei due templi dell’avanguardia teatrale tedesca il Teatro della Torre di Francoforte e nello spazio di Pina Baush di Wuppertal. In Germania era così, quando andavi dal direttore di un museo e gli proponevi una mostra, se gli piaceva il progetto, la prima cosa che ti domandava, contrariamente a quello che succedeva qua dove ti dovevi raccomandare o dovevi avere già una raccomandazione affinché venisse accettato il tuo progetto di mostra, ti diceva: “quanto le dobbiamo come onorario per questo suo progetto molto bello?”. Era così, perché professionalmente doveva essere così. Che poi, oggi, anche là sia tutto cambiato, questo è un altro discorso.

SR: Quanto è rimasta aperta la galleria là?

RP: Due anni e mezzo, ma in quel breve tempo ho organizzato mostre dei miei artisti,oltre che nel mio spazio, anche in prestigiosi Musei ed ho organizzato alcune collettive sul tema della Pittura Analitica che hanno lasciato il segno. Poi ho portato alcuni pittori con cui lavoravo,Gaul, Morales, Olivieri, Zappettini, ad avere una sala a Documenta6 di Kassel del 1977. Zappettini nella sua intervista ha specificato che purtoppo l’anno di ritardo provocò tutta una mutazione, ed è stato vero.

SR: Si, ha raccontato che ridussero gli spazi che precedentemente gli avevano assegnato.

RP: Si, avrebbero dovuto avere ognuno una sala. Fino al 1976, specie in Germania, c’era molta attenzione rivolta a questo tipo di pittura così riflessiva, autoriflessiva, quasi concettuale e invece nel giro di un anno sbucò fuori un nuovo stile di dipingere molto più figurativo e selvaggio la cosiddetta Pittura Spontanea, neoespressionista che fu poi etichettata dei “Nuovi Selvaggi”(Neuen Wilden). Ebbe facile presa perché molto simile e considerata erede dell’Espressionismo tedesco d’inizio secolo. Da lì presero poi il via tutta una serie di artisti che facevano una pittura molto espressiva, dai colori forti, molto più volgarizzata ma molto più emotiva. Questo finì per mettere al centro dell’attenzione più quella forma di pittura che non l’altra. L’altra era troppo silenziosa, più mentale, meno chiassosa.

SR: …si, ne parla anche Olivieri della Documenta6 di Kassel come la fine di un periodo…

RP: …si perché lui la vede sotto questa angolazione, forse Zappettini è più lucido…lui si aspettava veramente qualcosa da questa esposizione, come tutti noi, è come un gruppo teatrale o musicale, se vai a cantare all’Olimpià di Parigi ti aspetti poi che da quel concerto arriverai nei grandi teatri del mondo, e invece finisci per capire che è stata in realtà l’ultima chance che hai avuto, puoi solo tornare indietro. Io all’epoca, non subito, ma in seguito ebbi proprio questa sensazione.

SR: Pensa che ci sia un legame tra la pittura-pittura, compresa l’astrazione analitica e le correnti del passato o piuttosto che sia stato un momento di rottura


RP: Ma, nei confronti della pittura analitica o almeno in quelli che la facevano radicalmente, io non l’ho mai vista come una continuità con la pittura del passato, ma nemmeno come momento di reale rottura, strappo dalla pittura del passato. In quegli anni, ogni volta che veniva fatto un catalogo nei testi c’erano sempre riferimenti al costruttivismo russo di Malevic o al suprematismo,oppure, non so, con la pittura di fine anni ’50, di Stella quando faceva i quadri minimali oppure con Ad Reinhardt quando faceva i quadri neri, oppure ancora con altri. Quasi tutti i critici d’arte o i direttore di musei o storici dell’arte che scrivevano facevano sempre , riferendosi a questa pittura, un riferimento alla storia, riferimento a quel tipo di storia, come se fosse nel loro DNA, lo era, ma era talmente lontano e diverso che secondo me lo era fino ad un certo punto. E’ come dire che siamo tutti figli di Adamo ed Eva, è vero, ma i progenitori sono lontani nel tempo.…

SR: Magari facevano un collegamento formale.

RP: Si, è vero molti facevano un collegamento formale, probabilmente gli era più facile. Enche se vi si poteva leggere un certo collegamento formale dell’immagine realizzata sul quadro. Il collegamento formale giusto è quello con il minimal o, più che con Sol Lewitt che poi minimal lo è stato fino ad un certo punto, con le strutture di Donald Judd o certe istallazioni con il neon di Flavin. In fondo una serie di quadrati o rettangoli messi in un certo modo, accostati, facevano lo stesso pensare alla cultura del tempo. E’ come ho detto prima riferendomi al film di Fellini, quando un artista comincia a dire “questo è il mio modo di pormi di fronte alla tela” e comincia a costruire attraverso una serie di ipotesi un quadro, a quel punto lì il quadro è finito, quando cioè una serie di ipotesi è poggiata sulla tela. Non so se è chiara l’immagine che voglio dare. Una operazione di tipo concettuale fatta con il pennello. E infatti il più puro, il più intelligente e anche il più famoso, per sua fortuna è stato Robert Ryman, pittore americano che ha anche scritto sul tema delle cose stupende, proprio su quel suo “fare la pittura”. E continua ancora oggi a fare quadri bianchi. Tutti gli analitici europei lo guardavano in quegli anni, chi prò chi contro, comunque restava un punto di riferimento per tutti loro. In quegli anni mi sarebbe piaciuto fare una sua mostra, se avessi potuto. Riuscii a fare soltanto una mostra di grafiche di tre americani, in cui c’era R. Ryman con Brice Marden, che faceva quadri bianchi e neri, anche lui molto minimali e con Robert Mangold che faceva quadri dove c’era una sola linea centrale.

