Bruna Soletti (Il mio ricordo)

È SCOMPARSA LA GALLERISTA E COMPAGNA DI VINCENZO AGNETTI. NE RIPERCORRIAMO LA VITA E LA CARRIERA, IN ATTESA DI UN INCONTRO A CURA DELL’ARCHIVIO AGNETTI CHE IL 25 NOVEMBRE NE CELEBRERÀ IL COMPLEANNO E IL LAVORO.














Bruna Soletti

Il 3 agosto 2020 è scomparsa Bruna Soletti, compagna e moglie di Vincenzo Agnetti e gallerista di primo piano nella Milano tra gli anni Settanta e Ottanta. Con Agnetti aveva vissuto e partecipato al fermento della vita artistica milanese degli anni 70 e dalla sua scomparsa nel 1981 era diventata la custode di buona parte della sua produzione artistica, difendendone strenuamente la memoria, nonché l’ispiratrice dell’attuale archivio. 


Il mio personale ricordo di BRUNA SOLETTI.

Negli oltre 50 anni delle mie frequentazioni nel mondo dell’arte contemporanea non ho mai più avuto l’occasione di incontrare una persona come lei. A mio vedere Bruna Soletti era una personalità dal carattere forte, volitivo e ostinato. Nei confronti delle persone del nostro ambiente i suoi giudizi erano diretti, spesso taglienti ma sempre dichiarati frontalmente, mai dietro le spalle: insomma non te le mandava a dire e colpiva spesso un aspetto inaspettato dell’interlocutore. Con me aveva sempre tenuto un atteggiamento di benevolenza, anche se mi ha mandato a quel paese numerose volte, credo avessimo una reciproca stima. Ci avevano presentati durante la vernice della mostra di Castellani alla Pinacoteca di Ravenna nel maggio 1984 e già durante quel nostro primo colloquio le avevo espresso la mia passione per l’opera di Vincenzo Agnetti e il mio desiderio di fare una mostra con le sue opere nella mia galleria a Livorno chiedendole di aiutarmi. Però ho dovuto sudare sette camice prima di riuscire a realizzarla concretamente, ogni volta che andavo a trovarla nel suo spazio-galleria di Piazza Sant’Alessandro aveva sempre qualcosa di più urgente da organizzare, confessandomi poi che non le sembrava arrivato il tempo giusto per una mostra di Agnetti da me a Livorno; riteneva i prezzi delle opere sul mercato, in quel momento, ancora troppo bassi e quindi non intendeva svendere le opere a così poco. Infatti sono poi riuscito a realizzare la mostra nell’aprile 1997 quando i valori avevano cominciato a lievitare e a raggiungere quel minimo di quotazioni ritenute da lei interessanti. Grazie agli intensi anni vissuti nei momenti in cui scaturiva e poi si concretizzava il progetto per la rivista e la galleria “Azimuth” e, in seguito, negli anni in cui aveva preso la direzione della Galleria milanese L’Uomo e l’Arte, conosceva tutti e tutti la conoscevano, qualcuno la stimava e altri la denigravano ma lei, imperterrita, continuava il suo ritmo senza sosta. Conoscendola da vicino e frequentandola spesso avevo una ammirazione per il suo carattere forte e combattivo tipico delle persone che hanno passato molte battaglie. In modo particolare stimavo la sua coerente venerazione per la mente e per l’opera di Vincenzo Agnetti. Pur essendone la moglie, menzionandolo sia con gli estranei che con gli amici, parlava di lui sempre in terza persona dicendo “l’Agnetti ha fatto” oppure “Vincenzo Agnetti ha detto questo o scritto quello” non si riferiva mai a lui o alla sua opera come “mio marito” o “il mio compagno” questo era un particolare che mi aveva colpito sin dal nostro primo incontro. Aveva vissuto come testimone dall’interno a fianco di Agnetti, tra gli anni fine ’50 e 60, durante tutta quella fase di costituzione e lancio del gruppo e della rivista “Azimuth” di cui l’Agnetti era lo stimato teorico; infatti nella sua casa come nello studio di Agnetti si svolsero molti degli incontri tra i milanesi Manzoni, Castellani, Dadamaino con i tedeschi del gruppo Zero come pure con tutti gli altri artisti, italiani e stranieri, che frequentavano la Milano di quegli anni. Di fatto la casa e lo studio di via Machiavelli erano diventati un polo di attrazione per una ristretta élite di artisti radicali europei e internazionali che intendevano rinnovare l’arte dalla base; posizionandosi, casualmente, all’opposto della cerchia più ampia degli artisti frequentatori del Bar Giamaica di via Brera, dove la situazione era sempre aperta e variabile così che chiunque arrivasse a mostrare le sue capacità culturali veniva annoverato nella cerchia artistica della Milano dei ‘50/60. Quando in quest’ultimo decennio avevo cominciato a editare piccoli libretti sulle teorie dell’arte o sulle memorie di artisti gli avevo offerto molte volte di pubblicare un suo eventuale scritto di memorie su quegli anni formativi di “Azimuth” e sulle frequentazioni dello studio Agnetti o di via Machiavelli. Per facilitarne la riuscita ero arrivato a incaricare una critica d’arte che facesse con lei una conversazione o un’intervista; ma non c’è stato niente da fare si rifiutava categoricamente di narrare aneddoti sulle vicende e sugli incontri-scontri di quegli anni, non voleva fare gossip su una situazione che riteneva seria e importante. Mi è dispiaciuto molto non essere riuscito nel mio intento e, a mio avviso, con la sua scomparsa tutti noi abbiamo perso cognizioni su storie, aneddoti, avvenimenti e teorie che raccontati direttamente da una testimone partecipe come lei, ci avrebbero aiutati a capire meglio i fatti di quegli anni. Ma quella è stata per me una ennesima conferma della sua fermezza di convinzioni e della serietà della sua strategia nel difendere e diffondere l’opera di Agnetti che infine non mi è dispiaciuto rispettare.

Roberto Peccolo 20/10/20