SR: Quale è stato il rapporto con gli artisti con i quali ha lavorato più a stretto contatto negli anni ’70? Mi sembra di capire che c’era tra voi un rapporto di amicizia più che di lavoro?

RP: Si, ci vedevamo spesso e spesso gli organizzavo mostre anche in altre gallerie, così ci vedevamo anche in altre gallerie e per altre occasioni. Qualche volta andavo nel loro studio a discutere con loro, su cosa stavano lavorando o su che cosa stavano progettando oppure su che cosa potevamo fare insieme, come mostre.Il lato pittura apparteneva a loro, il lato organizzativo, qualche volta, apparteneva a me. Poi non era proprio sempre così, però era questa un pò la divisione dei compiti tra noi.

SR: Il fatto che gli artisti della pittura con tendenze riflessive o analitiche,con cui appunto lei lavorava a stretto contatto in quegli anni, non si siano formati come gruppo, è stato per loro un punto debole secondo lei?

RP: La domanda ne implica altre: se pensi di costruire qualcosa per fare un gruppo che si affermi sul mercato o sulla scena dell’arte finisci comunque per perdere di vista che cosa devi fare. Penso poi che ogni artista se crede molto nella sua pittura finisce per credere meno in quella dell’altro anche se gli è compagno di strada. Adesso ti spiego, nemmeno con i tre o quattro pittori con cui ho lavorato più a stretto contatto e che quindi in ogni cosa che organizzavo io loro c’erano, mostre o qualsiasi altra cosa, si è potuto creare una specie di gruppo omogeneo, come tu pensavi potesse succedere, un po’ perché ognuno crede nel proprio territorio e non vorrà cedere automaticamente il passo a nessun altro, un po’ perché probabilmente i più puri pensano al soggetto principale al proprio interesse che è la pittura e non a creare un gruppo. Dovevo essere io forse che potevo, forzando la mano, chiedergli di far nascere un gruppo ufficialmente, lanciandolo. In realtà venne fatta una volta una riunione, ma finì che ognuno rimase delle proprie idee, cioè poi alla fine non facemmo nulla…

SR: Sì, però alcune esperienze degli anni ’60 hanno portato gli artisti a costituire dei gruppi, vedi ad esempio le esperienze dell’arte cinetica dove c’era proprio questa propensione per il lavoro e la ricerca collettivi, ricordiamo il gruppo T di Milano o il gruppo N di Padova o comunque anche gruppi non italiani…

RP: Certo, ma per questi gruppi era più facile, se così posso dirlo, perché lavoravano sulle forme (sulla GestaltTheorie) per cui potevano esserci, e secondo me ci sono stati, una divisione per settori nei campi della ricerca. Faccio un esempio:all’interno della ricerca del gruppo ci programmiamo che tu nella tua serie di lavori ricerchi lo spazio ottico usando forme piane e geometrie prospettiche, io svolgo la mia ricerca con forme che sviluppo nello spazio tridimensionale o fisico. Ecco credo che grosso modo così dovrebbe esser andata. Infatti riguardo alla pittura analitica la mancanza di un gruppo omogeneo ha forse creato più difficoltà ad affermarsi sia come idea generale del gruppo che come idea particolare riguardante la pittura fatta da ognuno di loro. Ma soprattutto, forse è mancato il critico propugnatore e un po’ menager. Se io penso al futurismo non mi vengono in mente altri nomi che quelli dei quattro/cinque firmatari del manifesto e in seguito tra quei quattro o cinque vedo le differenti personalità e le variazioni del lavoro. Solo che nel futurismo c’è stato Martinetti che ha assolto la funzione di propugnatore. Lui era l’intellettuale, l’uomo coinvolto con loro, con le loro stesse idee, però non dipingeva, forse se avesse fatto anche lui il pittore, finiva anche lì così. Sì, dovrei farmi un’autocritica, forse lì sono mancato io, o forse è mancato qualcun altro. Per un pò lo è stato Klaus Honnef il critico tedesco che ha organizzato le prime mostre di questo gruppo, però anche lui non ha mai circoscritto il gruppo a quei quattro o cinque e basta, ha sempre fatto mostre in cui rientravano dieci da una parte, venti dall’altra, mostre in cui c’erano cinque artisti di una galleria e cinque dell’altra. Probabilmente è anche vero che tutta la situazione non era poi così restringibile in un piccolo gruppo, forse questa è la semplice verità, perché in realtà fu una situazione piena di nuance, difficile da raggruppare. E’ un po’ come fare la quadratura del cerchio, più di tanto non puoi arrivare, questa è la mia idea.

SR: Abbiamo parlato fino ad adesso del suo rapporto con gli artisti, ma qual è stato il suo rapporto con i critici che frequentavano e presentavano le mostre nella sua galleria?

RP: Sui critici di Livorno e dintorni, più che altro giornalisti delle cronache locali, meglio non parlarne. Di questa città l’unico, allora giovane laureato, che mi impressionò per la sua conoscenza di filosofia e di estetica fu, verso la metà degli anni ’70, Massimo Carboni. Infatti lo aiutai subito facendogli tenere qui nella mia galleria le sue prime conferenze sull’arte contemporanea. Avevamo anche una visione vicina su molti argomenti del contemporaneo; tant’è che organizzammo insieme un paio di mostre una delle quali sull’arte “come citazione”dal titolo Arte e Storia dell’Arte. Ma per il resto niente di valido. Invece con i critici di Roma o Milano, più di livello nazionale, c’è stato, in alcuni casi un percorso in comune accordo, infatti per un pò di anni ho avuto lo stesso critico che scriveva per ogni catalogo delle mie mostre. Poi mi accorsi che i rapporti diventavano strani, lui cercava di proporre a me artisti che non mi piacevano o viceversa io chiedevo a lui di scrivere su artisti che a lui non piacevano e magari lo faceva ugualmente. Quindi nascevano scritti in catalogo da parte del critico vuoti oppure mostre che condividevo fino ad un certo punto. Per cui, alla fine, ho preferito mettermi sempre in accordo con l’artista sul critico che scrivesse in catalogo, di volta in volta cercando il più adatto alla situazione. Comunque con loro ho sempre mantenuto un rapporto professionale. Spesso con alcuni critici ho condiviso alcune linee generali di fondo. Con Filiberto Menna, ad esempio, ho condiviso, specialmente durante gli anni ’70, certe scelte, la sua visione estetica. Fui molto felice quando Einaudi pubblicò il libretto della sua “La linea analitica dell’arte moderna”. Ricordo che ne comprai numerose copie che diffusi tra gli amici e gli interessati frequentatori della galleria.SR: E con i collezionisti?RP: Con i collezionisti ho sempre preferito avere un ruolo propositivo. Io sono un propositore. Quando il lavoro di un artista mi piace lo invito a venire da me ad esporre, lavoro su lui, per lui e con lui per qualche mese prima dell’inaugurazione, due o tre mesi prima, nel momento della mostra e anche, qualche volta, per alcuni mesi dopo. Dopo di che per me la cosa è finita. Per dirla molto semplicemente mi piacciono di più le brevi, appassionanti storie d’amore, i flirt, che non i lunghi matrimoni che a volte possono diventare pesanti, insopportabili. Lo dico sempre ai frequentatori della mia galleria, il gusto, come l’arte, cambia, si rinnova, attraversa travagliati percorsi, difficoltà e insuccessi o sorridenti successi (io però stò sempre all’erta con quest’ultimi) e dopo questi percorsi si modifica e rispunta fuori inaspettatamente diverso da come avevi previsto di ritrovarlo. Insomma è la meravigliosa avventura dell’arte e delle ragioni delle sue mutazioni che, inseguendola, affinano il nostro gusto e ci spingono sempre in avanti, “fuori dalla caverna”. A volte mi incolpano di fare mostre difficili da capire, “da afferrare ed apprezzare”; di proporre artisti misconosciuti, poco assimilati dalla critica e tanto meno dal mercato. Ma sono proprio gli artisti “più difficili da afferrare e apprezzare” che ci impongono una maggiore attenzione, una concentrazione e quindi una riflessione sulle potenzialità che abbiamo di comprensione e di assimilazione del loro lavoro. Ti impegnano per aiutarli al meglio e allo stesso momento ti aiutano a migliorare le tue conoscenze e i tuoi metodi. E alla fine, quando riesci nei tuoi intenti, la soddisfazione che ne ricevi è enormemente più forte, anche economicamente. Per fare un esempio pratico: recentemente mi è capitata una buona occasione ed ho deciso di fare una mostra di H. Hofmann. Perché venivo da una serie di mostre su artisti newyorkesi degli anni ‘50/60, pittori della Scuola di New York, cosiddetta “action-painting”, quali Goldberg, Bluhm, Parker, K.Smith, e mi sono detto che non potevo non far vedere il lavoro di quello che era stato l’insegnante di molti di loro. Lui, tedesco di nascita e di formazione artistica, è stato una delle “matrici” originarie di tanta pittora americana degli anni ‘50. (Come l’altra matrice, che ha originato la linea più razionale di molta pittura e “Minimal” americana, è stato il tedesco, ex-Bauhaus, Joseph Albers ai cui corsi di pittura al Black Mountain College del Nord Carolina si sono formati i vari Frank Stella, K. Noland, Don Judd, Carl Andre e altri ancora. La maggior parte delle persone, anche del nostro ambiente, non sa che tanta della pittura americana del dopoguerra è scaturita da questi due ottimi artisti e altrettanto bravi insegnanti europei. Come Masson e Picasso furono la matrice originaria di molta pittura degli Espressionisti Astratti americani di prima della guerra). H. Hofmann per vivere aveva creato un suo atelier dove insegnava pittura a New York –la stessa moglie di Pollock, Lee Krasner, era stata sua allieva-. Questo vecchio bavarese, trapiantato a New York, durante l’insegnamento parlava ai suoi allievi con uno strano “slang”, un misto di tedesco/americano, quasi incomprensibile agli allievi, ed era costretto a spiegarsi mostrando ai suoi giovani allievi il “farsi” della pittura con esempi diretti. Da qui la sua produzione di numerosi fogli di pittura su carta di piccolo formato -dal costo basso e dalla bellezza compositiva intatta, ancora 50 anni dopo-. Ecco, in breve e parzialmente, spiegato come una galleria che faccia un tipo di lavoro, come questo, così come piace a me e lo intendo io,in una città come questa di Livorno mi abbia forzatamente costretto a spostarmi e frequentemente. Abbiamo parlato infatti delle cose fatte in Germania, dei miei continui viaggi là, ai quali devo aggiungere le numerose settimane trascorse a Roma, o a Milano o del continuo andare e tornare. Un viaggiare che è poco legato al piacere di girare e molto più al dover andare a vedere la mostra di un artista, a conoscere il tale, nello studio dell’altro, ecc. Ma parlavamo dei collezionisti e del modo in cui vedo il mio lavoro; cioè del fatto come io sia propositivo: scelgo un artista e le sue opere, gli preparo la mostra (cioè ne faccio una presentazione -a questo proposito mi piace molto il paragone con il teatro dove ogni sera va in scena una commedia, una volta comica, una volta tragica, una sera l’ Opera, un’altra sera un concerto- questo è il mio modo di vedere la galleria; un luogo dove si può andare a vedere le opere del tale artista o del tal’altro artista). Invece una galleria che lavora con artisti che ha a contratto, magari stipulato da un notaio, si ritrova costretta a lavorare con gli stessi artisti per numerosi anni o forse più. Che tipo di risultati ottiene? Che questi siano pure dei grandi artisti e che varranno un giorno moltissimo, questo a me interessa molto poco o fino ad un certo punto.E’ lo stesso paragone che facevo prima sul matrimonio: in quella condizione di contratto pluriennale devi prendere il bello e il brutto –esempio, se un artista sta facendo delle brutte opere, tu sei costretto a continuare a venderle e a proporle, malgrado tutto-. Se l’artista risulta essere una fregatura, dal punto di vista del risultato artistico o anche economico, il gallerista dovrà continuare a dire che è un Grande Artista; e dovrà dirlo a voce sempre più forte, per nascondere il mormorio contrario. Nella mia idea di galleria tutto questo non è previsto, quasi non esiste, perché io ti presento un artista, ma prima di proportelo ho guardato il suo lavoro, ho già fatto una scelta, mi è piaciuto, mi ha interessato e quindi lo espongo portandolo a Livorno e dicendo ai visitatori della mostra e agli altri: guardatelo e se vi piace compratevelo! Spesso purtroppo questo modo di lavorare non viene capito, anzi viene visto come qualcosa di opposto a quello che è. Molti credono infatti che un gallerista lavori seriamente con degli artisti solo se ha un contratto con loro, se ci investe sopra dei soldi. Naturalmente devo riconoscere che poi ci sono sempre le due facce per ogni medaglia, i risvolti anche negativi per ogni posizione presa. Il mio punto di vista comunque rimane integro e non lo considero assolutamente un disimpegno né economico, perché mi impegno con tutte le spese per trasporti, cataloghi e diffusione della mostra; nè tantomeno culturale, infatti cerco sempre il riferimento alla storia che lega il lavoro di quell’artista, in quel preciso momento, con ciò che è stato fatto, da lui o da altri, in precedenza o quello che in prospettiva sta preparandosi a sviluppare nel futuro. Spessissimo continuo a dire alle persone che entrano in galleria e guardano le opere ho in mostra: è un artista di una certa età,… che ha avuto una sua storia artistica e personale… oppure che negli anni tali faceva questo,….ora sta lavorando su queste opere,…mi sforzo di dare sempre i riferimenti necessari alla lettura e alla comprensione storica e stilistica del lavoro di ogni artista che presento ai visitatori. Per me un’opera d’arte assolve completamente alla sua funzione quando, dopo averla vista –anche senza averla comprata- ti costringe a cercare un libro o un disco per ampliare la tua comprensione nei suoi confronti; e non quando raddoppia o decuplica il suo prezzo durante un’asta internazionale. A proposito dei certi “valori” economici e delle sicure “valutazioni” forniti attualmente dai listini delle vendite internazionali, troppi sarebbero gli esempi esplicativi della relatività e della fallacità di tale tipo di certezze. Basterebbe ricordarsi delle recentissime vicende delle azioni della Parmalat o dei Bond Argentini.

SR: Che cosa pensa delle giovani generazioni di artisti? Della situazione attuale del mondo dell’arte?

RP: In questi ultimi 10 anni si è creata una situazione che non condivido molto, per una questione di fondo. Che le nuove generazioni vadano in accademia per apprendere, imparare e magari diventare “artisti”, questo lo trovo normale, ma quello che trovo anormale è che, appena laureati, si sentano consacrati “artisti” e si considerano già come tali. Molti di loro si considerano dei bravi strateghi (come papà Warhol ha loro insegnato) e mischiando insieme una certa idea sull’arte o sulle opere del tale artista –naturalmente scegliendo sempre quelle di uno già molto famoso e ben illustrato in ponderosi volumi- con delle cose che sono già state fatte precedentemente, magari facendo finta di non saperne nulla; oppure infischiandosene di tutto ciò che è stato fatto, producono una qualsiasi opera proponendola come “l’opera nuova”, tutta loro. Dandosi poi da fare per introdurla e farla accettare dalla critica o dal gallerista che l’aiutino a divulgarla nel mercato delle merci. In realtà invece sono solo pronti a infilarsi e a consacrarsi al mondo della produzione di opere ed oggetti per il mercato dell’arte. Questo è una tra le tante strategie per ottenere il successo e la gloria ma, secondo me, è proprio il sistema più sicuro per NON fare arte. L’arte, quando è sincera, non ha strategie e ha molto poco a che fare con la produzione degli oggetti per il mercato. Questo casomai riguarda più l’artigianato. Il modo di lavorare, di concepire così il proprio lavoro e il suo uso, a mio parere, non li può portare da nessuna parte. Magari li fa diventare ricchi e qualcuno anche famoso. Ma, capisci, facendo così si sono già venduti l’anima al mercato, al commercio. A volte non lo sanno e lo fanno inconsciamente sull’onda degli entusiasmi; ma la maggior parte si sentono sicuri, anzi sono certi di riuscire a gestire le cose, pur sapendo che stanno cavalcando una tigre. Può darsi che qualcuno, pur comportandosi così riuscirà ugualmente, a fare qualcosa di significativo, cosa che è probabile, auspicabile. Una cosa certa è che se l’importanza sul mercato delle opere che fai è determinata dal numero di milioni che vengono investiti sul tuo lavoro allora sarà l’investitore, o il gallerista, o il mecenate a diventare “il creativo”. I giocatori stanchi e delusi dai cavalli da corsa, dalle azioni della borsa o dagli investimenti in Argentina si sentiranno tutti autorizzati e in grado di diventare loro i creatori dell’ARTISTA. Ho la vaga impressione che in questo, malaugurato, caso il ruolo dell’artista sarà ridotto soltanto al mestiere, all’artigianato da arredamento. Credo che stia succedendo così perché le ultime generazioni sono cresciute un pò troppo fuori dagli insegnanti che hanno ricevuto all’Accademia, e molto sotto l’ala ideologica dell’autobiografia di Andy Warhol. Dalla lettura di quel libro hanno appreso tutte le scorciatoie utili per raggiungere il successo e il conseguente denaro, invece di comprendere tutte le difficoltà che l’operare nel mondo dell’arte comporta. Questo è il mio giudizio, morale e antieconomico, che dò sul problema delle nuove generazioni. Poi al di là di tutto questo, vedo anch’io dei lavori che mi piacciono. Ma mi troverei di più in sintonia con tutto questo fenomeno se fosse preso con molta più calma; che si calmasse tutta questa euforia, drogata, sulla scoperta del futuro genio a qualsiasi costo. Ne stiamo pagando, tutti, un prezzo troppo alto. Rischiamo di ritrovarci in pochi anni con un’intera generazione di artisti completamente bruciata, spompata, cioè spremuta e gettata dopo l’uso.

SR: La galleria che cosa sta trattando attualmente?

RP: Non è un caso che in questo momento abbia la mostra di Howard Smith che è stato uno dei protagonisti di quel gruppo, sfociato poi nella mostra che fu fatta al Museo di Williamston nel 1984 di cui ti parlavo prima e che si intitolava Radical Painting. Quindi cerco di riprenderne le fila. Sto pensando seriamente di rifare alcune mostre ad artisti di quegli anni, Cecchini, Morales, ora non saprei dirti se anche altri, però in queste mostre vorrei essere assolutamente più radicale che negli anni passati, proprio per far capire e vedere più chiaramente il tema. Tutto questo mi è facilitato perché nel frattempo questa tematica è stata ripresa, rivisitata. Si stanno facendo dappertutto mostre antologiche e riassuntive sulla pittura di quegli anni.E collezionisti importanti come Panza Di Biumo, per esempio, hanno dedicato una parte della loro raccolta a questa sezione visiva. Ora la chiamano pittura monocroma. Negli ultimi anni c’è, insomma, un rinnovato interesse sulla pittura. A maggior ragione mi piace ancor di più l’idea di rientrare sull’argomento riprendendolo e riproponendo mostre su tale tema e vorrei riuscire, specificando meglio ed entrando più attentamente su quei particolari che rendono più forti ed evidenziano le differenze tra un certo modo di fare la pittura da un altro.Il messaggio che dà questo tipo di pittura, che mi affascina molto, lo leggerai nel testo-intervista tra F.Sardella e Howard Smith che ho pubblicato nel catalogo della mostra. A differenza degli anni ’70, ora stò molto attento, non solo a scegliere il critico ma anche a fare in modo che il catalogo della mostra diventi qualcosa di quasi unico, documentativo.Per il catalogo di H.Smith ho chiesto a Sardella di fargli un’intervista, per farlo parlare in prima persona della sua pittura. E quando il pittore è costretto a parlare delle sue cose, delle sue idee, ne viene fuori un testo che non accompagna solo le immagini ma come in questo caso un catalogo, irripetibile. Esattamente come avevo fatto alcuni mesi fa con il catalogo della mostra di Lucio Pozzi in cui ho pubblicato una bizzarra conversazione tra Pozzi e Zanchetta, altro giovane critico, una congiunzione da cui è sortito uno scritto molto bello, esplicativo del modo di operare di Lucio. In alcune parti del testo viene fuori chiaramente questa sua idea di messa in crisi della visione univoca del suo fare arte, il suo costante rifiuto di produrre un unico prodotto circoscritto (quadro, scultura, foto, ecc.). Ti confesso che dopo tanti anni mi divertirebbe fare mostre di artisti che si mettono a fare veramente quello che gli pare e piace, senza lasciarsi coinvolgere dalle mode o dal mercato. Cioè artisti che si mettono, e mettono la loro opera, perennemente in discussione per tutta una serie di ragioni: il loro modo di fare arte, il loro modo di farla recepire. Di artisti così liberi e sganciati dalla loro stessa immagine. Tanto è vero, a proposito di editoria, che stò curando una collana di libri Pittura e Memoria per una casa editrice di Firenze la Morgana Edizioni. Abbiamo cominciato a fare i primi libri agli artisti con cui ero più in contatto e vicino come spirito. Era necessario accellerare i tempi poiché molti di loro hanno una veneranda età e per adesso la loro memoria è ancora lucida, ma… Comunque fino ad adesso abbiamo fatto sei volumi, pubblicandone due l’anno. Il primo l’abbiamo fatto con un artista parigino Renée Laubies, di origine francese, ma di nascita indocinese –la madre- che vive parte dell’anno in India e pratica la meditazione. Finita la meditazione prende gli acquerelli e lavora, e vengono fuori dei paesaggi fantastici, fatti di luce e colore, non realisti né naturalisti, impalpabili. Lui lavora solo con acquerelli su carta. Alcuni anni fa avevo fatto una mostra delle sue carte, mi erano piaciute, poi un giorno parlando con lui mi raccontava di queste sue visioni, della meditazione e in più mi parlava dei suoi vissuti nella Parigi degli anni ‘50/60, che oramai nessuno ricorda più perché o sono tutti morti oppure qualcuno ne ha scritto sui libri ma è scritto non dal punto di vista dellarte.E lui mi aveva suggerito l’idea di fare un libro sui suoi ricordi, un po’ gossip, un po’ memoria e su artisti con cui aveva lavorato a contatto di gomito o con personaggi della cultura del tempo. E’ un bel personaggio oltre ad essere un buon artista, un buon pittore. Ne è venuto fuori un libro che ridescriveva un’epoca, una città mitica e un’ambiente ormai scomparso.La collana avevo voluto si chiamasse Pittura e memoria perché come avevo spiegato all’editore la mia idea era quella di far parlare l’artista, il pittore, con il quale puoi anche parlare di vino o di osterie o di carte o di un paesaggio, finisce per essere sempre un modo di sentir parlare la pittura attraverso colui che la fa, cioè sullo sfondo della conversazione c’è sempre la sua arte e la sua pittura. Così ho chiesto agli artisti prescelti di descrivere in un testo, aforismi o brevi scritti, tutto quello che volevano e avevano in mente. La Morales è stata l’unica che, quando le ho proposto la cosa, è saltata su dicendo: “Io non parlo di osterie, né di vino, parlo, se parlerò, di pittura e della pittura che faccio io e basta !”…è stata radicale anche in questo. Però, per esempio, c’è stato Winfred Gaul, purtroppo adesso è morto, che nel suo libro ha descritto i suoi viaggi che faceva in Toscana negli anni ‘60, parlava delle osterie dove era andato un giorno, del buon vino che aveva bevuto, ma ci si sente, io ci sento, ancora oggi quando lo leggo, il pittore. Quando, per esempio, narra di un temporale improvviso che lo aveva colto per strada, mi sembra di vedere i colori del temporale. Anche perché, secondo me, per entrare dentro a questo specchio magico che è il quadrato della tela dipinta, non bastano soltanto gli occhi e la mente ma hai bisogno di tutta una serie di cose che ti prendano per mano e che ti introducano lentamente dentro questa porta magica. Perché un quadro è veramente, non ricordo chi l’abbia detto,una sorta di specchio di Alice e lo specchio in cui entri ti trasporta in un mondo fantastico. Anche un quadro semplicemente tinto di bianco, tipo quelli di Ryman -per esempio- oppure il famoso “Quadrato bianco su fondo bianco” di Malevic, alla fine riescono a darti tutta una serie di informazioni da trasportarti dentro il loro mondo. Ancora un altro esempio: con Michael Golberg, con il quale ho una grande amicizia da tanti anni, ci conosciamo da venti anni e gli ho fatto già 10 mostre personali, eppure non abbiamo mai passato una serata a parlare della sua pittura. Abbiamo parlato di una mostra che abbiamo visto, di un quadro antico nella tale chiesa, questo sì, ma mai apertamente della sua pittura. L’unico momento in cui riesco a parlare con lui su quello che fa è quando lo vado trovare nel suo studio però non devo mai chiedergli direttamente le cose, e questo l’ho capito già dalla prima volta che andai a trovarlo. Mi ricordo, mentre osservavo le sue opere, lui stava lì ed io continuavo a spiegargli facendo sfoggio delle ragioni culturali estetico e filosofiche per cui sceglievo un’opera invece che un’altra e lui stava lì in attesa, sembrava aspettasse che gli dessi una prova di intelligenza. Ad un certo punto gli dissi che sceglievo un quadro perché c’era una massa blu che entrava dentro una superficie gialla che mi piaceva molto; allora si è come risvegliato ricominciando la conversazione. Da allora, quando vado nel suo studio gli dico solamente: “ bello, questo mi piace”. Tanto è vero che spesso faccio delle “gaffe” enormi dicendogli di un quadro: “bello questo” e lui : “ma questo non è ancora finito!” e viceversa di un altro: “bello, devi finirlo?” e lui: “no, no, questo è finito!”. Non so, forse a volte penso lo faccia per gioco o, meglio, perché non ha ancora stabilito se quel quadro non ha più bisogno dei suoi interventi, pennellate.Davanti ai quadri, per farlo parlare della sua pittura faccio domande del tipo: “perché hai messo questa striscia rossa vicino a questa massa blu?” e lui: “perché ci stava bene” io insisto: “…e se fosse stata nera?” allora lui continua spiegandomi e parlandomi del nero e del perché non l’ha scelto. E’ l’unico momento in cui riesco ad entrare un pò nella sua pittura. Diverso e diametralmente opposto a molti altri artisti che si divincolano in cinquantamila modi per farmi capire quanto siano bravi, o quanto intelligenti o quanto siano perfetti artisti. In tutti questi anni mi sono reso conto che le cose quando sono complicate da comprendere e mi impegnano di più, mi coinvolgono maggiormente e mi costringono ad affinare il mio metodo di avvicinarmi a loro, e provo un gran godimento quando arrivo ad un risultato e riesco ad avvicinarmi un pò di più alla personalità dell’artista e alla sua pittura. Non vorrei parlare di crescita culturale, non penso che si tratti di una somma di cose che poi messe insieme producono un nuovo stadio; ma del fatto che un artista sia più difficile o diffidente di un altro; alcuni ti lasciano entrare facilmente, altri invece tendono a nascondersi o a intromettere ostacoli sul tuo cammino. Sta a te individuare e capire gli ostacoli, rimuoverli e procedere avanti. Goldberg è uno di quei pochi artisti della vecchia generazione con cui ho, da tanti anni, un ottimo rapporto. Forse mi è stato facilitato dal fatto che lui ha trovato la sua tranquillità nella campagna toscana, vicino a Siena, abbandonando la metropoli New York dove rientra solo per tre mesi l’anno. Così per me andare nel senese a trovarlo è più facile. So che alle 6/ 6,30 del mattino si alza a dipingere e solo dopo inizia la sua giornata. A New York insegna ancora, lui mi ha confessato che non ce la farebbe a stare senza i suoi alunni, gli mancherebbero troppo anche se spesso si sente un pò a disagio con loro, per quello che fanno, per le loro idee, per le cose che vorrebbero o che gli chiedono, ma poi alla fine risolve tutto dicendogli: “basta che fai una cosa che non mi costringa a girarmi dall’altra parte”. Lui è una specie di dinosauro dell’ultima generazione eroica americana degli anni ’50, che è cresciuto con il jazz e il rock and roll, con i poeti e scrittori della Beat Generation.Quindi ha l’esperienza di un mondo che ormai è quasi scomparso ma che è stato determinante in Europa per tutta la mia generazione. Non a caso che tutti noi abbiamo avuto un sussulto quando per la prima volta abbiamo visto qui in Europa una mostra dei quadri di Rothko. Quei quadri hanno segnato un’intera generazione. Anche la Morales mi confessò che rimase molto colpita dalla prima mostra fatta a Roma negli anni ’70 di Rothko e con lei tanti altri pittori, allora giovani. Probabilmente sarà dovuto al fatto che all’epoca le mostre erano organizzate per dare un’informazione precisa sul lavoro di un artista, dalla A alla Z. Anche le altre mostre, le collettive tematiche, erano precise, scientificamente attendibili. Oggi invece molte mostre vengono fatte per vendere biglietti all’ingresso; anche nelle mostre è entrato quel meccanismo del consumismo di cui parlavamo prima. Questo è il punto a cui sono giunto recentemente. In seguito poi non so dove approderò. Ogni tanto riesco a proporre delle mostre in spazi pubblici o museali che accettano il miei progetti e mi aiutano economicamente a realizzarli come due anni fa al Palazzo Rocca di Chiavari dove, con l’aiuto dell’Assessorato alla Cultura, sono riuscito a organizzare una mostra che avevo in mente da molto tempo O’Hara, Bluhm e Godberg: un poeta e due pittori nella New York degli anni’50. Una mostra in cui avevo riunito tre vecchi amici e le loro opere; ricreando nelle sale della mostra l’atmosfera di quegli anni a N.Y. Recentemente ho organizzato con l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Brescia in quattro immensi spazi di ex fabbriche, cotonifici e acciaierie situate nella Val Sabbia e recuperate all’uso per eventi culturali, una mostra sul tema dell’arte fatta attraverso il riuso, il riciclaggio degli oggetti trovati. Il titolo della mostra era già indicativo Rifiuto Riusato ad arte .Una rassegna dove ho riunito opere di artisti più anziani degli anni ‘50/60 insieme a quelle di altri più giovani ed, in un vecchio mulino restaurato, avevo esposto una sezione di fotografi degli anni ‘60/70 che hanno fotografato discariche. Tutte le opere degli artisti invitati erano fatte su questo tema, riutilizzando nell’opera rifiuti urbani. Un modo di lavorare che viene da lontano, i cui progenitori, riconosciuti erano stati i dadaisti degli anni del primo dopoguerra. Oggetti accumulati e riassemblati con un metodo di lavorare però più vicino al dadaismo di Switters che a quello di Duchamp. Infatti vedevo nelle opere di questi giovani una relazione che discendeva dal dadaismo e poi subito, come padri appena vicini, dai Nouveaux Realists francesi, come Arman, César, Tinguely, ecc. Non a caso che il progetto di questa mostra mi sia nato dopo la serie di personali che ho organizzato nella mia galleria di alcuni tra i protagonisti del Novorealismo francese: Spoerri, Villeglé, Dufrene, Deschamps,e il nostro Rotella. Nei loro lavori di riciclaggio di oggetti trovati i Novorealisti avevano modificato molte cose in confronto all’uso che ne facevano i dadaisti. C’è una frase di Arman che mi aveva colpito molto e dice: “un bullone dà di se un’immagine, cinquecento bulloni messi dentro una scatola trasparente tutti assemblati insieme, un po’ alla rinfusa, me ne dà tutta un’altra”. Probabilmente un certo interesse per quel modo di lavorare mi è sorto preparando le loro personali e frequentandoli. Oggi la nuova generazione vi aggiunge qualcosa di più contemporaneo. La recente generazione aggiunge qualcosa nelle opere o nei loro assemblaggi, non soltanto degli oggetti messi lì accumulati e accomodati ma ne modificano e variano l’insieme, gli fanno fare dei percorsi, spesso ne reinventano l’immagine e l’immaginario, giocando tranquillamente e ironicamente sull’insieme; con uno sguardo più attuale e disincantato, ormai lontano dal feticismo dissacrante del dadaista e dalla contemplazione esistenziale parigina dei Novorealisti. Questo rende il lavoro che fanno qualcosa di nuovo. Un lato inatteso nelle loro installazioni. Sono tutti artisti sui cinquanta anni, quindi nemmeno più così giovani, ma non sono ancora usciti all’attenzione del grande pubblico e mi fa piacere aiutarli e condividere il tema del loro lavoro. Ad alcuni ho già fatto qui da me a Livorno una personale e spero di realizzarne altre in futuro. Questo vorrà dire che le loro opere continuano ad entusiasmarmi e a piacermi. Invece sulle recenti, nuove leve, ribadisco, sono un po’ scettico, come ti ho già detto cerco di capire, aspetto di vederne gli sviluppi. Senza chiudermi completamente alle novità né, tantomeno, alle eventuali riscoperte. Ormai ho superato il traguardo, dei 35 anni di attività, cosa di cui sono molto orgoglioso. Sono prossimo a organizzare la trecentesima mostra nella mia galleria per cui aspetto di giungere ai 40 anni di attività ininterrotta per fare un serio bilancio del lavoro fatto e magari editare un ampio volume riassuntivo di tutta questa massa di lavoro. Alla fine, per concludere questo nostro incontro e riprendendo la metafora che facevo prima, paragonando il nostro mondo dell’arte e degli artisti ad un bosco, ad una foresta, sicuramente posso affermare che ho vissuto tutti questi miei anni in un luogo incantevole, respirandone un’aria pura, a volte meno fresca, ma sempre circondato dal profumo di clorofilla (cioè di acqua ragia). Forse non sempre sono arrivato a salire sulle querce giganti o sugli abeti millenari che dominano nella foresta ma ho riempito la mia dispensa di molti vasetti di marmellata di fragole e di mirtilli per la gioia mia e dei golosi come me.